mercoledì 25 febbraio 2009

Fuga da Mogadiscio: Mohamed Alì sogna la salvezza in Italia

L'agenzia di stampa Apcom ha pubblicato questo mio servizio in cui Zakarya Mohamed Alì, ventiduenne giornalista somalo, racconta la propria storia di migrante in attesa di ricevere lo status di rifugiato politico.

http://www.apcom.net/africa_news/20090225_165326_3f05738_2866.shtml

di Gabriele Santoro

ROMA - (25 febbraio) - A Mogadiscio l’insediamento del nuovo presidente somalo Sheick Sharif  ha riacceso violenti combattimenti tra le forze governative e i miliziani islamici. Gli scontri hanno coinvolto simultaneamente diversi quartieri della città, principalmente sono stati colpiti i distretti di Hodan e Holwadag nella parte meridionale. Il bilancio provvisorio degli scontri è salito a 22 morti e oltre 40 feriti.

Questa è la testimonianza di Farhan Ahmed, un commerciante sopravvissuto ai colpi di mortaio: “Stavo parlando con alcune persone sul marciapiede fuori dal mio negozio, quando improvvisamente delle raffiche di mortaio hanno colpito il marciapiede e le schegge hanno ucciso all’istante cinque persone, tra le quali due miei cari amici”.
Nel dicembre 2007 Zakarye Mohamed Alì, ventiduenne giornalista somalo, è scappato dall’inferno di Mogadiscio per raggiungere le coste di Lampedusa nell’agosto del 2008. Dallo scorso settembre vive nel Centro di Accoglienza Enea per rifugiati politici di Roma. “La decisione di andare via è maturata nel dicembre 2007 - racconta Mohamed Alì -. In Somalia la situazione di guerra permanente ha cancellato il rispetto di ogni diritto umano. L’episodio che mi ha convinto definitivamente a lasciare il paese è stato l’omicidio di Mahad Ahmed Elmi nell’agosto 2007, mio maestro di giornalismo e direttore della radio Capital Voice, la più importante della capitale somala”.

Le milizie islamiche e i soldati governativi hanno scatenato una rappresaglia contro gli operatori dell’informazione: ”Negli ultimi due anni in Somalia - denuncia Mohamed Alì - sono stati uccisi dodici giornalisti, ne sono stati arrestati 69 e 55 sono gli espulsi dal Paese. Esercitare questa professione è reso quasi impossibile in tutte le regioni del Paese. Nel marzo del 2007 il ministero dell’informazione del governo centrale ha emanato un decreto che vieta qualsiasi attività di comunicazione senza la previa autorizzazione ministeriale. Molte redazioni di giornali o radio subiscono continuamente attacchi armati o perquisizioni violente”.

Come molti altri giornalisti somali Mohamed Alì ha cercato un primo rifugio in altri paesi africani: “In realtà quando sono partito da Mogadiscio non avevo le idee chiare. Ero solo spaventato e volevo scappare. Il 2 dicembre con un gruppo di altri 25 giornalisti abbiamo raggiunto in aereo Hargheysa nel Somaliland (Repubblica auto-proclamatosi indipendente nel 1991, comprende le province settentrionali della Somalia ndr). All’aeroporto le autorità militari federali ci hanno intimato di abbandonare il Paese. Il 14 dicembre sono sbarcato ad Addis Abeba, in Etiopia. In città sono rimasto per soli venti giorni con l’aiuto di alcuni parenti, che mi hanno ospitato e dato dei soldi, circa 250 dollari.

In Etiopia non avrei potuto proseguire i miei studi e mi hanno consigliato di raggiungere Khartoum, in Sudan, sperando nell’accesso all’International University of Africa. Grazie al prestito dei miei zii ho affrontato il viaggio in pullman fino alla capitale sudanese. Dalla Somalia avevo portato con me tutti i documenti che certificano la mia istruzione: il diploma delle scuole superiori, l’attestato del corso di giornalismo nella Bilal school of journalism e il tesserino di membro del Nusoj (Unione Nazionale dei Giornalisti Somali). L’università non ha accettato la mia domanda di iscrizione per la mancanza dei requisiti economici.

