lunedì 18 maggio 2009

Saree Makdisi: «Un viaggio nel dramma della Palestina impossibile»

http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=58700&sez=HOME_SPETTACOLO

di Gabriele Santoro


ROMA (18 maggio) - Saree Makdisi, scrittore e professore universitario a Ucla nato a Washington e cresciuto a Beirut, in Palestina borderline (Isbn, 282 pag., 29 euro) denuncia, con la passione di chi non tace la propria vicinanza alla causa palestinese e la lucidità di un analista, la Palestina impossibile e le sue «storie di occupazione quotidiana».Makdisi dà voce ad agricoltori, imprenditori e donne coraggiose palestinesi vittime della tragedia di un popolo senza Stato, e senza la realistica speranza di averlo a breve, umiliato dai troppi permessi da ottenere, dalle perquisizioni indiscriminate, dalla tensione psicologica continua dei check-point militari e dei burocrati israeliani. Lo scrittore ricorda le parole dell’attuale ministro degli esteri israeliano Avigdor Lieberman, leader del partito di estrema destra Israel Beitenu, nel 2006 rivolte ai palestinesi cittadini dello Stato di Israele: «Qui non c’è posto per loro, possono fare le valigie e sparire». Sintomo di quanto sia lontana la soluzione due Popoli, due Stati con il governo Netanyahu, preoccupato dalla creazione di “un Hamastan” e convinto di proseguire nella politica dell’allargamento delle colonie, e la leadership palestinese di Al-Fatah ormai invisa ai palestinesi e con Hamas «per la quale non esistono scusanti davanti agli attacchi indiscriminati contro innocenti civili, siano essi attentati kamikaze o lanci di razzi Qassam sulle città israeliane».

Un popolo lacerato. Makdisi snocciola le cifre dell’esistenza sospesa in uno spazio economico e sociale sgretolato, soggetto «a restrizioni arbitrarie» che hanno ridotto «due terzi della popolazione palestinese in assoluta povertà» e «un terzo dei palestinesi dei territori occupati e l’80% di quelli di Gaza sono ormai completamente dipendenti dagli aiuti umanitari internazionali». Le cifre citate da Makdisi sulla segregazione scolastica e lavorativa palestinese in Israele sono allarmanti: «Il numero dei bambini israeliani dai 0 a 3 anni che frequentano asili nidi sovvenzionati dallo Stato è di 80mila, quello palestinese 4200. L’investimento annuale di Israele per ogni scolaro ebreo dai 5 ai 15 anni è di 428 dollari, per i pari età palestinesi 128 dollari. Solo il 16% degli ebrei che fa domanda di accesso all’università viene respinto, mentre il 45% per i palestinesi. C'è un solo docente universitario palestinese in Israele. Il numero dei palestinesi dei Territori occupati che lavorano in Israele o nelle colonie nel 1987 era 180mila, nel 2000 è sceso a 110mila, nel 2007 a 68mila. Il tasso di disoccupazione in Cisgiordania è salito al 18% nel 2006, a Gaza siamo al 34%».

Rifiuto del ricongiungimento familiare. Uno dei nodi chiave della vicenda mediorientale è la questione demografica. L’obiettivo israeliano di mantenere uno Stato ebraico, mentre metà della popolazione sulla quale governa non è ebrea, si scontra con i numeri della popolazione araba. L’autore illustra una precisa strategia israeliana di atomizzazione dei nuclei familiari palestinesi al fine di acquisire nuovi territori ed evitare l’esplosione della bomba demografica. «Secondo l’organizzazione israeliana per la difesa dei diritti umani B’tselem sono 120mila le domande palestinesi di ricongiungimento familiare ancora inevase dal 2000. In Cisgiordania ci sono migliaia di famiglie palestinesi che vivono lo stesso dilemma. Una volta scaduto il visto temporaneo dovranno scegliere se lasciarsi alle spalle vita, casa, lavoro e comunità a cui hanno offerto il loro miglior contributo oppure dividersi. I membri della famiglia nati lì resteranno e gli altri dovranno andarsene». Secondo uno studio della Banca mondiale il 17% delle famiglie cisgiordane è colpito dalle politiche israeliane di ricongiungimento. Una pressione costante che spinge i palestinesi ad abbandonare la “loro” terra: nell’ottobre 2006 nei consolati stranieri giacevano «almeno 50mila domande di palestinesi che cercavano di lasciare la Cisgiordania».

