venerdì 21 novembre 2008

Africa, i diritti dei popoli senza rappresentanza

L'edizione online de Il Sole 24 Ore ha ripreso l'intervista che è possibile leggere di seguito.

http://africa.blog.ilsole24ore.com/2008/12/africa-terra-di.html

di Gabriele Santoro
In questa intervista il camerunense Martin Nkafu, docente di filosofia e storia africana alle Università pontificie gregoriana e lateranense di Roma, affronta il tema del neocolonialismo economico e delle crisi regionali che devastano il continente africano.

Qual è l’origine del conflitto congolese e delle guerre africane?
I conflitti fra tribù erano dovuti alla spartizione della terra per la pastorizia e l’agricoltura, non serviva certo un genocidio per risolvere questo tipo di contese. Non avevano proprio gli strumenti per fare la guerra. In Africa le cosiddette guerre etniche sono cominciate con la formale indipendenza dai paesi colonizzatori. Lo smantellamento degli arsenali militari dei due blocchi dopo la fine della guerra fredda e il traffico mondiale delle armi hanno riempito il continente africano di strumenti di morte. I machete del genocidio ruandese furono importati nel 1993 dalla Cina, non erano certo una produzione locale. La più grande disgrazia degli africani è l’immensa ricchezza del proprio sottosuolo e il non possedere le tecnologie per poterle sfruttare direttamente. L’opportunità di stipulare accordi equi con chi ha i mezzi, l’Occidente, per la commercializzazione della ricchezza naturale rende inutile la guerra. Il problema nasce dal momento in cui questi patti vengono siglati tra l’Occidente e individui che non hanno alcuna rappresentanza popolare. I Capi di Stato africani rispondono a loro stessi, alla loro famiglia etnica. Tutte le potenze, prima coloniali e oggi economiche creano, sostengono e proteggono questi tiranni per mantenere un controllo diretto sulle risorse. Sono questi i veri protagonisti delle guerre africane. Dal 1990 in poi l’accesso a queste leadership era possibile solo attraverso colpi di stato militari e conflitti interni tra gruppi etnici. Uganda, Ruanda, Etiopia e Congo sono chiari esempi di questa strategia, dove l’aiuto straniero per arrivare al potere ora è ricambiato con un ruolo chiave nel governo del paese.

Che cosa significa il traffico di armi in Africa?
L’Africa non ha bisogno di armi, ma di cibo, d’infrastrutture utili alla società e del know-how tecnologico. Il continente è diventato il mercato privilegiato per l’esportazione di armi delle industrie occidentali e asiatiche. La moneta di scambio con cui viene pagato lo sfruttamento delle risorse naturali sono le armi che servono al tiranno o ai gruppi di ribelli, punti di riferimento variabili dell’interesse occidentale, per mantenere il controllo del territorio e fare la guerra quando questo viene meno. Il prezzo delle armi supera spesso quello delle materie prime, creando un circolo vizioso in cui i magri bilanci statali scoppiano per l’indebitamento pubblico. Nel momento stesso in cui le decisioni dell’Onu sono prese dagli stessi paesi che sono coinvolti nelle guerre come fornitori di armi, risulta chiaro come sia difficile fermare i genocidi. Il Consiglio di Sicurezza dovrebbe prevenire i conflitti, con la messa al bando del commercio di armamenti, piuttosto che lanciare inutili appelli al cessate il fuoco. Anche in Africa c’è un’imponente industria delle armi. Sud Africa e Uganda sono i leader della produzione: il 32% dell’esportazione sudafricana è destinata al mercato continentale. Molte società come l’ugandese “Nakasongola Arms Factory” opera in joint venture con i governi cinesi, nordcoreani e sudafricani. Gli Stati Uniti hanno anche una strategia militare precisa nel continente per arginare il rischio del diffondersi del terrorismo islamico. Il Pan-Sahel Initiative è stato promosso per accrescere le relazioni e la collaborazione tra l’esercito statunitense e quello dei paesi del Sahel, la regione intermedia tra il Sahara e l’Africa nera.

