lunedì 29 settembre 2008

PA-RA-DA, un clown insegna il rispetto della vita

Gonfiano le buste per sniffare la colla per non sentire i morsi della fame.
La mattina escono dalle fogne di Bucarest per "vivere" la giornata.
Sono le vittime di una società violenta, li chiamano i boschettari.
Il regista Pontecorvo con Pa-ra-da racconta le storie di questi bambini rumeni
e l'esuberanza di un giovane clown francese che insegna loro
la dignità e il valore della propria esistenza.


venerdì 26 settembre 2008

Lehman e i suoi fratelli, il crack del capitalismo

Lumsa News, praticantato giornalistico

di Gabriele Santoro

ROMA - Sono giovani, di professione fanno i broker ed escono alla svelta, scatoloni in mano, dall’elegante sede della banca di affari Lehman Brothers a Manhattan, New York.
Da poche ore è andato in scena il fallimento più fragoroso del capitalismo statunitense: dopo 158 anni di prestigiosa storia Lehman Brothers ha dichiarato bancarotta. 27 mila dipendenti per strada e un valore di mercato, prima del collasso, superiore ai 500 miliardi di dollari andato in fumo. Dall’inizio dell’anno è la dodicesima banca americana a chiudere i battenti.

Orientarsi a New York dal 2001 a oggi non è più la stessa cosa: le Torri gemelle sono cadute, Wall Street, una volta tempio della finanza mondiale, è finito in mano agli speculatori più spregiudicati, anche il mitico Yankee Stadium, dove sono state scritte le pagine più belle del baseball a stelle e strisce, sta per essere demolito. La stampa non se la passa meglio. Il New York Times, da sempre voce indipendente, tirato dentro dai repubblicani nella bagarre elettorale Obama-McCain. Scene da basso impero.

E’ scoppiata la bolla finanziaria. Dopo la fine ingloriosa della parabola della New Economy, cancellata nella sua volubilità dagli scandali, WorldCom in testa, l’economia americana rischia di essere travolta dalla fine dell’illusione della finanziarizzazione del capitalismo. In sostanza fare tanti soldi, in poco tempo, entrando in un vortice di giochi speculativi ad alto rischio. Un management senza etica imprenditoriale, che dirige colossi economici senza una parvenza di politica industriale.
Alla base delle voragini finanziarie che hanno condotto a questi fallimenti, c’è il re dei giochi speculativi: gli ormai famosi mutui subprime.

Di che cosa si tratta? Nel 2007 è scoppiata la tempesta dei mutui facili, che non cenna a placarsi. Mutui ad alto rischio concessi a clienti, che per la propria condizione economica e debitoria, non possono offrire le giuste garanzie per accedere ai tassi di interessi di mercato. Una doppia scommessa per creditori e debitori, in un paese dove tutte le classi sociali sono sempre più indebitate (il 25% della popolazione americana rientra nella categoria dei subprime), che si è rivelata un azzardo catastrofico. Dal 2006 a oggi l’insolvenza dei debitori è cresciuta in maniera esponenziale, costringendo al fallimento agenzie di credito e banche.

A Wall Street in troppi hanno fatto finta di non vedere l’assoluta opacità di certi titoli e di un sistema bancario che opera nell’ombra. L’anno scorso l’Fbi, coordinata con il ministero della giustizia, aveva compiuto una vera e propria retata a Wall Street: sessanta arresti, 406 persone incriminate e l’individuazione di 144 frodi legate ai mutui subprime, per un totale di 1,6 miliardi di dollari di perdite. Le frodi, i sospetti e le indagini di ieri si sono trasformate nella crisi dell’economia, non solo finanziaria, ma reale a livello globale più grave dalla Grande Depressione del 1929. Basta pensare che, paradossalmente, il fallimento della Lehman Brothers ha implicazioni anche nel settore agro-alimentare italiano. La banca di affari detiene il 76% della Spumador, azienda piemontese delle bevande con 1200 dipendenti, le quote azionarie dell’azienda avicola Arena e anche una partecipazione limitata al 7% nella nuova Parmalat.