In Sudan ho trascorso circa un mese e mezzo, ma la permanenza è stata molto travagliata. La mia casa è stato il centro di accoglienza Shaqarab dell’ Unhcr, dove vengono accolti immigrati eritrei, somali e sudanesi nullatenenti. Le condizioni igieniche del centro erano pessime, dormivamo stipati in stanze molto piccole. Per mantenermi ho lavorato in un ristorante come lavapiatti. A Khartoum la situazione era veramente insostenibile. Il 14 febbraio 2008 siamo riusciti a partire dal Sudan con un gruppo di connazionali, dopo aver raccolto i cinquecento dollari necessari a pagare un gruppo di sudanesi e ciadiani, che organizzavano i trasferimenti in Land-Rover verso la Libia. Quattordici giorni in macchina, attraversando il deserto del Sud-Sahara senza vedere essere umani, con piccole tappe per rifornire, riposare e le varie fermate ai check-point delle milizie sudanesi”.


Il centro di raccolta di tutta l’emigrazione dei paesi del sub-sahariani è la Libia, dove la maggior parte dei migranti sosta in attesa di una partenza verso l’Europa. “Siamo arrivati in Libia il 3 marzo a Kufrah - prosegue Mohamed Alì -. Al nostro arrivo siamo stati consegnati a un gruppo di libici, che ci hanno portato in un centro con moltissime persone provenienti da tutto il continente. Ci hanno letteralmente catturati. Il prezzo fissato per la nostra libertà era di duecento dollari: senza quella somma non ci saremmo potuti muovere da lì. La mia “prigionia” a Kufrah è durata quasi un mese: una volta ho provato a scappare, ma mi hanno ripreso e messo a lavorare in un supermarket come facchino. Una volta guadagnato il denaro sufficiente sono stato trasferito da Kufrah a Bengasi, dove ho sostato altri dieci giorni per poi raggiungere Tripoli.

A Tripoli mi sono sistemato in un quartiere, chiamato Sharaac Street, dove vivono moltissimi somali. Ise Ali Sabriye, un manager somalo della compagnia di costruzioni turco-libica LITCO, mi ha dato la possibilità di lavorare per quattro mesi come operaio. Facevo il cemento, dieci ore al giorno, dalle 8 del mattino alle 18 di sera, sette giorni su sette. In una settimana guadagnavo 75 dinari libici e venivo pagato regolarmente nel weekend. Spendevo due dinari per il trasporto. Mangiavo due volte al giorno: il mio menù fisso era pane, formaggio, tante banane che davano energia e acqua. Dormivo in uno stanzone con altre nove persone, tutti sistemati su letti a castello. Questo impiego mi ha salvato dal rischio più grande: finire nelle carceri libiche. Se non paghi oltre mille dollari di cauzione non hai modo di uscire. Gli stranieri vengono trattati indecentemente, non come essere umani.

Molte persone sopravvivono a Tripoli in attesa di imbarcarsi per l’Italia. Ci sono dei mediatori provenienti da diverse nazioni africane che ti propongono di partire:“Se hai i soldi puoi andartene anche subito”. Ma non avevo ancora guadagnato i mille dollari necessari per salire sulla barca.

(Mogadiscio, Somalia 2009. Foto coperta da copyright)

Ho dato tutto quello che avevo a disposizione, circa 450 dollari, a un intermediario somalo che mi ha consegnato a un gruppo di libici ed egiziani che gestivano le partenze. Sono stato portato a Tajura, uno dei villaggi più vicini al mare e dopo una settimana un’ulteriore trasferimento mi ha condotto a Karboley”.

Arriva poi il momento dell’ultimo viaggio della speranza per Mohamed Alì destinazione Italia. “Il 10 agosto del 2008, dopo il tramonto, siamo partiti dalla Libia. Eravamo uomini, donne e bambini di origine somala, ghanese e nigeriana. Una barca piccola, al massimo 6 metri, con 43 persone a bordo. Ci hanno dato 40 litri di acqua da dividere tra tutti per l’intera durata della traversata. Durante la navigazione, a causa dei molti sobbalzi, l’acqua è andata persa e siamo rimasti un giorno intero senza bere. Ho provato una profonda paura, perché eravamo in molti e non c’era spazio per muoversi. La sensazione più brutta era sentire la pelle bruciare. Tre giorni in mare fino allo sbarco il 13 agosto a Lampedusa. Nel Cpt dell’isola abbiamo passato quasi due settimane, prima di essere trasferiti in aereo a Roma.