In che cosa consiste il neocolonialismo economico?
Le multinazionali sono la brutta faccia del colonialista di un tempo. Rispetto al passato agiscono in maniera invisibile, ma ugualmente pesante. Riescono a far credere che fanno del bene, a farsi apprezzare come un benefattore. Questo tipo di neocolonialismo sostiene la pace senza spiegare al mondo i motivi della guerra. Un sistema economico in cui il colonizzato diventa parte attiva della sua stessa colonizzazione. Il tuo sviluppo per me è l’inferno, dove pochi diventano sempre più ricchi e il resto della popolazione viene lasciato a livelli minimi di sopravvivenza. Porto un esempio concreto. In Africa l’80% delle malattie è dovuto all’acqua non potabile. Costruire chilometri di strade asfaltate non serve alla gente, che nei villaggi non possiede automobili, mentre la distribuzione nelle scuole di acqua potabile gratuita o a prezzi accessibili significa fare economia utile alla comunità. Le vie da percorrere per il nostro sviluppo sono due: lo stop immediato al mercato delle armi che oltre a provocare la morte di milioni di innocenti, distrugge l’economia nazionale. Il secondo è diventare un attore mondiale cambiando gli schemi di una globalizzazione che sta fallendo nell’obiettivo della distribuzione del benessere.

Quanto incide il problema dei profughi nelle crisi regionali?
Questo è un fattore di destabilizzazione molto grave. Se l’Onu fallisce anche nella gestione dei profughi è meglio che chiuda definitivamente. Le popolazioni costrette a scappare per sfuggire alle violenze, una volta concluse le ostilità, devono tornare nella propria terra. Le aree di guerra non possono diventare zone franche, in cui le ricchezze siano saccheggiate con le armi e poi diventino proprietà altrui. Il rientro nei luoghi di origine eviterebbe tutte le tensioni sociali e i problemi economici di chi ha perso qualunque tipo di sostentamento.

Che cosa regge in piedi gli Stati africani?
Gli Stati africani sono sull’orlo del fallimento. Le elite politiche che li guidano da molto decenni non hanno alcuna rappresentanza sociale. La società africana fin dalle sue origini è sempre stata comunitaria, un villaggio non poteva vivere nell’autosufficienza, decontestualizzato. In Africa il governo detto democratico, in realtà è proprietà di un dittatore che fa svanire il concetto stesso di democrazia: governo del e per il popolo. Il bene pubblico, come le risorse naturali, si trasforma in un bene individuale che non apporta alcun beneficio alla comunità. Seguendo il concetto europeo di mettere nei posti di comando miei familiari o gente della mia terra, di cui ho piena fiducia, le proprietà dello Stato diventano prerogativa di un’etnia. Ed ecco che scoppiano le tensioni etniche di chi non si sente rappresentato. Nel testo costituzionale sudafricano è contenuto il valore culturale più importante su cui si fonda la nostra società: l’Ubuntu. “Ciò che è mio è tuo”. È un'espressione in lingua bantu che indica "benevolenza verso il prossimo". È una regola di vita basata sul rispetto dell'altro. Appellandosi all'ubuntu si è soliti dire Umuntu ngumuntu ngabant, "io sono ciò che sono in virtù di ciò che tutti siamo". L'ubuntu esorta a sostenersi e aiutarsi reciprocamente, a prendere coscienza non solo dei propri diritti, ma anche dei propri doveri, poiché è una spinta ideale verso l'umanità intera, un desiderio di pace.

lunedì 10 novembre 2008

Il Congo in fiamme con milioni di profughi

Lumsa News, praticantato giornalistico

di Gabriele Santoro

Roma - Come a Srebrenica, Bosnia anno 1992. Come a Kigali, Ruanda anno 1994. Oggi in Congo davanti agli occhi dei caschi blu dell’Onu, tanti, male armati e prigionieri delle scelte politiche del Consiglio di Sicurezza, si sta consumando una nuova mattanza di civili innocenti.

I fatti. La fragile tregua siglata a gennaio tra i ribelli di Laurent Nkunda del Nord-Kivu, regione nell’est del Congo, e le forze governative di Joseph Kabila è iniziata a vacillare nel mese di agosto, quando gli sfollati nella provincia erano già 250mila. Nelle ultime settimane i combattimenti sono deflagrati con esecuzioni sommarie di civili, stupri, villaggi bruciati e milioni di profughi.
Ufficialmente il conflitto è fra i miliziani ribelli del Cndp, che affermano di agire per difendere la comunità tutsi, e le forze governative, accusate di collaborare coi miliziani hutu delle Forze democratiche per la liberazione del Ruanda (Fdlr). In realtà la mancanza di autorità del governo centrale nella regione orientale del Paese lascia campo libero a diverse bande armate interessate alle risorse minerarie di cui il Nord Kivu è ricco, che agiscono nell'impunità seminando il panico fra la popolazione.