Ci pensa lo Stato. Chi l’avrebbe mai detto. Nel paese, gli Stati Uniti, ostile a qualsiasi forma di statalismo è l’amministrazione Bush a mettere le mani nel portafoglio pubblico per salvare in serie: Bear Stearns, le banche dei mutui Fannie Mae e Freddie Mac, la banca californiana IndyMac e il colosso assicurativo Aig. La Lehman Brothers non ha goduto di questo aiuto per una scelta politica ed economica discrezionale della Federal Reserve e del Tesoro.
Gli indici delle borse mondiali proseguono nella loro altalena impazzita, dopo aver bruciato miliardi su miliardi, la notizia del piano ha garantito un rimbalzo euforico, seppur privo di solidità.

Il ministro del tesoro Paulson per fermare la reazione a catena del sistema borsistico mondiale ha messo sul piatto un piano finanziario da oltre settecento miliardi di dollari, che presto potrebbe lievitare a mille miliardi. Dai tempi del piano Marshall non si vedeva un intervento statale di tale portata. Un piano di salvataggio biennale per recuperare gli attivi andati persi con i presiti ipotecari ad alto rischio. La finanza pubblica rileverà i titoli “tossici”, in gran parte quelli immobiliari, che rischiano di mandare al collasso banche d’affari e istituti di credito.

La partita è ancora aperta al Congresso di Washington, dove la maggioranza democratica non è ancora del tutto convinta dell’operazione, anche se conviene sull’eccezionalità del momento storico “e sulla necessità di stabilizzare i mercati finanziari” con potenti iniezioni di denaro pubblico. La stessa Russia di Putin, nei giorni del crollo delle borse di tutto il mondo, ha stanziato 500 miliardi di rubli (circa 13,6 miliardi di euro), che si aggiungono ai 1500 già stanziati per le banche. Un sostegno diretto alle transazioni quotidiane dei quattro titoli bancari ed energetici (che da soli valgono la metà della Borsa russa): Gazprom, il "faro" del quartetto, poi Lukhoil, Rosneft e Sverbank. Una boccata d’ossigeno, per evitare la catastrofe.

La responsabilità di chi deve controllare. Il Wall Street Journal ha titolato: ”Wall Street umiliata”. Ma qui il problema non è solo della finanza criminale. E’ tutto un sistema economico che vive senza trasparenza di regole. Come gli capita spesso, ultimamente, Nicolas Sarkozy all’assemblea generale dell’Onu ha centrato il cuore del problema: ”Noi abbiamo l'obbligo di verità e franchezza nella crisi finanziaria che attraversiamo. Oggi milioni di persone nel mondo hanno paura per l'economia, per il loro appartamento, per i risparmi che hanno messo in banca. Noi dobbiamo dare loro risposte chiare”.

Il presidente francese ha parlato di un capitalismo regolare e regolato, che sostituisca quello folle attuale. Il dovere della politica è di fissare i paletti nella gestione economica e della funzione attiva degli enti deputati al controllo. E’ fresca la memoria sul ruolo, negativo, esercitato dalla Consob italiana, dai revisori dei conti nei crack Cirio e Parmalat. Un sistema dove la rincorsa al profitto non metta a repentaglio il denaro dei risparmiatori e dell’economia reale. Questa crisi dovrà decretare la fine della logica del ritorno finanziario immediato.

La stessa logica che spinge le tre maggiori aziende casearie cinesi a immettere sul mercato latte in polvere e liquido contaminato con la melamina, sostanza tossica utilizzata per la fabbricazione di colle e materie plastiche, e che trova le autorità politiche cinesi disposte a nascondere al mondo uno scandalo la cui entità è potenzialmente devastante. Dal dicembre 2007, solo in questi giorni se ne è avuta notizia, si sono verificati i primi casi di malattia per i bambini cinesi contaminati dal latte in polvere prodotto. La differenza è solo nelle vittime della speculazione economica. Il latte contaminato ha già provocato la morte di quattro neonati, 53 mila sono i bimbi contagiati, 13 mila i ricoverati e un centinaio in gravi condizioni.

giovedì 11 settembre 2008

Ennio Remondino: "Con la Georgia è finito l'unilateralismo Usa"

Lumsa News, praticantato giornalistico

di Gabriele Santoro

ROMA – Intervista a Ennio Remondino, giornalista del Tg1, attualmente corrispondente in Turchia. Per anni ha raccontato le vicende balcaniche e seguito i bombardamenti della Nato nella ex-Jugoslavia.

