martedì 23 dicembre 2008

Il giardino di limoni

Un bain de sang inutile, Le Monde

L'histoire se répète à Gaza. Une nouvelle fois, l'option militaire été choisie par le gouvernement israélien pour tenter de mettre un terme aux tirs de roquettes qui arrosent son territoire depuis plus d'un mois. Que ces tirs, visant des zones civiles, constituent autant de crimes de guerre ne fait de doute pour personne, même si le nombre de victimes reste limité rapporté au nombre des projectiles tirés depuis 2001. Ils rappellent que, en dépit d'un retrait unilatéral bâclé, en 2005, Israël n'en a toujours pas fini avec Gaza, qu'il continue d'ailleurs d'assiéger.

Par le passé, pourtant, jamais la surpuissance de feu israélienne n'est parvenue à faire taire les milices palestiniennes, pas même lorsque les blindés israéliens occupaient les villes et les camps du nord de Gaza. En revanche, chaque attaque lourde a entraîné un bain de sang dans ce territoire surpeuplé, où des milliers de civils sont piégés par les combats. Il en va de même aujourd'hui avec l'attaque la plus meurtrière, sur ce territoire, depuis 1967. En interdire l'accès aux journalistes, comme le font les autorités israéliennes, ne change rien à cette réalité.

Il reste donc à prouver que cette opération, à sept semaines d'élections législatives qui ne paraissent pas favorables à la coalition au pouvoir, peut produire plus de résultats que les trêves négociées par l'entremise de l'Egypte.

Si l'objectif, comme les responsables israéliens l'ont clamé haut et fort avant la reprise des hostilités, est de porter un coup sévère, sinon définitif, au Mouvement de la résistance islamique (Hamas), il y a fort à parier que la décision israélienne se heurtera à une douloureuse réalité. Le Hamas est puissant lorsque ses thèses radicales semblent validées par les faits, que la diplomatie est en panne et que l'Autorité palestinienne apparaît au mieux comme accessoire, au pire comme l'auxiliaire d'un Etat qui continue d'occuper la plus grande partie de la Cisjordanie.

Les assassinats de ses fondateurs historiques et de centaines de miliciens, depuis le début de la deuxième Intifada, n'ont pas empêché le Hamas de prendre le contrôle de Gaza en 2007.
Seule une perspective de paix sérieusement soutenue par la communauté internationale pourra l'en déloger".



Un giardino di limoni. Quanto è reale la sicurezza costruita sui muri di cemento e l'odio di chi si sente privato di tutto? Ecco un bel film che racconta la questione israelo-palestinese partendo dalla vita delle persone.

lunedì 15 dicembre 2008

Pio La Torre, una vita dalla parte giusta

Lumsa News, praticantato giornalistico

di Gabriele Santoro


Il 30 aprile del 1982 a Palermo la mafia uccise Pio La Torre. Prima sindacalista e poi esponente di primo piano del Pci, che ha legato il suo impegno politico al contrasto del fenomeno mafioso e allo sviluppo della Sicilia. Nel pieno della scorsa estate il sindaco di Comiso decide di rimuovere l’intitolazione dell’aeroporto cittadino a Pio La Torre. Malgrado le pressioni unanimi del mondo politico sul giovane sindaco la questione non si è ancora risolta. In questa intervista Franco La Torre, figlio di Pio La Torre, ripercorre la vicenda umana e politica del padre.

Lo scorso mese di agosto il neoeletto sindaco di Comiso ha deciso di rimuovere l’intitolazione dell’aeroporto della città siciliana a Pio La Torre. Perché e a che punto siamo della sconfortante vicenda?
Abbiamo impugnato la delibera della giunta comunale di fronte al tribunale amministrativo di Catania, perché l’azione politica non è stata sufficiente a far tornare indietro sui suoi passi il sindaco di Comiso. Non sono bastate le migliaia di firme raccolte da Articolo 21, le oltre cento firme di parlamentari di tutti i partiti politici sull’ordine del giorno presentato alla Camera e portato personalmente al presidente Gianfranco Fini, come non è bastata la manifestazione dell’11 ottobre a Comiso (a cui hanno partecipato migliaia di persone, tra cui il leader del Pd Walter Veltroni) e neanche il messaggio del presidente Giorgio Napolitano. Il senso politico di questa decisione? Posso dire che lui aveva assunto questo impegno in campagna elettorale e una volta eletto ha tolto l’intitolazione a Pio La Torre. Ci vedo un messaggio che va oltre la città di Comiso. Non si tratta di commemorare un siciliano illustre, ma di rappresentare l’impegno politico e il sacrificio di mio padre per la Sicilia.

Chi era Pio La Torre e cosa ha significato la sua figura nella vita politica siciliana e italiana?
Pio La Torre era figlio di contadini poveri del palermitano. Nasce nel 1927 e passa gli anni della sua infanzia nella contrada Altarello di Baida a studiare e ad aiutare il padre nel lavoro dei campi. Con la maggiore età, alla fine della seconda guerra mondiale, decide di impegnarsi in politica. Muove i primi passi come sindacalista nella Federterra, un’organizzazione per la difesa dei diritti dei contadini contro il latifondo, e poi prenderà il posto di Placido Rizzotto (sindacalista ucciso dalla mafia il 10 marzo 1948, ndr) come segretario della camera del lavoro di Corleone. Negli Anni Cinquanta la carriera sindacale si abbina in parallelo a quella politica. Diventa consigliere comunale di Palermo e comincia a interpretare un’azione politica volta al riscatto della Sicilia, allo sviluppo dell’isola nel quadro di un più generale impegno per la legalità e la lotta alla mafia. Negli Anni Sessanta grazie alla brillante carriera sindacale viene nominato segretario regionale del Pci e deputato nel parlamento regionale siciliano.

Alla fine degli Anni Sessanta matura la decisione di trasferirsi a Roma alla direzione nazionale del Pci e porta con se tutta la famiglia. Nel 1972 viene eletto deputato al parlamento nazionale e si impegna principalmente nella commissione parlamentare antimafia, dove insieme al giudice Terranova, eletto come indipendente nelle liste del Pci, stila la relazione di minoranza. Nel 1981 decide di ritornare a impegnarsi nella battaglia politica in Sicilia ed è protagonista della battaglia pacifista contro l’installazione dei missili con testate nucleari nella base Nato di Comiso. Il 30 aprile 1982 fu ucciso dalla mafia.

Quale motivo ha spinto la mafia a commettere un omicidio eccellente come quello di Pio La Torre?
Non credo che ci sia una sola causa scatenante perché in Italia venga deciso l’omicidio di un uomo politico. In genere si verificano una sovrapposizione di cause e interessi. Come lascia intendere la vicenda processuale e la sentenza definitiva ad agire fu un gruppo di fuoco comandato dall’allora cupola mafiosa, ma resta il fatto che un omicidio eccellente come quello di mio padre la mafia non potesse deciderlo da sola. Per quasi quarant’anni Pio La Torre era stato intransigente con la mafia. A partire dalle sue prime denunce come consigliere comunale di Palermo, facendo puntualmente i nomi e i cognomi dei responsabili del sacco che la classe politica collusa con la mafia metteva in atto stravolgendo il carattere urbanistico del capoluogo siciliano.

Andandosi a rileggere la sua relazione di minoranza, metà anni ‘70, nella commissione parlamentare antimafia si ritrovano elencati come mafiosi o collusi persone di rilievo, che poi vennero coinvolte nelle inchieste condotte dalla Procura di Palermo alla fine degli Anni Ottanta.
La mafia temeva la libertà, che aveva distinto l’azione politica di mio padre dal primo all’ultimo giorno. Era giudicato un tenace dirigente di massa, in grado di mobilitare le coscienze anche su fronti particolarmente impegnativi come la battaglia pacifista ed europea di Comiso.

Da ultimo la mafia non ha perdonato a mio di essere l’autore grazie al contributo di tanti, dal giudice Giovanni Falcone al generale Dalla Chiesa, del disegno di legge che riconosceva finalmente il reato di associazione mafiosa, introduceva il carcere duro per i mafiosi e prevedeva il sequestro e la confisca dei beni dei boss. Per la sua battaglia sindacale, per il suo impegno nel partito comunista e per la pace, come riportano gli atti del processo, Pio La Torre era sottoposto a una stretta sorveglianza da parte dei servizi segreti. Sorveglianza che si interrompe pochi giorni prima del suo omicidio e ciò fa ritenere che la decisione di ucciderlo non fosse stata presa esclusivamente in seno alla cupola mafiosa, anche se di questo mancano delle prove acclarate.

Una delle eredità fondamentali lasciate da suo padre allo Stato italiano è la legge Rognoni-La Torre. Sepolta per anni nei cassetti del parlamento, per essere poi approvata dopo la sua uccisione. Quanti e quali risultati ha prodotto?
Il risultato più eclatante è stato il famoso maxi-processo istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: per la prima volta la giustizia italiana ha messo alla sbarra centinaia di mafiosi, tra boss di primo piano e affiliati, condannandoli a pene che ancora oggi molti di loro stanno scontando. Ha consentito alla magistratura, alle forze inquirenti e alle forze di polizia di attrezzarsi per una battaglia veramente incisiva, perché non dimentichiamoci che fino a quel momento i reati di mafia erano accomunati a una qualunque altra semplice associazione a delinquere.

L’altro aspetto fondamentale della legge centrava quello che per mio padre era il principale obiettivo per un efficace contrasto del fenomeno mafioso: colpire le ricchezze accumulate dalle cupole. Un passo successivo altrettanto importante è stato l’integrazione della legge. Grazie alla forte spinta della società civile, con in prima linea Don Luigi Ciotti e l’associazione Libera, il parlamento ha approvato la norma che consente il riutilizzo dei beni sequestrati; messi a disposizione della comunità attraverso l’assegnazione a enti pubblici locali o ad associazioni.