Ora ho un sogno da cullare per il mio futuro. Nel centro di accoglienza Enea sono trattato bene, mi hanno accolto con il sorriso. Ogni giorno facciamo molte attività importanti: come corsi di informatica, molte lezioni di italiano e anche attività di cineforum. Al momento la mia sfida più importante è quella di imparare l’italiano: la chiave del mio futuro, la prima necessità per la mia integrazione nel nuovo Paese. Sogno di vivere un giorno in pace con mio figlio Ilhan e mia moglie Najma. Serbo nel mio cuore la speranza, dopo aver trovato un qualsiasi lavoro che mi permetta di vivere, di approfondire gli studi e tornare a fare il giornalista”.

sabato 21 febbraio 2009

Estratti da "Il violoncellista di Sarajevo", di Steven Galloway

KENAN
La guerra uccide la cultura
"...Mentre lo aiutavano ad alzarsi e lo conducevano via, Kenan vide che aveva le guance rigate di lacrime o sudore e che muoveva le labbra in silenzio, come uno che prega. Nei giorni seguenti, la cenere di milioni di libri cadde fluttuando come neve sulla città..."
Sentirsi stranieri a casa propria
"...Kenan non può fare altro che guardare quel che resta della Biblioteca Nazionale. Benchè la struttura di pietra e mattoni sia ancora in piedi, l'interno dell'edificio è stato divorato dalla fiamme. Il fuoco ha lasciato lingue di fuliggine sopra tutte le finestre, e il soffitto a cupola di vetro, che per un secolo aveva sormontato con fierezza il palazzo, giace sul pavimento in frantumi. Un tempo il tram compiva un semicerchio lì intorno, offrendo una panoramica completa di quell'edificio rappresentativo. Era uno dei luoghi che più amava della città, benchè non fosse un gran lettore. Era la manifestazione più evidente di una società di cui andava fiero. Ora le rotaie del tram non servono più a nulla, solo a mostrare tutto quel che è andato perduto. La bibiloteca fu uno dei primi bersagli degli uomini sulle montagne..."
Il Dio della guerra decide della tua vita
"...Quando si avvicinano al ponte, Kenan viene assalito da un senso di disgrazia incombente, è certo che ci saranno degli spari, che li ammazzeranno tutti e due. Il trucco è muoversi in modo casuale ma non frenetico. Le bottiglie dell'acqua sbattono l'una contro l'altra e benchè non facciano tanto rumore, a lui pare un rullo di tamburi spaventoso, che lo fa sentire perseguitato. Corre più forte, molto più forte di quanto ritenga prudente, ma è romai in preda al terrore e non può farci più nulla. Inciampa in una piccola buca. Rimane lì seduto, con il fiato corto e i polmoni asciutti e roventi, finchè il respiro non ritorna regolare e lui si rimette in piedi..."
Quello che resta
"...Così vanno le cose. GLi edifici vengono sventrati, sbudellati, bruciati, le auto distrutte le strade e i ponti disintegrati, li puoi vedere, toccare con mano e passarci davanti tutti i giorni. Ma quando la gente muore viene portata via, negli ospedali, nei cimiteri e, prima che i corpi siano guariti o freddi, nei luoghi in cui sono stati martoriati sembra non essere accaduto nulla di insolito. Ecco perchè gli uomini sulle montagne possono uccidere impunemente. Se i cadaveri rimanessero lì per strada a decomporsi, nel punto esatto dove sono caduti, se l'acqua di questi tubi non lavasse il sangue, le ossa, la pelle, forse gli uomini sarebbero costretti a fermarsi, forse vorrebbero fermarsi..."
Che senso ha?
"...E' stanco. E' stanco di andare a prendere l'acqua ed è stanco del mondo in cui vive, un mondo che non ha mai desiderato e non ha contribuito a creare e non vorrebbe che esistesse..."
Gli sciacalli languidi
"...In fondo alla strada vede un uomo di fianco a una Mercedes nera. Indossa una tuta da ginnastica nuovissima ed è ben pasciuto. Se ne sta lì in piedi a fumare, apparentemente in attesa di qualcosa. Passa un grosso camion, che si ferma vicino alla Mercedes nera, il guidatore scende e parla all'uomo lì in attesa. Kenan non ha idea di dove stia andando, ma ha capito benissimo quel che ha visto, sa che l'acqua nel camion non è destinata a gente che la merita. L'uomo guarda il mercato fumando. I suoi movimenti sono languidi. Osserva proprio lui, pare ridere alla vista di quel'uomo che cerca di correre con tutto quel peso addosso. Va avanti. Si ferma nel punto dove era parcheggiata la Mercedes, guarda a terra e vede la sigaretta gettata dall'uomo. Sta ancora fumando, non è finita, ha un bel pò di tabacco. Una vecchia sgattaiola davanti e si china a raccogliere la sigaretta. Con la mano rattrappita la infila in una lattina e prosegue per la sua strada senza mai alzare gli occhi da terra. Assomiglia più un granchio che a una persona.
Proviene dagli aiuti umanitari inviati dal mondo, il riso non dovrebbe essere in vendita e invece lo è eccome. Avrebbe dovuto ottenere gratuitamente e che invece ha dovuto pagare per permettere a esseri viscidi in tuta da ginnastica e in giacca e cravatta di arricchirsi..."