La guerra in Georgia nasce in Kosovo. Qual è il filo che lega le due vicende?
Aldilà del confliggere degli interessi strategici ed economici americani e russi nella sfera caucasica, per il controllo della materia prima e delle vie dell’energia, la guerra in Georgia pone serie questioni politiche e di diritto internazionale.
Kosovo e Georgia ripropongono l’equivoco sulla gestione delle istanze del separatismo etnico-religioso. Dopo il crollo del muro di Berlino e la fine della guerra fredda, in Europa sono esplose spinte separatiste. E’ stata superata l’antica regola sancita dalla pace di Westfalia: i confini degli Stati non si toccano. La vicenda jugoslava è l’emblema: con l’interferenza umanitaria, con la decisione unilaterale di chi avesse l’autorità per fare l’arbitro e con la politica dei due pesi e delle due misure si è giunti alla situazione attuale. In Bosnia dopo i bagni di sangue reciproci, gli accordi di Dayton hanno “costretto” tre gruppi etnici a convivere in uno stesso Stato. D’altra parte il Kosovo segna la vittoria della spinta all’identità etnica, che spezza la sacralità dell’unità nazionale. Nei Balcani, nel mondo, è un precedente pericoloso.
Nel 2004 Vladimir Putin avvertì la comunità internazionale: attenzione, se in Kosovo si procederà unilaiteralmente, sul fronte Caucaso la Russia avrà le mani libere. La logica unipolare dell’amministrazione Bush non ha preso le misure giuste e questo è il risultato.

Il ruolo dell’Europa. Ci sono due punti di vista. C’è chi ritiene l’Ue come unico interlocutore forte e credibile per mediare con Mosca e chi considera l’Europa ridotta all’impotenza dal ricatto energetico russo.
La debolezza dell’Europa è insita nella sua struttura: Bruxelles non è in grado di elaborare una politica estera unitaria. Fino a quando non si introdurrà il voto a maggioranza il rischio della paralisi decisionale è costante. L’aggregato di piccoli o medi stati baltici, ricchi di contraddizioni al loro interno, freschi di ingresso nell’Unione porta rivendicazioni del passato, che non possono conciliarsi con le scelte dei grandi d’Europa. Un esempio su tutti è la Polonia dei gemelli Kaczinsky. La stessa Gran Bretagna è una spina nel fianco, ognuno promuove la propria posizione. Non si può rompere con Mosca, ma la politica estera comunitaria è sempre targata Nato. Javier Solana è portatore di interessi atlantici, non europei.

La fine ingloriosa delle rivoluzioni a colori in Georgia e Ucraina, cavallo di battaglia dell’amministrazione Bush, segna il fallimento del tentativo di contenimento della Russia?
Le scorse elezioni il presidente georgiano Michail Saakashvili ha vinto con il 98% dei voti. Un tale risultato è difficile considerarlo come una prova di democrazia. Molta pubblicistica spiega come gli Stati Uniti, tramite munifiche Ong, siano dietro, finanziariamente e politicamente, a “spontanei” movimenti popolari che, a differenza del passato, senza la violenza ribaltano governi in nome della democrazia.