Giovanni Falcone affermò:“La mafia come tutti i fenomeni umani ha avuto un suo inizio e avrà una sua fine”. In Italia si ha la sensazione che un sistema o metodo culturale mafioso che coinvolge economia, politica e crimine abbia pervaso i gangli vitali di molta parte della società.
Il giudice Falcone aveva ragione, la mafia come tutte le cose umane prima o poi finirà, ma nel frattempo si può evolvere e la mafia si è evoluta tantissimo. Non è più quella del latifondo che mio padre aveva conosciuto, non è più la mafia urbana degli anni ‘50 e ‘60 che si nutriva di estorsioni e speculazioni, non è più solo quella dei grandi traffici illeciti a livello internazionale.
E’ quella che dagli Anni ‘80 si afferma come la mafia dei colletti bianchi, degli operatori finanziari, delle holding che riciclano l’enorme patrimonio accumulato in affari leciti, investimenti immobiliari e imprese. La mafia riesce anche a liberarsi da quella subalternità verso la politica, che utilizzava le cupole come grande serbatoio di voti, da compensare poi con appalti. Nell’ultimo scorcio del secolo scorso la mafia comincia a decidere chi dei propri membri diventa rappresentante degli interessi mafiosi negli organi democraticamente eletti, dai consigli comunali ai parlamenti nazionali.

Come ha saputo dell’omicidio di suo padre e come si riesce a vivere poi?
Ho appreso la notizia per motivi professionali. All’epoca dirigevo una radio locale romana. Quella mattina ero appena entrato in redazione, dove all’ingresso avevamo un telefono pubblico che utilizzavamo come numero di riferimento per una rete di piccole emittenti collegate alla radio per quanto riguardava i giornali radio. Squillò il telefono. Era il direttore di una di queste radio minori che non avendomi riconosciuto mi comunicò di aver appena appreso la notizia dell’omicidio di Pio La Torre, mio padre e me ne chiedeva la conferma.

Senza rispondere ho agganciato il telefono, ho aperto la porta e sono scappato a casa. Sono giorni di cui non conservo una memoria molto lucida. La memoria è confusa e poi quando ti uccidono un padre…ci si mette un bel po’. Un ricordo tangibile è che mi sono caduti tutti i capelli. Ancora oggi ne porto le tracce. Quei capelli che mi mancano mi caddero all’età di 27 anni, la mia età quando fu ucciso mio padre, mi dicono perchè uno scarica tutta la tensione nelle parti meno essenziali per la sopravvivenza. Momenti durissimi che diventano sostenibili solo con l’affetto dei cari, anche grazie a una certa autodifesa adottata in famiglia. A parte mia madre, da subito esposta in pubblico, io e mio fratello maggiore abbiamo coltivato una dimensione privata di tutta la vicenda.

Che cosa fa lo Stato italiano per i parenti delle vittime di mafia. Si viene uccisi due volte?
Intanto le vittime della mafia sono sole anche prima. La mafia ci ha insegnato che in genere colpisce coloro che non godono di un sostegno unanime o comunque li colpiscono nel momento in cui sono deboli. È un destino comune: coloro che sono stati uccisi dalla mafia erano isolati o non godevano del sostegno dovuto. I familiari soffrono dello stesso destino della vittima. Allo stesso tempo devo dire se questo discorso è valido a livello istituzionale, non lo è a livello di società civile. Sono stato testimone, come molti altri, del successo superiore ad ogni aspettativa delle iniziative di carattere pubblico organizzate dalle varie associazioni.

venerdì 21 novembre 2008

Africa, i diritti dei popoli senza rappresentanza

L'edizione online de Il Sole 24 Ore ha ripreso l'intervista che è possibile leggere di seguito.

http://africa.blog.ilsole24ore.com/2008/12/africa-terra-di.html

di Gabriele Santoro
In questa intervista il camerunense Martin Nkafu, docente di filosofia e storia africana alle Università pontificie gregoriana e lateranense di Roma, affronta il tema del neocolonialismo economico e delle crisi regionali che devastano il continente africano.

Qual è l’origine del conflitto congolese e delle guerre africane?
I conflitti fra tribù erano dovuti alla spartizione della terra per la pastorizia e l’agricoltura, non serviva certo un genocidio per risolvere questo tipo di contese. Non avevano proprio gli strumenti per fare la guerra. In Africa le cosiddette guerre etniche sono cominciate con la formale indipendenza dai paesi colonizzatori. Lo smantellamento degli arsenali militari dei due blocchi dopo la fine della guerra fredda e il traffico mondiale delle armi hanno riempito il continente africano di strumenti di morte. I machete del genocidio ruandese furono importati nel 1993 dalla Cina, non erano certo una produzione locale. La più grande disgrazia degli africani è l’immensa ricchezza del proprio sottosuolo e il non possedere le tecnologie per poterle sfruttare direttamente. L’opportunità di stipulare accordi equi con chi ha i mezzi, l’Occidente, per la commercializzazione della ricchezza naturale rende inutile la guerra. Il problema nasce dal momento in cui questi patti vengono siglati tra l’Occidente e individui che non hanno alcuna rappresentanza popolare. I Capi di Stato africani rispondono a loro stessi, alla loro famiglia etnica. Tutte le potenze, prima coloniali e oggi economiche creano, sostengono e proteggono questi tiranni per mantenere un controllo diretto sulle risorse. Sono questi i veri protagonisti delle guerre africane. Dal 1990 in poi l’accesso a queste leadership era possibile solo attraverso colpi di stato militari e conflitti interni tra gruppi etnici. Uganda, Ruanda, Etiopia e Congo sono chiari esempi di questa strategia, dove l’aiuto straniero per arrivare al potere ora è ricambiato con un ruolo chiave nel governo del paese.

Che cosa significa il traffico di armi in Africa?
L’Africa non ha bisogno di armi, ma di cibo, d’infrastrutture utili alla società e del know-how tecnologico. Il continente è diventato il mercato privilegiato per l’esportazione di armi delle industrie occidentali e asiatiche. La moneta di scambio con cui viene pagato lo sfruttamento delle risorse naturali sono le armi che servono al tiranno o ai gruppi di ribelli, punti di riferimento variabili dell’interesse occidentale, per mantenere il controllo del territorio e fare la guerra quando questo viene meno. Il prezzo delle armi supera spesso quello delle materie prime, creando un circolo vizioso in cui i magri bilanci statali scoppiano per l’indebitamento pubblico. Nel momento stesso in cui le decisioni dell’Onu sono prese dagli stessi paesi che sono coinvolti nelle guerre come fornitori di armi, risulta chiaro come sia difficile fermare i genocidi. Il Consiglio di Sicurezza dovrebbe prevenire i conflitti, con la messa al bando del commercio di armamenti, piuttosto che lanciare inutili appelli al cessate il fuoco. Anche in Africa c’è un’imponente industria delle armi. Sud Africa e Uganda sono i leader della produzione: il 32% dell’esportazione sudafricana è destinata al mercato continentale. Molte società come l’ugandese “Nakasongola Arms Factory” opera in joint venture con i governi cinesi, nordcoreani e sudafricani. Gli Stati Uniti hanno anche una strategia militare precisa nel continente per arginare il rischio del diffondersi del terrorismo islamico. Il Pan-Sahel Initiative è stato promosso per accrescere le relazioni e la collaborazione tra l’esercito statunitense e quello dei paesi del Sahel, la regione intermedia tra il Sahara e l’Africa nera.

In che cosa consiste il neocolonialismo economico?
Le multinazionali sono la brutta faccia del colonialista di un tempo. Rispetto al passato agiscono in maniera invisibile, ma ugualmente pesante. Riescono a far credere che fanno del bene, a farsi apprezzare come un benefattore. Questo tipo di neocolonialismo sostiene la pace senza spiegare al mondo i motivi della guerra. Un sistema economico in cui il colonizzato diventa parte attiva della sua stessa colonizzazione. Il tuo sviluppo per me è l’inferno, dove pochi diventano sempre più ricchi e il resto della popolazione viene lasciato a livelli minimi di sopravvivenza. Porto un esempio concreto. In Africa l’80% delle malattie è dovuto all’acqua non potabile. Costruire chilometri di strade asfaltate non serve alla gente, che nei villaggi non possiede automobili, mentre la distribuzione nelle scuole di acqua potabile gratuita o a prezzi accessibili significa fare economia utile alla comunità. Le vie da percorrere per il nostro sviluppo sono due: lo stop immediato al mercato delle armi che oltre a provocare la morte di milioni di innocenti, distrugge l’economia nazionale. Il secondo è diventare un attore mondiale cambiando gli schemi di una globalizzazione che sta fallendo nell’obiettivo della distribuzione del benessere.

Quanto incide il problema dei profughi nelle crisi regionali?
Questo è un fattore di destabilizzazione molto grave. Se l’Onu fallisce anche nella gestione dei profughi è meglio che chiuda definitivamente. Le popolazioni costrette a scappare per sfuggire alle violenze, una volta concluse le ostilità, devono tornare nella propria terra. Le aree di guerra non possono diventare zone franche, in cui le ricchezze siano saccheggiate con le armi e poi diventino proprietà altrui. Il rientro nei luoghi di origine eviterebbe tutte le tensioni sociali e i problemi economici di chi ha perso qualunque tipo di sostentamento.