DRAGAN
Non vivo, sopravvivo
"...Dragan sta per rispondere, quando si rende conto che il cane ovunque stesse andando e qualsiasi cosa avesse in mente di fare, non è poi tanto diverso da lui. Entrambi stanno solo cercando di sopravvivere..."
Chi ci salverà?
"...Alcune persone si sono raccolte intorno a Emina, le hanno tolto il cappotto per controllare meglio la ferita. Emina è ancora cosciente e non sembra provare il dolore che lui si aspetterebbe. E' bianca in viso. Le si inginocchia accanto, lei gli fa un mezzo sorriso quando lo vede. L'auto di colore rosso scuro e con quattro portiere, si ferma. Ha il parabrezza incrinato e alcuni fori di pallottola su una fiancata. Due uomini si precipitano fuori lasciando le portiere aperte e il motore acceso. Danno una rapida occhiata all'uomo senza cappello disteso a terra, concordano sul fatto che non c'è nulla da fare per lui e si concentrano su Emina..."
La vita è degna della paura di morire
"...La consapevolezza di una fine imminente non gli sembra più tanto orribile rispetto all'idea di una morte istantanea. Non sarebbe meglio dare un'ultima occhiata al mondo, persino in una versione grigia e deteriorata, piuttosto che sprofondare senza preavviso nell'oscurità? Quel che fa la differenza, si rende conto, è aver voglia o meno di restare nel mondo in cui si vive. Perchè se è vero che lui avrà sempre paura di morire e che nulla potrà mai cambiare questo dato di fatto, c'è comunque da chiedersi se la sua vita sia davvero degna di quella paura. Eppure non si è mosso quando sono arrivati gli spari. Non è stato nulla di meditato, aveva solo paura. Se questo lo qualifica come codardo, non ha problemi a definirsi tale. Non è fatto per la guerra. Non vuole essere fatto per la guerra..."
Voi cecchini a quale umanità appartenete?
"...Gli uomini che sono sulle montagne sperano che finisca la guerra? Sono contenti quando colpiscono un bersaglio, oppure basta spaventare la gente, osservarla correre all'impazzata per salvarsi la vita? Sentono rimorso quando tornano a casa e guardano i propri figli, oppure si rallegrano al pensiero di aver reso un gran servizio alle generazioni future?... "
Questa è ancora casa mia?
"...Dragan non vuole andare in Italia. In qualsiasi paese dovesse andare, lui rimarrebbe di Sarajevo. Questa è casa sua ed è qui che vuole stare. Non vuole vivere sotto assedio per il resto della sua vita, ma abbandonre la città agli uomini sulle montagne significherebbe rimanre per sempre randagi. Finchè riuscirà a impedire alla sua paura di morire di non fargli più vedere quel che rimane della città che un tempo amava. Allora c'è ancora speranza che un giorno potrà di nuovo passeggiare con la moglie e il figlio per le vie di Sarajevo. Se la guerra finirà, se la vita tornerà ad assomigliare a quella di prima, e se lui sopravviverà, non sarà mai in grado di spiegare tutto questo sia stato possibile. Una spiegazione presuppone l'esistenza di una qualche logica, ma non vi è alcuna logica nella Sarajevo di adesso. Spera che non gli sembrerà mai vero. Per difendersi dalla morte si è fatto sfuggire la vita..."