Brucia Kiwandja. L’unica ong presente nella città di Kiwandja, nel Nord-Kivu, è Medici senza frontiere. A qualche km di distanza, a Rutshuru, c’è l’ospedale che accoglie l’incessante flusso di feriti e si è trasformato in un luogo di rifugio per molti profughi.
Il responsabile della struttura sanitaria di Msf ha raccontato a Le Monde la situazione della città:”Dopo due giorni (4 e 5 novembre) di violenti combattimenti è stata fatta evacuare l’intera popolazione, oltre 20 mila abitanti, della città. Le strade di Kiwandja sono piene di morti, le case saccheggiate e bruciate. Noi restiamo, cercando di tessere relazioni con entrambi le fazioni per avere un minimo di sicurezza”.

La missione Monuc dell’Onu, con 17mila soldati impiegati è la più grande nel mondo, ha suggerito alle ong di congelare le attività: i caschi blu sono impegnati al massimo nel contenere l'avanzata dei ribelli e non possono assicurare protezione o assistenza. La maggior parte dei campi profughi si è concentrata proprio a Goma, capitale della regione, dove la gente in fuga dai villaggi cerca di trovare gli aiuti umanitari. I civili costretti ad abbandonare le proprie case sono oltre un milione, di cui 200mila solo nei dintorni della città del Nord-Kivu. Il Pam (programma alimentare mondiale) ha iniziato a distribuire i viveri e il materiale per costruire delle tende di fortuna dove riparare le migliaglia di sfollati. La Francia ha sbloccato oltre 4 milioni di euro di aiuti, che si vanno ad aggiungere ai 3 milioni del programma alimentare delle Nazioni Unite.

La regionalizzazione del conflitto. Uno dei rischi maggiori dell’escalation militare nel nord-Kivu è la partecipazione attiva al conflitto di milizie dei paesi confinanti. I governi dell’Angola e dello Zimbabwe hanno già inviato soldati a sostegno delle forze governative congolesi di Joseph Kabila. L’Angola già nella guerra civile della Rdc, dal 1998 al 2002, aveva offerto i propri soldati per tutelare i comuni interessi economici con il governo di Kinshasa, in una regione fondamentale per i giacimenti minerari.

Nicolas Sarkozy in un colloquio con l’omologo angolano Dos Santos ha ribadito “il pieno sostegno politico e diplomatico” al presidente Kabila, che indirettamente si traduce in una via libera all’intervento dei militari di Luanda. Nella crisi un ruolo chiave è giocato dal Ruanda di Paul Kagame. Gli odi etnici e i machete del genocidio ruandese, infatti, hanno ripreso a ruotare attraverso i ribelli congolesi guidati da Laurent Nkunda. Il gruppo di guerriglieri è di etnia tutsi e di lingua ruandese. Nella guerra civile ruandese ha combattuto proprio a fianco del presidente Kagame, anch’egli tutsi. D’altra parte l’esercito regolare congolese, mal equipaggiato e con forti frizioni interne, è sostenuto da gruppi di paramilitari che corrispondono a diverse etnie.

Tra i fiancheggiatori ci sono anche le milizie del Fronte democratico di liberazione del Ruanda, nient’altro che i macellai Hutu già responsabili del genocidio nel proprio paese. Il ruolo dell’Europa è reso ancora più difficile dalle implicazioni politiche e diplomatiche francesi nel genocidio dei tutsi nel 1994. Proprio l’agosto scorso una commissione governativa di Kigali ha prodotto un dossier, che accusa Parigi di aver assunto una regia politica nei massacri che insanguinarono il Ruanda. Per evitare una nuova tragica guerra transfrontaliera l’unica via percorribile è quella di mettere sul tavolo tutti i nodi della questione Ruanda-Congo: il commercio tra i due paesi, lo sfruttamento congiunto delle materie prime e l’integrazione pacifica delle popolazioni ruandese nel territorio congolese.