Che cosa regge in piedi gli Stati africani?
Gli Stati africani sono sull’orlo del fallimento. Le elite politiche che li guidano da molto decenni non hanno alcuna rappresentanza sociale. La società africana fin dalle sue origini è sempre stata comunitaria, un villaggio non poteva vivere nell’autosufficienza, decontestualizzato. In Africa il governo detto democratico, in realtà è proprietà di un dittatore che fa svanire il concetto stesso di democrazia: governo del e per il popolo. Il bene pubblico, come le risorse naturali, si trasforma in un bene individuale che non apporta alcun beneficio alla comunità. Seguendo il concetto europeo di mettere nei posti di comando miei familiari o gente della mia terra, di cui ho piena fiducia, le proprietà dello Stato diventano prerogativa di un’etnia. Ed ecco che scoppiano le tensioni etniche di chi non si sente rappresentato. Nel testo costituzionale sudafricano è contenuto il valore culturale più importante su cui si fonda la nostra società: l’Ubuntu. “Ciò che è mio è tuo”. È un'espressione in lingua bantu che indica "benevolenza verso il prossimo". È una regola di vita basata sul rispetto dell'altro. Appellandosi all'ubuntu si è soliti dire Umuntu ngumuntu ngabant, "io sono ciò che sono in virtù di ciò che tutti siamo". L'ubuntu esorta a sostenersi e aiutarsi reciprocamente, a prendere coscienza non solo dei propri diritti, ma anche dei propri doveri, poiché è una spinta ideale verso l'umanità intera, un desiderio di pace.

lunedì 10 novembre 2008

Il Congo in fiamme con milioni di profughi

Lumsa News, praticantato giornalistico

di Gabriele Santoro

Roma - Come a Srebrenica, Bosnia anno 1992. Come a Kigali, Ruanda anno 1994. Oggi in Congo davanti agli occhi dei caschi blu dell’Onu, tanti, male armati e prigionieri delle scelte politiche del Consiglio di Sicurezza, si sta consumando una nuova mattanza di civili innocenti.

I fatti. La fragile tregua siglata a gennaio tra i ribelli di Laurent Nkunda del Nord-Kivu, regione nell’est del Congo, e le forze governative di Joseph Kabila è iniziata a vacillare nel mese di agosto, quando gli sfollati nella provincia erano già 250mila. Nelle ultime settimane i combattimenti sono deflagrati con esecuzioni sommarie di civili, stupri, villaggi bruciati e milioni di profughi.
Ufficialmente il conflitto è fra i miliziani ribelli del Cndp, che affermano di agire per difendere la comunità tutsi, e le forze governative, accusate di collaborare coi miliziani hutu delle Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (Fdlr). In realtà la mancanza di autorità del governo centrale nella regione orientale del Paese lascia campo libero a diverse bande armate interessate alle risorse minerarie di cui il Nord Kivu è ricco, che agiscono nell'impunità seminando il panico fra la popolazione.

Brucia Kiwandja. L’unica ong presente nella città di Kiwandja, nel Nord-Kivu, è Medici senza frontiere. A qualche km di distanza, a Rutshuru, c’è l’ospedale che accoglie l’incessante flusso di feriti e si è trasformato in un luogo di rifugio per molti profughi.
Il responsabile della struttura sanitaria di Msf ha raccontato a Le Monde la situazione della città:”Dopo due giorni (4 e 5 novembre) di violenti combattimenti è stata fatta evacuare l’intera popolazione, oltre 20 mila abitanti, della città. Le strade di Kiwandja sono piene di morti, le case saccheggiate e bruciate. Noi restiamo, cercando di tessere relazioni con entrambi le fazioni per avere un minimo di sicurezza”.

La missione Monuc dell’Onu, con 17mila soldati impiegati è la più grande nel mondo, ha suggerito alle ong di congelare le attività: i caschi blu sono impegnati al massimo nel contenere l'avanzata dei ribelli e non possono assicurare protezione o assistenza. La maggior parte dei campi profughi si è concentrata proprio a Goma, capitale della regione, dove la gente in fuga dai villaggi cerca di trovare gli aiuti umanitari. I civili costretti ad abbandonare le proprie case sono oltre un milione, di cui 200mila solo nei dintorni della città del Nord-Kivu. Il Pam (programma alimentare mondiale) ha iniziato a distribuire i viveri e il materiale per costruire delle tende di fortuna dove riparare le migliaglia di sfollati. La Francia ha sbloccato oltre 4 milioni di euro di aiuti, che si vanno ad aggiungere ai 3 milioni del programma alimentare delle Nazioni Unite.

La regionalizzazione del conflitto. Uno dei rischi maggiori dell’escalation militare nel nord-Kivu è la partecipazione attiva al conflitto di milizie dei paesi confinanti. I governi dell’Angola e dello Zimbabwe hanno già inviato soldati a sostegno delle forze governative congolesi di Joseph Kabila. L’Angola già nella guerra civile della Rdc, dal 1998 al 2002, aveva offerto i propri soldati per tutelare i comuni interessi economici con il governo di Kinshasa, in una regione fondamentale per i giacimenti minerari.

Nicolas Sarkozy in un colloquio con l’omologo angolano Dos Santos ha ribadito “il pieno sostegno politico e diplomatico” al presidente Kabila, che indirettamente si traduce in una via libera all’intervento dei militari di Luanda. Nella crisi un ruolo chiave è giocato dal Ruanda di Paul Kagame. Gli odi etnici e i machete del genocidio ruandese, infatti, hanno ripreso a ruotare attraverso i ribelli congolesi guidati da Laurent Nkunda. Il gruppo di guerriglieri è di etnia tutsi e di lingua ruandese. Nella guerra civile ruandese ha combattuto proprio a fianco del presidente Kagame, anch’egli tutsi. D’altra parte l’esercito regolare congolese, mal equipaggiato e con forti frizioni interne, è sostenuto da gruppi di paramilitari che corrispondono a diverse etnie.

Tra i fiancheggiatori ci sono anche le milizie del Fronte democratico di liberazione del Ruanda, nient’altro che i macellai Hutu già responsabili del genocidio nel proprio paese. Il ruolo dell’Europa è reso ancora più difficile dalle implicazioni politiche e diplomatiche francesi nel genocidio dei tutsi nel 1994. Proprio l’agosto scorso una commissione governativa di Kigali ha prodotto un dossier, che accusa Parigi di aver assunto una regia politica nei massacri che insanguinarono il Ruanda. Per evitare una nuova tragica guerra transfrontaliera l’unica via percorribile è quella di mettere sul tavolo tutti i nodi della questione Ruanda-Congo: il commercio tra i due paesi, lo sfruttamento congiunto delle materie prime e l’integrazione pacifica delle popolazioni ruandese nel territorio congolese.

venerdì 7 novembre 2008

Barack Obama è il nuovo presidente degli Usa



Lumsa News, praticantato giornalistico

di Gabriele Santoro

ROMA - Barack Obama è il nuovo presidente degli Stati Uniti. Pennsylvania, Ohio e Florida hanno sancito la vittoria totale del cambiamento impersonato dal candidato democratico. Obama sarà il primo afroamericano a varcare le soglie della Casa Bianca. Una vittoria festeggiata in tutto il mondo: da Chicago, quartiere generale dei democratici, a Nairobi in Kenya, dove è stato proclamato un giorno di festa nazionale. Il mondo aspettava il concretizzarsi dell’immensa speranza, come l’ha definita Nicolas Sarkozy, di un’America nuova, il buon esempio di una democrazia autorevole che dialoga con il resto del pianeta. Quella del 44° presidente degli Stati Uniti è una vita a ostacoli, una sfida continua da vincere. Gli dicevano che contro la potente famiglia Clinton c’era poco da fare. Gli dicevano che gli Stati Uniti non erano pronti ad avere un presidente nero. Lui l’ha fatto. “Sono la dimostrazione - ha gridato nella notte Obama al Grant Park di Chicago - che nulla in questo Paese è impossibile”.

I numeri della vittoria. Barack Obama ha vinto nel voto popolare staccando McCain di quattro milioni di voti e ha conquistato 349 voti dei grandi elettori, ne bastavano 270 per vincere. Il successo negli stati incerti ha consegnato ai democratici una solida maggioranza al Senato e alla Camera di Washington. La partecipazione al voto degli afroamericani si è attestata al 13%, una quota leggermente superiore a quella del 2004. Gli ispanici hanno votato in massa per il candidato democratico: il 66% dei latinos ha garantito la vittoria democratica in Colorado, Nevada e New Mexico. Il 72% dei nuovi iscritti alle liste elettorali, come era stato ampiamente previsto, ha sostenuto la corsa di Obama. È record anche per l’affluenza al voto: il 66%; bisogna tornare al 1908 per trovare una percentuale analoga.

La notte dell’Excelsior. L’ambasciata statunitense a Roma ha vissuto la grande notte dell’elezioni “più attese, più appassionanti – come sottolineato dall’ambasciatore Ronald Spogli - per lo spessore personale dei due candidati e la delicatezza del momento storico che stiamo vivendo”, all’Hotel Excelsior in via Veneto. Esponenti del mondo politico, dal capogruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto a Franco Bassanini, dello spettacolo, come Renzo Arbore, e del giornalismo, da Alain Elkann a Giovanni Floris, hanno seguito ora dopo ora la corsa presidenziale, alternando interviste alla mondanità di una serata storica. Tra gli ospiti italiani e gli americani a Roma della notte del “Nessun dorma” era netta la prevalenza per il candidato democratico. Sui vestiti griffati non poteva mancare la spilletta “Obama-Biden 08”, con il commento ricorrente “e chi se la mette quella di McCain?” Foto ricordo vicino ai busti dei candidati, cucina messicana e musica folk fino alle 5 del mattino, quando la Cnn ha annunciato: “Barack Obama elected president”.

Reazioni dal mondo. La banlieue di Parigi e il ghetto di Harlem si sono infiammati all’unisono, vivendo la vittoria di Obama come un riscatto sociale. Uno dei segreti del successo del candidato nero è stato non far pesare il pregiudizio razziale, dimostrando che ”non siamo solo un insieme di tipi, ma un paese unito”. Nei bar di Giacarta campeggia la gigantografia del nuovo presidente. Dalle metropoli europee come Londra e Berlino ai villaggi kenioti la notte è stata lunga e gioiosa. Gli investitori si aspettano che il cambio della guardia alla Casa Bianca possa favorire la ripresa economica. Ma il messaggio di Obama è subito chiaro: “Wall Street non può far soldi mentre la gente soffre. Nell'America di Barack Obama non ci potrà essere una Wall Street che si arricchisce mentre Main Street (la gente comune) soffre”. Le parole rivolte dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al neoeletto Obama sintetizzano il valore di una vittoria globale: “Questo è un grande giorno: traiamo dalla sua vittoria e dallo spirito di unità che l'accompagna nuovi motivi di speranza e di fiducia per la causa della libertà, della pace, di un più sicuro e giusto ordine mondiale".

lunedì 3 novembre 2008

Diario del voto Usa



Lumsa News, praticantato giornalistico

di Gabriele Santoro

ROMA -
In tutte le televisioni americane campeggia il countdown per le elezioni più attese nella storia recente del paese. Barack Obama e John McCain serrano le fila in vista del 4 novembre, alla ricerca del colpo vincente nelle ultime ore di campagna elettorale. Ad aprire la settimana è stato il candidato democratico con un megaspot, costato tra i 3,5 e i 6 milioni di dollari, trasmesso a reti unificate, ad eccezione della Cnn, nell'ora di massimo ascolto televisivo.