L’energia e le forniture di gas rappresentano uno snodo chiave. La Turchia che si è tenuta fuori dalla mischia, che ruolo è intenzionata a giocare?
La Turchia sta portando avanti una politica di potenza di area molto interessante.
Un governo che è riuscito a creare un’alchimia vincente tra Islam e capitalismo. Nel futuro ci saranno due poteri: chi possiede le risorse e chi le fa circolare. La Turchia vuole diventare un passaggio chiave per tutti, alternativo ai due blocchi. Stringe accordi petroliferi con l’Iran e l’Iraq, è l’unico paese di religione musulmana che ha fatto accordi commerciali e militari con Israele. Il paese della Mezza Luna, carente di petrolio, gestirà una risorsa sempre più preziosa: l’acqua. Per esempio, garantisce a Israele, sempre a rischio di crisi idriche, le acque del Tigri e dell’Eufrate in cambio di cooperazione antiterroristica. Il rapporto con l’Europa, al di là delle ragioni storiche, dipenderà dall’incontrarsi di reciproci interessi. Per la classe dirigente turca prospettare al paese un futuro europeo è un formidabile strumento politico per continuare nel processo riformatore e modernizzatore endogeno.

La Serbia e l’Europa. L’arresto di Karadzic ha facilitato il riavvicinamento di Belgrado a Bruxelles. E’ possibile un futuro europeo per i Balcani?
Più che l’arresto di altri criminali di guerra, libero c’è ancora solo Ratko Mladic; la domanda da porsi è se ci sia ancora spazio per l’annessione di altri paesi all’unione europea. L’ingresso della Serbia in Europa è molto difficile, per cause interne al paese e alla situazione generale dei Balcani.
Il governo Tadic, seppure abbia vinto le elezioni, non ha una maggioranza solida nel paese per forzare la mano ed è stato costretto a riciclare i voti del partito di Slobo Milosevic. Nella penisola balcanica i nodi irrisolti sono troppi, a partire dal Kosovo. Ma un riavvicinamento della Serbia all’Europa conviene a tutti.

Russia e Georgia, la guerra alle porte dell'Europa

Lumsa News, praticantato giornalistico

di Gabriele Santoro

ROMA - Mentre lo sguardo del mondo era puntato su Pechino e l’apertura dell’Olimpiade, in Georgia sono scoppiate le tensioni, mai sopite, con la Russia di Vladimir Putin. Un conflitto lampo, che in dieci giorni di combattimenti ha causato migliaia di morti civili, 150 mila profughi e riprodotto scene da guerra fredda che la storia sembrava aver mandato in archivio. Come in ogni guerra la prima vittima, dopo i civili innocenti, è la verità.

I fatti. Chi ha sparato il primo colpo? Georgia e Russia hanno continuato per giorni a scambiarsi le responsabilità dell’escalation militare. Nella notte tra il 7 e l’8 agosto i tank georgiani, supportati dai bombardieri dell’aviazione, hanno attaccato le forze di peacekeeping russe e i villaggi delle enclavi separatiste presenti sulle alture di Tskhinvali, capitale dell’Ossezia del sud.
Quale ragione militare ha spinto la Georgia a un attacco così spregiudicato? Alle 19 dello stesso giorno il presidente georgiano Michail Saakashvili, rientrava precipitosamente da una cura dimagrante in Italia, preoccupato da informazioni trasmesse da un satellite americano, che segnalavano l’avanzamento di una colonna di 150 blindati russi pronti a entrare nelle enclavi georgiane dell’Ossezia del Sud. L’idea georgiana era di cogliere di sorpresa l’orso russo e riprendere il controllo della repubblica separatista, contando sul sostegno politico e militare Usa. Nulla di più sbagliato per il presidente-avvocato di Tblisi, formatosi alla Columbia university e leader della rivoluzione pseudodemocratica delle rose, finanziata dai dollari del magnate Soros.

La reazione russa è immediata, violenta, in pieno stile sovietico. “Punire la Georgia”. Vladimir Putin non si accontenta di un cessate il fuoco. L’occasione offerta da Saakashvili è troppo ghiotta: conquistare due regioni, Ossezia del Sud e Abkazia strategicamente fondamentali, e far capire al mondo che la grande Russia è tornata. In poche ore l’aviazione militare russa spazza via da Tskhinvali le forze terrestri di Tblisi. La guerra è già finita, ma comincia l’occupazione militare dei villaggi osseti, della città di confine Gori e manovre di posizionamento dell’esercito moscovita. Il lento ritiro si completerà l’ultima settimana di agosto.