venerdì 7 novembre 2008

Barack Obama è il nuovo presidente degli Usa



Lumsa News, praticantato giornalistico

di Gabriele Santoro

ROMA - Barack Obama è il nuovo presidente degli Stati Uniti. Pennsylvania, Ohio e Florida hanno sancito la vittoria totale del cambiamento impersonato dal candidato democratico. Obama sarà il primo afroamericano a varcare le soglie della Casa Bianca. Una vittoria festeggiata in tutto il mondo: da Chicago, quartiere generale dei democratici, a Nairobi in Kenya, dove è stato proclamato un giorno di festa nazionale. Il mondo aspettava il concretizzarsi dell’immensa speranza, come l’ha definita Nicolas Sarkozy, di un’America nuova, il buon esempio di una democrazia autorevole che dialoga con il resto del pianeta. Quella del 44° presidente degli Stati Uniti è una vita a ostacoli, una sfida continua da vincere. Gli dicevano che contro la potente famiglia Clinton c’era poco da fare. Gli dicevano che gli Stati Uniti non erano pronti ad avere un presidente nero. Lui l’ha fatto. “Sono la dimostrazione - ha gridato nella notte Obama al Grant Park di Chicago - che nulla in questo Paese è impossibile”.

I numeri della vittoria. Barack Obama ha vinto nel voto popolare staccando McCain di quattro milioni di voti e ha conquistato 349 voti dei grandi elettori, ne bastavano 270 per vincere. Il successo negli stati incerti ha consegnato ai democratici una solida maggioranza al Senato e alla Camera di Washington. La partecipazione al voto degli afroamericani si è attestata al 13%, una quota leggermente superiore a quella del 2004. Gli ispanici hanno votato in massa per il candidato democratico: il 66% dei latinos ha garantito la vittoria democratica in Colorado, Nevada e New Mexico. Il 72% dei nuovi iscritti alle liste elettorali, come era stato ampiamente previsto, ha sostenuto la corsa di Obama. È record anche per l’affluenza al voto: il 66%; bisogna tornare al 1908 per trovare una percentuale analoga.

La notte dell’Excelsior. L’ambasciata statunitense a Roma ha vissuto la grande notte dell’elezioni “più attese, più appassionanti – come sottolineato dall’ambasciatore Ronald Spogli - per lo spessore personale dei due candidati e la delicatezza del momento storico che stiamo vivendo”, all’Hotel Excelsior in via Veneto. Esponenti del mondo politico, dal capogruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto a Franco Bassanini, dello spettacolo, come Renzo Arbore, e del giornalismo, da Alain Elkann a Giovanni Floris, hanno seguito ora dopo ora la corsa presidenziale, alternando interviste alla mondanità di una serata storica. Tra gli ospiti italiani e gli americani a Roma della notte del “Nessun dorma” era netta la prevalenza per il candidato democratico. Sui vestiti griffati non poteva mancare la spilletta “Obama-Biden 08”, con il commento ricorrente “e chi se la mette quella di McCain?” Foto ricordo vicino ai busti dei candidati, cucina messicana e musica folk fino alle 5 del mattino, quando la Cnn ha annunciato: “Barack Obama elected president”.

Reazioni dal mondo. La banlieue di Parigi e il ghetto di Harlem si sono infiammati all’unisono, vivendo la vittoria di Obama come un riscatto sociale. Uno dei segreti del successo del candidato nero è stato non far pesare il pregiudizio razziale, dimostrando che ”non siamo solo un insieme di tipi, ma un paese unito”. Nei bar di Giacarta campeggia la gigantografia del nuovo presidente. Dalle metropoli europee come Londra e Berlino ai villaggi kenioti la notte è stata lunga e gioiosa. Gli investitori si aspettano che il cambio della guardia alla Casa Bianca possa favorire la ripresa economica. Ma il messaggio di Obama è subito chiaro: “Wall Street non può far soldi mentre la gente soffre. Nell'America di Barack Obama non ci potrà essere una Wall Street che si arricchisce mentre Main Street (la gente comune) soffre”. Le parole rivolte dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al neoeletto Obama sintetizzano il valore di una vittoria globale: “Questo è un grande giorno: traiamo dalla sua vittoria e dallo spirito di unità che l'accompagna nuovi motivi di speranza e di fiducia per la causa della libertà, della pace, di un più sicuro e giusto ordine mondiale".