Un documentario che ha alternato le storie dell’America impoverita dalla crisi economica e minata nelle sicurezze sociali - dalla sanità all’istruzione a causa delle scelte politiche neocon dell’amministrazione Bush - alla storia personale del senatore dell’Illinois. Sovraesposizione mediatica per Obama o mossa vincente per raggiungere l’America profonda che non compare nei sondaggi? Commentatori e analisti si sono divisi sull’effetto prodotto da questo messaggio. Critico il New York Post di Rupert Murdoch, sostenitore di McCain, ha definito il documentario come pura informazione commerciale, privo di profondità politica.

Il voto anticipato. Oltre 12 milioni di cittadini hanno già votato per posta o di persona. Secondo un sondaggio condotto da Washington Post/Abc News tra gli elettori che hanno votato in modo anticipato, il 60% avrebbe scelto il senatore dell'Illinois Barack Obama. Il voto anticipato è una pratica sempre più diffusa: un terzo degli elettori l'ha scelta quest'anno contro il 22% nel 2004 e il 16% nel 2000. Attualmente è previsto in 31 Stati dell'Unione secondo modalità decise a livello locale, in genere o di persona in un seggio elettorale (come se fosse il 4 novembre), per corrispondenza o per posta elettronica.

Economia e sicurezza sociale. Il tema la centro dei comizi finali dei due candidati, come del resto in tutti questi ultimi mesi di campagna elettorale, è stata la risposta da offrire agli elettori sulla crisi economica degli Stati Uniti. Barack Obama si è rivolto con insistenza alla middle-class, evocando la necessità di un nuovo New Deal, per diminuire le disuguaglianze sociali: il peccato originale che ancora attanaglia la società americana. Il candidato democratico ha ribadito le priorità della propria agenda politica: dalla stabilizzazione del sistema finanziario a una riforma sanitaria che garantisca l’assistenza medica per tutti gli americani.

Da parte sua John McCain ha faticato a staccarsi dall’ombra dell’amministrazione Bush: come spiegare agli americani che la propria dottrina economica sarà così diversa dalla deregulation degli ultraconservatori repubblicani? Nella convivenza colorita con la vice Sarah Palin, si è puntato tutto sull’attacco all’avversario definito un “socialista”, agitando lo spettro del presunto aumento delle tasse per l’americano medio contenuto nel programma democratico. McCain si è anche affidato ai muscoli e al prezioso sostegno del governatore Arnold Schwarzenegger, che si è preoccupato della forma fisica di Obama consigliando flessioni per mettere “un po’ di carne intorno alle proprie idee”. John McCain, al contrario, “è costruito come una roccia. Il suo carattere e le sue idee sono sane”. Un modo per parlare all’America profonda.

Gli Stati chiave. Cleveland, Columbus e Cincinnati. Tre comizi in un giorno nell’Ohio, un vero porta a porta. Barack Obama ha concentrato la propria campagna in uno Stato che ha da sempre aperto la via al nuovo presidente. John McCain ha imperversato tra la Florida, Pennsylvania e New Hampshire. L’attenzione dei due candidati si è concentrata sui cosiddetti swing state (Florida, Nevada, Colorado, Ohio, Missouri, Indiana, Virginia), gli stati dove per poche decine di voti possono cambiare gli equilibri del complesso sistema di voto Usa. Le elezioni presidenziali segneranno la partecipazione al voto più alta dal dopoguerra. Una buona notizia per la democrazia americana, aspettando che si levi un nuovo giorno.

lunedì 29 settembre 2008

PA-RA-DA, un clown insegna il rispetto della vita

Gonfiano le buste per sniffare la colla per non sentire i morsi della fame.
La mattina escono dalle fogne di Bucarest per "vivere" la giornata.
Sono le vittime di una società violenta, li chiamano i boschettari.
Il regista Pontecorvo con Pa-ra-da racconta le storie di questi bambini rumeni
e l'esuberanza di un giovane clown francese che insegna loro
la dignità e il valore della propria esistenza.


venerdì 26 settembre 2008

Lehman e i suoi fratelli, il crack del capitalismo

Lumsa News, praticantato giornalistico

di Gabriele Santoro

ROMA - Sono giovani, di professione fanno i broker ed escono alla svelta, scatoloni in mano, dall’elegante sede della banca di affari Lehman Brothers a Manhattan, New York.
Da poche ore è andato in scena il fallimento più fragoroso del capitalismo statunitense: dopo 158 anni di prestigiosa storia Lehman Brothers ha dichiarato bancarotta. 27 mila dipendenti per strada e un valore di mercato, prima del collasso, superiore ai 500 miliardi di dollari andato in fumo. Dall’inizio dell’anno è la dodicesima banca americana a chiudere i battenti.

Orientarsi a New York dal 2001 a oggi non è più la stessa cosa: le Torri gemelle sono cadute, Wall Street, una volta tempio della finanza mondiale, è finito in mano agli speculatori più spregiudicati, anche il mitico Yankee Stadium, dove sono state scritte le pagine più belle del baseball a stelle e strisce, sta per essere demolito. La stampa non se la passa meglio. Il New York Times, da sempre voce indipendente, tirato dentro dai repubblicani nella bagarre elettorale Obama-McCain. Scene da basso impero.

E’ scoppiata la bolla finanziaria. Dopo la fine ingloriosa della parabola della New Economy, cancellata nella sua volubilità dagli scandali, WorldCom in testa, l’economia americana rischia di essere travolta dalla fine dell’illusione della finanziarizzazione del capitalismo. In sostanza fare tanti soldi, in poco tempo, entrando in un vortice di giochi speculativi ad alto rischio. Un management senza etica imprenditoriale, che dirige colossi economici senza una parvenza di politica industriale.
Alla base delle voragini finanziarie che hanno condotto a questi fallimenti, c’è il re dei giochi speculativi: gli ormai famosi mutui subprime.

Di che cosa si tratta? Nel 2007 è scoppiata la tempesta dei mutui facili, che non cenna a placarsi. Mutui ad alto rischio concessi a clienti, che per la propria condizione economica e debitoria, non possono offrire le giuste garanzie per accedere ai tassi di interessi di mercato. Una doppia scommessa per creditori e debitori, in un paese dove tutte le classi sociali sono sempre più indebitate (il 25% della popolazione americana rientra nella categoria dei subprime), che si è rivelata un azzardo catastrofico. Dal 2006 a oggi l’insolvenza dei debitori è cresciuta in maniera esponenziale, costringendo al fallimento agenzie di credito e banche.

A Wall Street in troppi hanno fatto finta di non vedere l’assoluta opacità di certi titoli e di un sistema bancario che opera nell’ombra. L’anno scorso l’Fbi, coordinata con il ministero della giustizia, aveva compiuto una vera e propria retata a Wall Street: sessanta arresti, 406 persone incriminate e l’individuazione di 144 frodi legate ai mutui subprime, per un totale di 1,6 miliardi di dollari di perdite. Le frodi, i sospetti e le indagini di ieri si sono trasformate nella crisi dell’economia, non solo finanziaria, ma reale a livello globale più grave dalla Grande Depressione del 1929. Basta pensare che, paradossalmente, il fallimento della Lehman Brothers ha implicazioni anche nel settore agro-alimentare italiano. La banca di affari detiene il 76% della Spumador, azienda piemontese delle bevande con 1200 dipendenti, le quote azionarie dell’azienda avicola Arena e anche una partecipazione limitata al 7% nella nuova Parmalat.

Ci pensa lo Stato. Chi l’avrebbe mai detto. Nel paese, gli Stati Uniti, ostile a qualsiasi forma di statalismo è l’amministrazione Bush a mettere le mani nel portafoglio pubblico per salvare in serie: Bear Stearns, le banche dei mutui Fannie Mae e Freddie Mac, la banca californiana IndyMac e il colosso assicurativo Aig. La Lehman Brothers non ha goduto di questo aiuto per una scelta politica ed economica discrezionale della Federal Reserve e del Tesoro.
Gli indici delle borse mondiali proseguono nella loro altalena impazzita, dopo aver bruciato miliardi su miliardi, la notizia del piano ha garantito un rimbalzo euforico, seppur privo di solidità.

Il ministro del tesoro Paulson per fermare la reazione a catena del sistema borsistico mondiale ha messo sul piatto un piano finanziario da oltre settecento miliardi di dollari, che presto potrebbe lievitare a mille miliardi. Dai tempi del piano Marshall non si vedeva un intervento statale di tale portata. Un piano di salvataggio biennale per recuperare gli attivi andati persi con i presiti ipotecari ad alto rischio. La finanza pubblica rileverà i titoli “tossici”, in gran parte quelli immobiliari, che rischiano di mandare al collasso banche d’affari e istituti di credito.

La partita è ancora aperta al Congresso di Washington, dove la maggioranza democratica non è ancora del tutto convinta dell’operazione, anche se conviene sull’eccezionalità del momento storico “e sulla necessità di stabilizzare i mercati finanziari” con potenti iniezioni di denaro pubblico. La stessa Russia di Putin, nei giorni del crollo delle borse di tutto il mondo, ha stanziato 500 miliardi di rubli (circa 13,6 miliardi di euro), che si aggiungono ai 1500 già stanziati per le banche. Un sostegno diretto alle transazioni quotidiane dei quattro titoli bancari ed energetici (che da soli valgono la metà della Borsa russa): Gazprom, il "faro" del quartetto, poi Lukhoil, Rosneft e Sverbank. Una boccata d’ossigeno, per evitare la catastrofe.