La velocità e l’efficacia della risposta russa, 20mila soldati e 2mila carri armati mobilitati in 48 ore, lascia pochi dubbi sulla preparazione di un conflitto annunciato. Il Cremlino considera la Georgia e l’Ucraina cavalli di troia a stelle e strisce, e l’avvicinarsi della possibilità di un loro ingresso nella Nato ha accelerato l’esplosione del conflitto. Lo stesso Putin, in un’intervista alla Cnn, ha apertamente accusato gli Usa di essere stati i burattinai dell’attacco georgiano.

Il precedente Kosovo e la questione etnica. Nei giorni del riconoscimento degli Usa e dell’Europa dell’indipendenza della repubblica kosovara, il premier russo Vladimir Putin lanciò un monito concretizzatosi in questa guerra:”La comunità internazionale deve accogliere dei principi unici e universali nella soluzione dei problemi interetnici. Perché se il Kosovo può diventare indipendente non potrebbero diventarlo Abkazia e Ossezia del Sud?” Detto, fatto. Il 26 agosto il presidente Dmitry Medvedev annuncia il riconoscimento come Stati indipendenti delle due regioni separatiste georgiane.

Il 12 agosto Nicolas Sarkozy, - nella veste di presidente di turno dell’UE - nel suo blitz a Mosca, allo scopo di fermare la guerra, usò parole che aprono un precedente pericoloso:”La Russia ha il diritto di difendere gli interessi dei cittadini di lingua russa che vivono fuori dal paese”. Le nazioni ex-sovietiche sono piene di minoranze etniche di lingua russa. La storia ha insegnato che dietro l’assistenza a minoranze nazionali si sono nascosti pretesti per mire espansionistiche e conflitti di portata mondiale.

In Ossezia del Sud e Abkazia la questione etnica è complessa. Le due repubbliche non sono di lingua russa, ma i suoi abitanti sono di passaporto russo. Mosca ha provveduto a distribuire passaporti secondo la legge nazionale, che prevede la possibilità di fornire il documento a tutti gli aventi diritto delle Repubbliche ex-sovietiche. Oltre 20 milioni di potenziali russi vivono alle frontiere della Russia, rientrando, così, nella pericolosa sfera di protezione concessa da Sarkozy.
Torna l’Urss? No, ma la nuova Russia di Putin non ha nessuna intenzione di far decidere all’Occidente i propri confini, portandosi il “nemico” in casa, in una regione fondamentale per la geopolitica energetica.

L’Europa nella trappola caucasica. La posizione di equidistanza assunta dalla presidenza di turno francese dell’Ue nella vicenda georgiana rispecchia la necessità di mantenere buoni rapporti con Mosca. La partita dell’aspirante “Impero” russo con l’Atlantico si gioca sulle forniture di gas e petrolio. I paesi baltici, dalla Polonia all’Ucraina, smarcandosi dalla posizione attendista della vecchia Europa, hanno condannato l’aggressione russa con toni forti e azioni concrete.

Il 20 agosto Condoleeza Rice, segretario di stato Usa, ha firmato a Varsavia l’accordo per l’installazione in territorio polacco di missili intercettori del progetto scudo spaziale e una batteria Patriot antimissile rivolta verso il confine russo. Un progetto, quello dello scudo, di difesa preventiva dell’amministrazione Bush, che nasce in chiave anti-Iran e Corea Del Nord, ma la Russia lo vive come una minaccia militare alla propria sicurezza, a cui rispondere.
In sintesi due Europe: la prima, con Francia e Germania in testa, e anche Italia, che vuole mantenere gli equilibri politici ed energetici con la Russia; la seconda, i paesi dell’est freschi di ingresso nell’Ue, che con il sostegno americano premono per respingere il nuovo espansionismo economico e politico panrusso.

Una nuova guerra fredda? Le minacce vicendevoli tra Russia e Stati Uniti di rottura diplomatica e militare, con la Nato, rievocano quel mondo precedente al 1989, anno della implosione del gigante sovietico. Il contesto mondiale di interdipendenza e di un’economia globalizzata rende difficile immaginare uno scenario di isolamento e paralisi reciproco, ma la partita eurasiatica è tutta da giocare.