lunedì 3 novembre 2008

Diario del voto Usa



Lumsa News, praticantato giornalistico

di Gabriele Santoro

ROMA -
In tutte le televisioni americane campeggia il countdown per le elezioni più attese nella storia recente del paese. Barack Obama e John McCain serrano le fila in vista del 4 novembre, alla ricerca del colpo vincente nelle ultime ore di campagna elettorale. Ad aprire la settimana è stato il candidato democratico con un megaspot, costato tra i 3,5 e i 6 milioni di dollari, trasmesso a reti unificate, ad eccezione della Cnn, nell'ora di massimo ascolto televisivo.

Un documentario che ha alternato le storie dell’America impoverita dalla crisi economica e minata nelle sicurezze sociali - dalla sanità all’istruzione a causa delle scelte politiche neocon dell’amministrazione Bush - alla storia personale del senatore dell’Illinois. Sovraesposizione mediatica per Obama o mossa vincente per raggiungere l’America profonda che non compare nei sondaggi? Commentatori e analisti si sono divisi sull’effetto prodotto da questo messaggio. Critico il New York Post di Rupert Murdoch, sostenitore di McCain, ha definito il documentario come pura informazione commerciale, privo di profondità politica.

Il voto anticipato. Oltre 12 milioni di cittadini hanno già votato per posta o di persona. Secondo un sondaggio condotto da Washington Post/Abc News tra gli elettori che hanno votato in modo anticipato, il 60% avrebbe scelto il senatore dell'Illinois Barack Obama. Il voto anticipato è una pratica sempre più diffusa: un terzo degli elettori l'ha scelta quest'anno contro il 22% nel 2004 e il 16% nel 2000. Attualmente è previsto in 31 Stati dell'Unione secondo modalità decise a livello locale, in genere o di persona in un seggio elettorale (come se fosse il 4 novembre), per corrispondenza o per posta elettronica.

Economia e sicurezza sociale. Il tema la centro dei comizi finali dei due candidati, come del resto in tutti questi ultimi mesi di campagna elettorale, è stata la risposta da offrire agli elettori sulla crisi economica degli Stati Uniti. Barack Obama si è rivolto con insistenza alla middle-class, evocando la necessità di un nuovo New Deal, per diminuire le disuguaglianze sociali: il peccato originale che ancora attanaglia la società americana. Il candidato democratico ha ribadito le priorità della propria agenda politica: dalla stabilizzazione del sistema finanziario a una riforma sanitaria che garantisca l’assistenza medica per tutti gli americani.

Da parte sua John McCain ha faticato a staccarsi dall’ombra dell’amministrazione Bush: come spiegare agli americani che la propria dottrina economica sarà così diversa dalla deregulation degli ultraconservatori repubblicani? Nella convivenza colorita con la vice Sarah Palin, si è puntato tutto sull’attacco all’avversario definito un “socialista”, agitando lo spettro del presunto aumento delle tasse per l’americano medio contenuto nel programma democratico. McCain si è anche affidato ai muscoli e al prezioso sostegno del governatore Arnold Schwarzenegger, che si è preoccupato della forma fisica di Obama consigliando flessioni per mettere “un po’ di carne intorno alle proprie idee”. John McCain, al contrario, “è costruito come una roccia. Il suo carattere e le sue idee sono sane”. Un modo per parlare all’America profonda.

Gli Stati chiave. Cleveland, Columbus e Cincinnati. Tre comizi in un giorno nell’Ohio, un vero porta a porta. Barack Obama ha concentrato la propria campagna in uno Stato che ha da sempre aperto la via al nuovo presidente. John McCain ha imperversato tra la Florida, Pennsylvania e New Hampshire. L’attenzione dei due candidati si è concentrata sui cosiddetti swing state (Florida, Nevada, Colorado, Ohio, Missouri, Indiana, Virginia), gli stati dove per poche decine di voti possono cambiare gli equilibri del complesso sistema di voto Usa. Le elezioni presidenziali segneranno la partecipazione al voto più alta dal dopoguerra. Una buona notizia per la democrazia americana, aspettando che si levi un nuovo giorno.