La responsabilità di chi deve controllare. Il Wall Street Journal ha titolato: ”Wall Street umiliata”. Ma qui il problema non è solo della finanza criminale. E’ tutto un sistema economico che vive senza trasparenza di regole. Come gli capita spesso, ultimamente, Nicolas Sarkozy all’assemblea generale dell’Onu ha centrato il cuore del problema: ”Noi abbiamo l'obbligo di verità e franchezza nella crisi finanziaria che attraversiamo. Oggi milioni di persone nel mondo hanno paura per l'economia, per il loro appartamento, per i risparmi che hanno messo in banca. Noi dobbiamo dare loro risposte chiare”.

Il presidente francese ha parlato di un capitalismo regolare e regolato, che sostituisca quello folle attuale. Il dovere della politica è di fissare i paletti nella gestione economica e della funzione attiva degli enti deputati al controllo. E’ fresca la memoria sul ruolo, negativo, esercitato dalla Consob italiana, dai revisori dei conti nei crack Cirio e Parmalat. Un sistema dove la rincorsa al profitto non metta a repentaglio il denaro dei risparmiatori e dell’economia reale. Questa crisi dovrà decretare la fine della logica del ritorno finanziario immediato.

La stessa logica che spinge le tre maggiori aziende casearie cinesi a immettere sul mercato latte in polvere e liquido contaminato con la melamina, sostanza tossica utilizzata per la fabbricazione di colle e materie plastiche, e che trova le autorità politiche cinesi disposte a nascondere al mondo uno scandalo la cui entità è potenzialmente devastante. Dal dicembre 2007, solo in questi giorni se ne è avuta notizia, si sono verificati i primi casi di malattia per i bambini cinesi contaminati dal latte in polvere prodotto. La differenza è solo nelle vittime della speculazione economica. Il latte contaminato ha già provocato la morte di quattro neonati, 53 mila sono i bimbi contagiati, 13 mila i ricoverati e un centinaio in gravi condizioni.

giovedì 11 settembre 2008

Ennio Remondino: "Con la Georgia è finito l'unilateralismo Usa"

Lumsa News, praticantato giornalistico

di Gabriele Santoro

ROMA – Intervista a Ennio Remondino, giornalista del Tg1, attualmente corrispondente in Turchia. Per anni ha raccontato le vicende balcaniche e seguito i bombardamenti della Nato nella ex-Jugoslavia.

La guerra in Georgia nasce in Kosovo. Qual è il filo che lega le due vicende?
Aldilà del confliggere degli interessi strategici ed economici americani e russi nella sfera caucasica, per il controllo della materia prima e delle vie dell’energia, la guerra in Georgia pone serie questioni politiche e di diritto internazionale.
Kosovo e Georgia ripropongono l’equivoco sulla gestione delle istanze del separatismo etnico-religioso. Dopo il crollo del muro di Berlino e la fine della guerra fredda, in Europa sono esplose spinte separatiste. E’ stata superata l’antica regola sancita dalla pace di Westfalia: i confini degli Stati non si toccano. La vicenda jugoslava è l’emblema: con l’interferenza umanitaria, con la decisione unilaterale di chi avesse l’autorità per fare l’arbitro e con la politica dei due pesi e delle due misure si è giunti alla situazione attuale. In Bosnia dopo i bagni di sangue reciproci, gli accordi di Dayton hanno “costretto” tre gruppi etnici a convivere in uno stesso Stato. D’altra parte il Kosovo segna la vittoria della spinta all’identità etnica, che spezza la sacralità dell’unità nazionale. Nei Balcani, nel mondo, è un precedente pericoloso.
Nel 2004 Vladimir Putin avvertì la comunità internazionale: attenzione, se in Kosovo si procederà unilaiteralmente, sul fronte Caucaso la Russia avrà le mani libere. La logica unipolare dell’amministrazione Bush non ha preso le misure giuste e questo è il risultato.

Il ruolo dell’Europa. Ci sono due punti di vista. C’è chi ritiene l’Ue come unico interlocutore forte e credibile per mediare con Mosca e chi considera l’Europa ridotta all’impotenza dal ricatto energetico russo.
La debolezza dell’Europa è insita nella sua struttura: Bruxelles non è in grado di elaborare una politica estera unitaria. Fino a quando non si introdurrà il voto a maggioranza il rischio della paralisi decisionale è costante. L’aggregato di piccoli o medi stati baltici, ricchi di contraddizioni al loro interno, freschi di ingresso nell’Unione porta rivendicazioni del passato, che non possono conciliarsi con le scelte dei grandi d’Europa. Un esempio su tutti è la Polonia dei gemelli Kaczinsky. La stessa Gran Bretagna è una spina nel fianco, ognuno promuove la propria posizione. Non si può rompere con Mosca, ma la politica estera comunitaria è sempre targata Nato. Javier Solana è portatore di interessi atlantici, non europei.

La fine ingloriosa delle rivoluzioni a colori in Georgia e Ucraina, cavallo di battaglia dell’amministrazione Bush, segna il fallimento del tentativo di contenimento della Russia?
Le scorse elezioni il presidente georgiano Michail Saakashvili ha vinto con il 98% dei voti. Un tale risultato è difficile considerarlo come una prova di democrazia. Molta pubblicistica spiega come gli Stati Uniti, tramite munifiche Ong, siano dietro, finanziariamente e politicamente, a “spontanei” movimenti popolari che, a differenza del passato, senza la violenza ribaltano governi in nome della democrazia.

L’energia e le forniture di gas rappresentano uno snodo chiave. La Turchia che si è tenuta fuori dalla mischia, che ruolo è intenzionata a giocare?
La Turchia sta portando avanti una politica di potenza di area molto interessante.
Un governo che è riuscito a creare un’alchimia vincente tra Islam e capitalismo. Nel futuro ci saranno due poteri: chi possiede le risorse e chi le fa circolare. La Turchia vuole diventare un passaggio chiave per tutti, alternativo ai due blocchi. Stringe accordi petroliferi con l’Iran e l’Iraq, è l’unico paese di religione musulmana che ha fatto accordi commerciali e militari con Israele. Il paese della Mezza Luna, carente di petrolio, gestirà una risorsa sempre più preziosa: l’acqua. Per esempio, garantisce a Israele, sempre a rischio di crisi idriche, le acque del Tigri e dell’Eufrate in cambio di cooperazione antiterroristica. Il rapporto con l’Europa, al di là delle ragioni storiche, dipenderà dall’incontrarsi di reciproci interessi. Per la classe dirigente turca prospettare al paese un futuro europeo è un formidabile strumento politico per continuare nel processo riformatore e modernizzatore endogeno.

La Serbia e l’Europa. L’arresto di Karadzic ha facilitato il riavvicinamento di Belgrado a Bruxelles. E’ possibile un futuro europeo per i Balcani?
Più che l’arresto di altri criminali di guerra, libero c’è ancora solo Ratko Mladic; la domanda da porsi è se ci sia ancora spazio per l’annessione di altri paesi all’unione europea. L’ingresso della Serbia in Europa è molto difficile, per cause interne al paese e alla situazione generale dei Balcani.
Il governo Tadic, seppure abbia vinto le elezioni, non ha una maggioranza solida nel paese per forzare la mano ed è stato costretto a riciclare i voti del partito di Slobo Milosevic. Nella penisola balcanica i nodi irrisolti sono troppi, a partire dal Kosovo. Ma un riavvicinamento della Serbia all’Europa conviene a tutti.

Russia e Georgia, la guerra alle porte dell'Europa

Lumsa News, praticantato giornalistico

di Gabriele Santoro

ROMA - Mentre lo sguardo del mondo era puntato su Pechino e l’apertura dell’Olimpiade, in Georgia sono scoppiate le tensioni, mai sopite, con la Russia di Vladimir Putin. Un conflitto lampo, che in dieci giorni di combattimenti ha causato migliaia di morti civili, 150 mila profughi e riprodotto scene da guerra fredda che la storia sembrava aver mandato in archivio. Come in ogni guerra la prima vittima, dopo i civili innocenti, è la verità.

I fatti. Chi ha sparato il primo colpo? Georgia e Russia hanno continuato per giorni a scambiarsi le responsabilità dell’escalation militare. Nella notte tra il 7 e l’8 agosto i tank georgiani, supportati dai bombardieri dell’aviazione, hanno attaccato le forze di peacekeeping russe e i villaggi delle enclavi separatiste presenti sulle alture di Tskhinvali, capitale dell’Ossezia del sud.
Quale ragione militare ha spinto la Georgia a un attacco così spregiudicato? Alle 19 dello stesso giorno il presidente georgiano Michail Saakashvili, rientrava precipitosamente da una cura dimagrante in Italia, preoccupato da informazioni trasmesse da un satellite americano, che segnalavano l’avanzamento di una colonna di 150 blindati russi pronti a entrare nelle enclavi georgiane dell’Ossezia del Sud. L’idea georgiana era di cogliere di sorpresa l’orso russo e riprendere il controllo della repubblica separatista, contando sul sostegno politico e militare Usa. Nulla di più sbagliato per il presidente-avvocato di Tblisi, formatosi alla Columbia university e leader della rivoluzione pseudodemocratica delle rose, finanziata dai dollari del magnate Soros.

La reazione russa è immediata, violenta, in pieno stile sovietico. “Punire la Georgia”. Vladimir Putin non si accontenta di un cessate il fuoco. L’occasione offerta da Saakashvili è troppo ghiotta: conquistare due regioni, Ossezia del Sud e Abkazia strategicamente fondamentali, e far capire al mondo che la grande Russia è tornata. In poche ore l’aviazione militare russa spazza via da Tskhinvali le forze terrestri di Tblisi. La guerra è già finita, ma comincia l’occupazione militare dei villaggi osseti, della città di confine Gori e manovre di posizionamento dell’esercito moscovita. Il lento ritiro si completerà l’ultima settimana di agosto.