(Somalia, Mogadiscio 2009. Foto di Gabriele Santoro - Coperta da copyright)
Resti umani

"...Il sangue è appiccicoso e scivoloso sotto le suole delle scarpe. Si china e solleva una mano, una mano senza vita e ancora calda. L'altra è difficile da afferrare. Perde l'equilibrio e cade. Ha il naso a un centimetro da quel che rimane della testa dell'uomo senza cappello. Non vivrò in una città dove i cadaveri giacciono abbandonati in strda, e tu non lo dirai al mondo.
Se questa città morirà, non sarà a causa degli uomini sulle montagne, bensì della gente della valle . Se i cittadini si adattano a convivere con la morte, se diventano quel che gli uomini sulle montagne vogliono farli diventare,
Sarajevo morirà. Dragan prende il cappotto di Emina, copre l'uomo ai suoi piedi e gli restituisce il berretto..."

FRECCIA

Io non sono un cecchino
"...Gli uomini ulle montagne hanno creato molti mostri. Ci sono certi qui che credono di essere nel giusto solo perchè si oppongono a una cosa cattiva. Usano la guerra e la città per i loro scopi personali, e io non voglio avere nulla a che afre con loro. Se è così che dovrà essere la città una volta finita la guerra, allora non vale la pensa di salvarla. Freccia si gira e fa per andarsene, quando lui l'afferra per la spalla e le dice: "Tuo padre non mi avrebbe mai perdonato per averti fatto diventare un soldato". "Mio padre è morto. E io ti perdono"..."
L'odio, l'unico prodotto della guerra
"...Pensa di essere buona solo perchè uccide uomini cattivi? E' davvero buona? E' importante sapere il motivo per cui li uccide? Lei li uccide perchè li odia. Il fatto di avere buoni motivi per odiarli basta ad assolverla? Un mese prima avrebbe risposto di sì a questa domanda.
Freccia si china a raccogliere il fucile. Quel peso familiare la conforta. Se vogliono che ammazzi gli uomini sulle montagne, sta bene, lei li ucciderà. Qualsiasi cosa sia successa nella sua vita, le scelte fatte prima l'hanno condotta fin qui. Ora rimangono solo le conseguenze..."
Riprendersi la propria libertà fino al sacrificio finale
"...Gli uomini sulle montagne, gli uomini in città, lei stessa, nessuno di loro aveva il diritto di fare quel che è stato fatto. Nessun dolore, nessuna rabbia e nessun atto di nobiltà avrebbe potuto cancellare ciò che era stato. Però si poteva fermarlo. Lei non doveva per forza essere piena di odio. La musica le intimava di ricordarselo sempre, di non perdere la certezza che il mondo fosse ancora capace di bontà.
Nessuno, che si trovi sulle montagne o in città, le dirà chi deve odiare. Fra pochi istanti la porta si aprirà. Almeno quattro uomini, forse di più, irromperanno in casa sua e si affretteranno a scaricarle addosso più pallottole possibili. Sa che stanno per sfondare la porta. Chiudi gli occhi, ricorda le note ascoltte il giorno prima, una melodia ormai scomparsa eppure vicinissima. Muove le labbra e dice con voce forte e tranquilla: "Io sono Alisa"..."

"...Fissa il violoncellista e si sente rilassare mentre la musica penetra lentamente dentro di lui. La gente intorno a lui raddrizza la schiena, i volti tornano floridi e riprendono colore. Kenan osserva la città guarire intorno a lui. Il violoncellista continua a suonare, e Kenan all'improvviso sa cosa fare. Salirà fino a casa sua.
Farà i gradini due alla volta, senza neppure il fiatone, e spalancherà la porta. Amila sarà sorpresa di vederlo, lui l'affererà e la bacerà come faceva quando erano molto più giovani. Le passerà le dita tra i capelli folti del colore del miele. Kenan guarderà sua moglie e i suoi figli e saprà di essere felice, e che nessuno gli toglierà mai tutto questo. E invece gli viene tolto tutto. La musica è finita. E' di nuovo sulla strda dove sono state uccise ventidue persone in fila per il pane. Ci sono morti tra i vivi, e ce ne saranno ancora per molto tempo dopo che questa follia sarà finita, sempre che finisca..."