La velocità e l’efficacia della risposta russa, 20mila soldati e 2mila carri armati mobilitati in 48 ore, lascia pochi dubbi sulla preparazione di un conflitto annunciato. Il Cremlino considera la Georgia e l’Ucraina cavalli di troia a stelle e strisce, e l’avvicinarsi della possibilità di un loro ingresso nella Nato ha accelerato l’esplosione del conflitto. Lo stesso Putin, in un’intervista alla Cnn, ha apertamente accusato gli Usa di essere stati i burattinai dell’attacco georgiano.

Il precedente Kosovo e la questione etnica. Nei giorni del riconoscimento degli Usa e dell’Europa dell’indipendenza della repubblica kosovara, il premier russo Vladimir Putin lanciò un monito concretizzatosi in questa guerra:”La comunità internazionale deve accogliere dei principi unici e universali nella soluzione dei problemi interetnici. Perché se il Kosovo può diventare indipendente non potrebbero diventarlo Abkazia e Ossezia del Sud?” Detto, fatto. Il 26 agosto il presidente Dmitry Medvedev annuncia il riconoscimento come Stati indipendenti delle due regioni separatiste georgiane.

Il 12 agosto Nicolas Sarkozy, - nella veste di presidente di turno dell’UE - nel suo blitz a Mosca, allo scopo di fermare la guerra, usò parole che aprono un precedente pericoloso:”La Russia ha il diritto di difendere gli interessi dei cittadini di lingua russa che vivono fuori dal paese”. Le nazioni ex-sovietiche sono piene di minoranze etniche di lingua russa. La storia ha insegnato che dietro l’assistenza a minoranze nazionali si sono nascosti pretesti per mire espansionistiche e conflitti di portata mondiale.

In Ossezia del Sud e Abkazia la questione etnica è complessa. Le due repubbliche non sono di lingua russa, ma i suoi abitanti sono di passaporto russo. Mosca ha provveduto a distribuire passaporti secondo la legge nazionale, che prevede la possibilità di fornire il documento a tutti gli aventi diritto delle Repubbliche ex-sovietiche. Oltre 20 milioni di potenziali russi vivono alle frontiere della Russia, rientrando, così, nella pericolosa sfera di protezione concessa da Sarkozy.
Torna l’Urss? No, ma la nuova Russia di Putin non ha nessuna intenzione di far decidere all’Occidente i propri confini, portandosi il “nemico” in casa, in una regione fondamentale per la geopolitica energetica.

L’Europa nella trappola caucasica. La posizione di equidistanza assunta dalla presidenza di turno francese dell’Ue nella vicenda georgiana rispecchia la necessità di mantenere buoni rapporti con Mosca. La partita dell’aspirante “Impero” russo con l’Atlantico si gioca sulle forniture di gas e petrolio. I paesi baltici, dalla Polonia all’Ucraina, smarcandosi dalla posizione attendista della vecchia Europa, hanno condannato l’aggressione russa con toni forti e azioni concrete.

Il 20 agosto Condoleeza Rice, segretario di stato Usa, ha firmato a Varsavia l’accordo per l’installazione in territorio polacco di missili intercettori del progetto scudo spaziale e una batteria Patriot antimissile rivolta verso il confine russo. Un progetto, quello dello scudo, di difesa preventiva dell’amministrazione Bush, che nasce in chiave anti-Iran e Corea Del Nord, ma la Russia lo vive come una minaccia militare alla propria sicurezza, a cui rispondere.
In sintesi due Europe: la prima, con Francia e Germania in testa, e anche Italia, che vuole mantenere gli equilibri politici ed energetici con la Russia; la seconda, i paesi dell’est freschi di ingresso nell’Ue, che con il sostegno americano premono per respingere il nuovo espansionismo economico e politico panrusso.

Una nuova guerra fredda? Le minacce vicendevoli tra Russia e Stati Uniti di rottura diplomatica e militare, con la Nato, rievocano quel mondo precedente al 1989, anno della implosione del gigante sovietico. Il contesto mondiale di interdipendenza e di un’economia globalizzata rende difficile immaginare uno scenario di isolamento e paralisi reciproco, ma la partita eurasiatica è tutta da giocare.

lunedì 25 agosto 2008

Rfk, the dream lives on

A entusiasmare la convention democratica di Denver, in attesa di Barack Obama, ci ha pensato Ted Kennedy. La famiglia Kennedy ha sempre incarnato la speranza di cambiamento, di un'America migliore aperta al mondo. Ora ha riposto queste speranze sul candidato afroamericano a cui affidare "la torcia del cambiamento".

Ecco alcuni estratti del discorso:
"It is wonderful for me to be here and nothing, nothing is going to kick me away for this special gathering tonight. I've come here to stand with you, to change america to restore its future to rise the best ideals and to elect Barack Obama president. All called for a better country. I'll be there next january with a new president. For me this a season of hope, a new hope for justice and fair prosperity for the many, not just for the few. This is the cause of my life. For guarantee every american: north, south, east, west, young, old. Yes we can and finally we will".

Traduzione
"E' stupendo per me essere qui e nulla, nulla mi avrebbe tenuto lontano da questo incontro speciale. Sono venuto per stare con voi, per cambiare l'America, per ridarle un futuro e risvegliare i suoi migliori ideali ed eleggere Barack Obama presidente. Siamo tutti chiamati a fare un paese migliore. Il prossimo gennaio ci sarò, con Obama presidente. Per me questa è una stagione di speranza, una nuova speranza per la giustizia e la prosperità solidale di tutti, non solo per pochi. Questa è stata la ragione della mia vita. La garanzia per ogni americano: del nord, del sud, dell'est, dell'ovest, giovane, vecchio. Ce la possiamo fare e lo faremo".



venerdì 11 luglio 2008

Mugabe, l'Africa prigioniera dei suoi dittatori

Lumsa News, praticantato giornalistico

di Gabriele Santoro

ROMA – Robert Mugabe sarà ancora il padre-padrone dello Zimbabwe. Le elezioni legislative vinte dal Movimento Democratico di Morgan Tsvangirai, la pressione della comunità internazionale e dell’Unione Africana non hanno scalfito il sistema di potere del dittatore africano. Abbiamo intervistato padre Giulio Albanese, missionario comboniano e fondatore dell’Agenzia di stampa missionaria Misna, grande conoscitore della realtà africana e delle sue dinamiche geopolitiche.

Qual è la situazione dello Zimbabwe oggi, dopo le elezioni farsa che hanno mantenuto Robert Mugabe al potere? E’ credibile l’ipotesi di un governo di unità nazionale come avvenuto nella recente crisi keniota?
La situazione è molto diversa dal Kenya. I due candidati alla presidenza, Mwai Kibaki e Raila Odinga, erano freschi non venendo da un’esperienza di dittatura o comunque di lungo governo. Robert Mugabe è presidente dello Zimbabwe dal 1980, quando guidò il movimento di indipendenza del paese. Bisogna capire che Mugabe resta un eroe nell’immaginario della gente e ha anche avuto dei meriti. I problemi sono venuti fuori quando ha rifiutato una qualsiasi forma di alternanza al potere, come ha gestito il potere con la violenza di fronte alla crescita del movimento di opposizione. Oggi il paese è allo stremo: il 90% della popolazione fa fatica a sbarcare il lunario, l’inflazione è alle stelle, il rischio di inedia e pandemie incombe sul Paese. Proprio di recente ho ricevuto notizie da Harare che riferiscono di oltre 200 oppositori del regime costretti a rifugiarsi fuori dall’ambasciata statunitense, perché cacciate dai miliziani di Mugabe, per trovare accoglienza.

Come si è arrivati a questa situazione?
Lo Zimbabwe era considerato come un piccolo gioiello. Un Pil in costante crescita, un sistema di infrastrutture all’avanguardia e soprattutto era considerato il granaio dell’Africa australe. Il Paese ha iniziato ad arenarsi sulla riforma agraria: gli interessi dei grandi farmer, con il ruolo decisivo delle multinazionali, e il sistema violento di espropriazione dei terreni del governo di Mugabe hanno innescato un conflitto che ha paralizzato l’economia nazionale.

A differenza di altre volte la comunità internazionale si è mossa, definendo illegittima la consultazione elettorale. Ma la pressione esercitata su Mugabe non è servita a molto. Quante responsabilità ha l’Occidente in questa deriva?
Ragionando con obiettività non si può negare il ruolo negativo assunto dai Paesi occidentali, o comunque economicamente sviluppati, nell’intessere relazioni economiche con regimi dittatoriali salvo poi pentirsi. Il governo di Pechino, seguendo il principio del business, continua a fare affari con lo Zimbabwe di Mugabe affermando di non voler interferire con gli affari interni del Paese. Nel consesso africano Thabo Mbeki, presidente sudafricano, non ha combinato nulla di concreto rispetto a quelle che erano le proprie potenzialità. Si è dimostrato troppo tenero con Mugabe. Anche il Sudafrica ha il suo tornaconto economico nei rapporti con il vicino. Lo stesso vertice dell’Unione Africana di Charm El-cheick non ha espresso una condanna netta e inappellabile al padre padrone Mugabe, invocando l’opportunità di un governo di unità nazionale. Morgan Tsvangirai, leader dell’opposizione democratica, ha già provveduto a rimandare al mittente la proposta: “Un governo di unità Nazionale non risponderebbe ai problemi del Paese e non rifletterebbe la volontà del popolo”. Mugabe ha dimostrato un’arroganza senza pari: dopo aver perso le elezioni legislative e probabilmente anche quelle presidenziali al primo turno, con la minaccia della destabilizzazione ha mantenuto il potere.

Molti dubitano sulle facoltà intellettive e sulla stabilità mentale di Robert Mugabe.
Certamente non è più quello di prima. Molte sue uscite sono sintomo di uno stato di demenza. Quando era sano di mente ha fatto anche cose intelligenti, come nel ruolo assunto nella vicenda del Mozambico. Mugabe è un vecchio che ha trasformato una repubblica in una Monarchia, va messo da parte.

Un altro fronte africano caldo è il nord-Uganda e il Sudan. Dopo i trattati di pace del 2005 a Parigi il quadro geopolitico si è stabilizzato?
La situazione è decisamente migliorata soprattutto per le popolazioni del nord-Uganda, che non sono costrette a vivere con l’incubo delle razzie del Lord's Resistance Army di Joseph Kony. Una scheggia impazzita che trova ancora riparo, insieme ai resti del suo esercito, nel territorio congolese. Un movimento che si è macchiato di crimini indicibili, arruolando bambini soldato. È necessario trovare un modo per snidare Kony. In questo senso il mandato di cattura emesso nell’ottobre 2005 dalla Corte Penale Internazionale dell’Aja per crimini contro l'umanità non aiuta. Bisognava farlo uscire dalla clandestinità, come accaduto per Charles Taylor in Nigeria, e poi arrestarlo: è fondamentale togliere Kony dal suo contesto geopolitico.

Periodicamente in Africa spuntano gruppi di ribelli, ben armati e pronti a combattere in nome di Dio. Quali sono le reali ragioni che armano questi movimenti?
I cosiddetti Ribelli incarnano precisi interessi economici: dai minerali al petrolio. Il movimento di Kony era una estensione militare finanziata dal governo sudanese di Khartoum, che aveva interesse nel pieno controllo del bacino petrolifero del Sud del paese. Gli esempi possono essere molti. In Sierra Leone la guerra civile, con la vergogna dei bambini soldato, è stata fatta per il controllo della produzione diamantifera. In Angola, dopo anni di guerra civile è scoppiata improvvisamente la pace. Non per amore della pace, ma perché ci si è resi conto che serviva per portare avanti il business del petrolio. In Somalia e nel corno d’Africa, il controllo del petrolio, del gas e dell’uranio spiegano il conflitto tra le Corti Islamiche e le forze governative. La frase dell’economista francese Fredirick Bastiat sintetizza bene il quadro: “dove non passano le merci passano le armi”.

Molti paesi africani sono dominati ancora da padri padroni. Dal Gabon di Omar Bongo, presidente dal 1967, alla Libia di Gheddafi. Quale futuro per le classi dirigenti africane: esiste la possibilità di un ricambio generazionale?
Alle spalle di questi leader vetusti c’è una società civile vitale, che sta emergendo con forza. Per sostenerla è necessaria una vera cooperazione internazionale, che non si rifaccia solo alla sfera economica, ma investa nella formazione e nelle risorse umane del territorio. Occorre formare classi dirigenti oneste in grado di amministrare la Res publica. Scuole per la pubblica amministrazione sono importanti quanto i pozzi d’acqua, se non di più.

mercoledì 2 luglio 2008

Il cammino dell'Europa dopo il no irlandese

Lumsa News, praticantato giornalistico

di Gabriele Santoro

ROMA - L’Europa si ferma di nuovo. Il voto popolare irlandese boccia il nuovo Trattato costituzionale europeo nato sulle ceneri delle precedenti bocciature olandesi e francesi. Il no di 860mila irlandesi ripropone il paradosso di un’integrazione europea tanto ambiziosa quanto fragile. Il destino di 500 milioni di europei è stato affidato alle dinamiche identitarie di un Paese, l’Irlanda, che è si trasformato con gli aiuti economici comunitari da paese di emigranti affamati in una Tigre celtica. Quello che era il fiore all’occhiello del successo delle politiche economiche comunitarie ha sbattuto la porta all’idea dell’unione politica e civile europea. Un voto che conferma lo scarso appeal di Bruxelles agli occhi di europei, che ogni qualvolta sono stati a chiamati alle urne per dire la loro sull’Europa ne hanno bocciato le aspirazioni. Per entrare in vigore il Trattato doveva essere ratificato da tutti i 27 stati membri. La via referendaria per l’approvazione è stata scelta solo dall’Irlanda, mentre diciannove paesi, con Francia e Germania in testa, avevano già provveduto alla ratifica per via parlamentare. Il risultato immediato della bocciatura irlandese è stato un nuovo congelamento della situazione: il consiglio europeo ha rinviato al mese di ottobre, inizio della presidenza francese, ogni decisione su come superare l’impasse.

Gli scenari futuri Organizzare un nuovo referendum in Irlanda, uscita parziale dell’Irlanda dall’Ue o un ritorno al Trattato di Nizza? Queste sono le opzioni plausibili sul tavolo degli analisti e dei politici europei. Tornare al voto in Irlanda, dopo una pausa di riflessione interna, è la possibilità più concreta. Come già avvenuto per il trattato di Nizza, dopo una prima bocciatura nel 2001, nel 2002 gli irlandesi sono tornati alle urne dicendo si. L’idea di una rinegoziazione del Trattato di Lisbona sembra impossibile, essendo il frutto di un compromesso complicato e al ribasso del testo costituzionale europeo bocciato in precedenza dai referendum francese e olandese. Continuare a puntare sul Trattato di Nizza renderebbe ancora più stagnante la situazione: quest’ultimo, infatti, prevede il voto all’unanimità per la maggior parte delle decisioni, già difficile per un Europa a 15 e pressoché impossibile con l’allargamento a 27 paesi. Andare avanti solo con chi ci sta è la tentazione forte di alcuni paesi, ma qui si aprirebbero problematiche del tutto nuove e non meno complicate. L’Europa a due velocità non convince soprattutto la Germania di Angela Merkel, mentre il presidente della Repubblica italiano Giorgio Napolitano ha sottolineato la necessità di uno sforzo propulsivo dei paesi fondatori, superando gli ostacoli di un sistema a maggioranza paralizzante.

Il presidente francese Nicolas Sarkozy, in vista della presidenza di turno francese, ha espresso l’intenzione di un’approvazione del Trattato di Lisbona prima delle elezioni europee del giugno 2009. Il nuovo trattato costituzionale ridisegna il parlamento europeo e i rapporti di forza modificati dall’allargamento. Sarkozy aveva puntato forte su questo Trattato semplificato, “leggero”, arrivando a minacciare una sospensione dell’allargamento:”Non si procederà all’allargamento fino a quando non si concretizzerà l’Europa a 27. Niente Lisbona, niente allargamento”. Una minaccia rivolta a uno dei paesi più euroscettici, la Repubblica Ceca, ancora indecisa sull’approvazione del Trattato. Come dichiarato dal presidente della commissione europea Josè Manuel Barroso: “penso sia inconcepibile che un governo firmi un trattato per poi non procedere alla sua ratifica”. L’obiettivo del presidente francese è quello di arrivare al mese di ottobre con in tasca le 26 ratifiche, mettendo l’Irlanda con le spalle al muro.

Un voto contro l’Europa o l’impotenza di Bruxelles? Gli esempi dell’Irlanda e dell’Olanda mostrano che a un alto grado si soddisfazione per l’Europa non corrisponde un impegno positivo in suo favore. Le rilevazioni dell’Eurobarometro nel dicembre 2007 ci dicono come irlandesi e olandesi siano i cittadini più propensi all’Unione europea: rispettivamente il 79% e il 74% considera l’Europa come una buona cosa. La paura di una perdita di influenza con l’allargamento, l’impotenza politica europea di fronte alle sfide di una società globalizzata, la burocrazia e la sovrabbondanza di regole e un deficit di democrazia partecipativa dividono l’Europa dai suoi cittadini. La scelta dei governi nazionali di procedere alla ratifica per via parlamentare accentua la paura di una partecipazione democratica alla costruzione dell’integrazione europea: i cittadini sono chiamati a fidarsi delle scelte delle élites politiche continentali. In sintesi un’Europa fatta per gli europei, ma non dagli europei.

Il ruolo dell’Italia La reazione più decisa alla nuova crisi europea è venuta da un europeista di lungo corso come il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il voto irlandese ha “drasticamente posto un grande problema, il rapporto tra governanti e governati. Troppi governi nazionali hanno negli anni scorsi ritenuto di poter gestire in solitudine gli affari europei. Troppi governi hanno dissimulato le posizioni da essi sostenute in sede europea chiamando in causa l’ Europa, in particolare la burocrazia di Bruxelles come capro espiatorio per coprire le loro responsabilità e insufficienze”. Un vero e proprio atto di accusa per i governi nazionali e le élites politiche che poco o nulla hanno fatto per motivare l’esigenza di una più forte unità europea» dimenticando il «principio ispiratore» della stessa Unione. Vale a dire il «conferimento di quote di sovranità condivisa alla comunità, e quindi all’ Unione europea». Il governo italiano, dopo la parentesi del brindisi leghista a base di birra irlandese, ha ribadito la volontà di ratificare al più presto il Trattato. Il ministro degli esteri Franco Frattini ha spiegato come sia “politicamente impossibile” fermare il processo d’integrazione europeo e un approvazione del parlamento italiano prima delle vacanze estive costituirebbe un forte segnale politico”.

giovedì 12 giugno 2008

La lezione di Le Monde

Lo scorso mese di febbraio è uscito il mio libro, pubblicato da Aracne Editrice, con la prefazione di Giancarlo Salemi. Da Charles De Gaulle a Nicolas Sarkozy. La storia di un paese fondamentale nello scacchiere della politica internazionale letta attraverso le pagine del primo quotidiano francese, Le Monde, giornale austero e d’analisi rigorosa, punto di riferimento dell’establishment transalpino. Il libro ripercorre la storia di Le Monde, racconta il passaggio da foglio d’informazione a impresa multimediale con la figura centrale del direttore Colombani, spiega l’ascesa politica e i primi mesi della presidenza Sarkozy e l’Italia vista dall’Oltralpe.
Le vicende appassionanti di un giornale che fa dell’indipendenza editoriale il proprio marchio di riconoscimento, in un continuo intreccio con il potere economico e politico. I paradigmi della storia di Le Monde raccontano come si è trasformata la “maniera” del fare informazione, come si è evoluta la professione giornalistica, ma anche come i suoi principi di qualità, veridicità e responsabilità verso i lettori restano immutati. L’opera si basa sull’accesso a fonti primarie, quali le interviste all’ormai ex-direttore Jean-Marie Colombani e al corrispondente del quotidiano in Italia.

Il libro è stato adottato come testo di esame in tre università italiane: all'Università degli studi di Genova per il corso di Storia del giornalismo europeo della prof.ssa Marina Milan, ad Aosta presso l'Università statale della Val D'Aosta per il laboratorio giornale in ateneo tenuto dal prof. Riccardo Piaggio e a Roma presso l'università Lumsa per il corso di Storia del giornalismo internazionale del prof. Francesco Malgeri.

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martedì 3 giugno 2008

Vivere e morire nel Sistema camorra

Lumsa News, praticantato giornalistico

di Gabriele Santoro

ROMA - Il Sistema camorra insanguina le strade e fa affari in tutti i campi dell’economia lecita e illecita. Un Sistema che coniuga la morte al massimo grado di competitività sul mercato globale. Il libro fotografico “L’Ultimo sangue”, con le immagini di Stefano Renna e i testi di Marco Salvia, fa parlare la violenza che riecheggia dai vicoli di Napoli martoriati da vent’anni di omicidi. I testi che accompagnano la narrazione fotografica sono scritti in lingua italiana mista al dialetto partenopeo. Un contesto sociale in cui il valore della vita lascia progressivamente il passo all’assuefazione all’orrore, alla prevaricazione. La camorra viene vista come una violenza primitiva che regola i rapporti tra gli uomini nei quartieri, nelle strade. La gente assiste immobile al rituale macabro dell’omicidio di camorra.

Una legge di sangue e denaro che stride con l’apparente normalità della vita quotidiana di una città come Napoli e si allarga a macchia d’olio in tutto il Paese. In assenza dello Stato diventare camorrista significa uscire dal nulla di un’esistenza ai margini di tutto: molti pensano “meglio un giorno da leone”, ma in pochi arrivano alla sera. Il libro è una cronaca del dramma di una città, Napoli, che soccombe giorno dopo giorno sotto i tentacoli di un’organizzazione criminale che si è talmente radicata nel territorio, prima quello extraurbano e poi quello urbano, da diventare sistema sociale. Il simbolo del “ferro”, ovvero la pistola, rappresenta l’arroganza e il potere del camorrista. La pistola regola gli equilibri sociali, chi non ce l’ha non conta niente. Il ruolo della donna camorrista nel sistema è centrale: nelle famiglie spesso svuotate dall’elemento maschile, morto ammazzato o in carcere, la donna si sostituisce al capofamiglia in tutto con una ferocia e determinazione ancora maggiore. Il progressivo esaurirsi di ogni ritegno morale abbassa l’età degli affiliati e dell’esercito della morte: i killer sono minorenni, appartengono alla legge del branco che non ammette deroghe.

Le fotografie di Stefano Renna raccontano il dolore di una madre che perde il proprio figlio crivellato dai colpi di un killer. Corre al Pronto Soccorso e non riesce nemmeno a riconoscerlo per come è stato ridotto. “Giuvinò, facitammelo verè, ‘na vota solamente e glielo dissi che era figlio a me. Ma quando stavo là, vicino a quel lenzuolo tutto rosso di sangue, mi mancò la forza e rimanette, e pure questa volta ci potetti guardare solo i piedi”. Marco Salvia, mediante la figura del “Beccamort” Giovanni Cascione, spiega come la morte sia accettata come un fatto insito nella cultura camorristica dominante.“E così per ventidue anni ho scorazzato i morti uccisi di questa città e vi dico mi sembrano tutti uguali. Molte cose li acccomunano: sò pesanti, sò fetenti, fanno ribrezzo e a volte puzzano pure. E allora pensandoci bene un giorno ho capito che queste qualità pure la mondezza le tiene, allora forse quello che diceva mamma è verità. “Ninù dicevva mammà mia, nun ti preoccupà, perché o vire cà, a Napoli, ‘a morte nunn’è morte: è munnezza”.

mercoledì 20 febbraio 2008

Free Ingrid, Colombia un paradiso perduto

Lumsa News, praticantato giornalistico

di Gabriele Santoro

ROMA - Yolanda Pulecio De Betancourt è una bella donna, un incrocio tra Audrey Hepburn e Sophia Loren. Una madre solare, avida di vita che lotta da sei anni per la liberazione della sua amata figlia, Ingrid Betancourt. Mentre racconta il dramma non solo di sua figlia, ma degli oltre settecento colombiani rapiti dai guerriglieri delle Farc, agita con veemenza le mani, tradendo le origini italiane, la voce si spezza più volte dall’emozione e senza giri di parole attacca il Presidente colombiano, Alvaro Uribe.“Siamo in un momento molto delicato. Sono disperata perchè non vedo risposte dal governo colombiano, dal presidente Alvaro Uribe e tra qualche giorno entreremo nel sesto anno di prigionia.

Gli ho chiesto di anteporre ai suoi interessi personali gli interessi umanitari, anche la guerriglia ha anteposto i propri interessi politici a quelli umanitari, con la conseguenza che gli ostaggi si trovano nel mezzo di queste due forze e in balia dei loro interessi particolari”. In questi anni molti spiragli di trattativa, almeno quattro, si sono trasformati in altrettante tremende frustazioni. La Chiesa cattolica nella persona del presidente della Conferenza Episcopale della Colombia, monsignor Luis Augusto Castro, uomo di pace e di dialogo, ha percorso la via “dell’umanizzazione” del conflitto, per raggiungere un accordo con la guerriglia delle FARC a favore della liberazione di ostaggi in cambio di guerriglieri detenuti nelle carceri nazionali. L’incontro non si è mai tenuto, poiché l’esercito colombiano, appreso della trattativa, ha bombardato la zona “franca” in cui Mons. Castro avrebbe dovuto incontrare Raul Reyes, portavoce storico delle Farc.

Il presidente Uribe lancia una gigantesca operazione militare, il piano Patriota. Il vescovo è deciso a sfidare il pericolo e a portare a termine la sua missione a ogni costo, ma alla fine sarà dissuaso dalle stesse Farc: “Non venga, qui c'è solo sangue”. Come racconta a Le Monde Diplomatique: “Il piano Patriota, si rammarica mons. Castro, ha creato un muro tra noi e loro. Ci ha impedito di continuare questo tipo di incontri. Ormai i nostri rapporti sono solo epistolari”.

La missione delle Nazioni Unite viene scoraggiata e ridotta alla sostanziale impotenza. Nel febbraio 2005 Uribe ha chiesto e ottenuto l'allontanamento di James Lemoyne, consigliere speciale della segreteria generale dell'Onu per la Colombia. In passato Lemoyne si era dato molto da fare per avvicinare le parti nei momenti di crisi durante i negoziati di pace tra le Farc e il governo Pastrana. Davanti agli ostacoli messi al suo lavoro dal potere, la missione di buoni uffici delle Nazioni unite, invitata dalle Farc, si è ritirata nell'aprile 2005. L'arrivo al potere di Alvaro Uribe, il 7 agosto 2002, segna un'escalation nello scontro militare. Dal suo insediamento ha cercato di spiegare alla comunità internazionale che in Colombia non c'è un conflitto armato, ma solo una minaccia terroristica.

Negli ultimi venti anni il conflitto che non esiste è costato la vita ad almeno 70mila persone e ha prodotto tre milioni di profughi all'interno del paese. La Colombia è martoriata da un vero e proprio conflitto a carattere sociale, economico e politico, nel quadro di una guerra civile che dura da decenni. L’intreccio tra potere corrotto, narcotraffico e svendita delle risorse naturali ha strozzato la vita di un paese culturalmente ricco, basta ricordare Gabriel Garcia Marquez, la cordialità e l’amore per la vita di un popolo dignitoso, che si è visto lentamente cancellare il proprio futuro.

La sospetta intransingenza di Uribe nel portare avanti una qualsiasi forma di trattativa umanitaria e di pacificazione con le Farc, copre il continuo flusso di denaro made in Usa: il “Plan Colombia” ha portato nelle casse del governo colombiano oltre 800 milioni di dollari. Un piano prettamente militare, in nome della guerra al terrorismo, che indirettamente arma la mano dei famigerati Paramilitari colombiani, macellai e narcotrafficanti che riempiono le fosse comuni. L'Associazione delle famiglie dei sequestrati-scomparsi (Asfaddes) ha contato quasi settemila casi documentati di persone rapite dal 1997 dagli squadroni della morte e i cui corpi non sono stati mai più ritrovati.

“Il Presidente - spiega Yolanda Betancourt - ha fatto approvare una legge di giustiza e pace, in nome di una pacificazione nazionale, per cui i Paramilitari, nient’altro che narcotrafficanti e assassini, possono confessare tutti i crimini, mentre migliaia di persone giacciono nelle fosse comuni, in cambio di una sostanziale impunità. Oggi ho incontrato l'ambasciatore, che mi ha detto che non posso continuare ad andare in giro per il mondo a parlare male, a discreditare la Colombia e il suo presidente, gli ho risposto: semplicemente sto dicendo la verità”. Yolanda Pulecio ama profondamente il proprio Paese, nata in una famiglia agiata, da giovane vince diversi concorsi di bellezza, ma dedica l’impegno maggiore a favore dell’infanzia bruciata delle favelas di Bogotà.

Dopo aver seguito il marito, Gabriel Betancourt alto diplomatico colombiano a Parigi, non resiste al richiamo della propria terra ed è lei a convincere Ingrid a impegnarsi per il proprio Paese:”Non dimenticare mai che tutte le possibilità che ti sono state offerte da bambina, oggi costituiscono un debito contratto con la Colombia”. Quando finisce la dura requisitoria Yolanda Betancourt china il capo, quasi a scusarsi, “ma questa è la verità, non ci posso fare niente. E’ una battaglia quotidiana, che tutte le madri possono capire, chiedo solo di starmi vicino”.