Il muro e i senza terra. La costruzione del muro dal 2003 ha stravolto ulteriormente la vita dei palestinesi. Mohammad Jalud, contadino nel piccolo villaggio di Izbat Jalud, si è ritrovato da un giorno all’altro espropriato dall’accesso ai propri terreni. L’enorme muro ha diviso la cittadina dai suoi terreni agricoli. Jalud è entrato in un vortice di permessi e di percorsi alternativi da compiere tutti i santi giorni per raggiungere la sua terra, fino a quando dall’estate 2004 al settembre 2005 gli sono stati vietati anche quelli e ha perso un anno di raccolto. L’interpretazione israeliana della legge fondiaria ottomana sostiene che la terra incolta per un certo periodo di tempo ritorna a essere proprietà dello Stato. «La storia di Jalud è la regola più che l’eccezione. In Cisgiordania mezzo milione di palestinesi vive a meno di un chilometro e mezzo dal muro. Intere città sono state tagliate fuori da alcune delle loro terre più ricche». «Il muro che Israele sta costruendo, perlopiù in territorio palestinese è chiaramente illegale. L’attuale tracciato ignora quasi completamente i bisogni quotidiani della popolazione, con disagi particolarmente gravi per quanto riguarda l’assistenza medica, minando la vita sociale e familiare”.

Testa bassa al check-point. Le stesse strade della Cisgiordania sono una corsa a ostacoli tra check-point, con la paralizzazione del traffico, cancelli di ferro, blocchi di cemento. «Secondo le Nazioni Unite a ottobre 2007 c’erano 561 ostacoli fissi o permanenti in Cisgiordania». Farid Subuh, trentanovenne padre di due figli, racconta a Makdisi il sopruso quotidiano al check-point di Huwwara: «La mattina sono uscito alle cinque per andare a lavorare a Nablus e accompagnare i miei figli a comprare il corredo per la scuola. All’andata dopo aver fatto controllare i documenti siamo passati normalmente al check-point di Huwwara. La sera al ritorno i soldati erano cambiati. Il comandante mi ha ordinato di aspettare, ci ha fatto scendere tutti dall’auto. “Non discutere, oggi non puoi passare”. Mia moglie ha implorato di poter passare, lui le ha risposto che loro potevano proseguire senza di me. Dopo aver registrato la mia targa, siamo dovuti tornare verso Nablus. Al nuovo check-point di ‘Awarta, circa un km da quello Huwwara, ci hanno detto di andare a Huwwara perché da lì passavano solo i camion. Ora sono a duecento metri dal check-point e non so cosa fare, mentre i bambini hanno fame e vogliono tornare a casa».

martedì 12 maggio 2009

Eraldo Affinati e la città dei ragazzi

http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=57910&sez=HOME_SPETTACOLO&ssez=LIBRI

di Gabriele Santoro


ROMA (12 maggio) - Il libro di Eraldo Affinati, La città dei ragazzi (Mondadori, pag. 209, euro 17) ti conquista nelle pieghe del dolore e nella ricchezza interiore di giovani ragazzi offesi dalla vita. Racconta il miracolo, vissuto dallo scrittore come protagonista, di una moderna scuola di Barbiana nel cuore di Roma. La città dei ragazzi, in via della Pisana, fondata dal prete irlandese Carroll Abbing accoglie orfani italiani, stranieri e li rende protagonisti di un percorso di inserimento democratico nella «società dei lupi».

Affinati ha scommesso tutto sulla potenza dell'insegnamento e la forza della scrittura per sanare le ferite di storie terribili. Il rapporto umano, sincero con i ragazzi come antidoto alla violenza sociale di chi si sente escluso, vittima di una società ostile.

"Ho sognato un futuro con una città a misura di ragazzi", scrive. Chi era padre John Patrick Carroll Abbing e qual è il modello educativo della "Città dei ragazzi"?
«John Pat Carroll Abbing è stato un personaggio straordinario. Era un prete irlandese che ha vissuto a Roma durante la II guerra mondiale. Subito dopo la guerra incominciò a raccogliere per la strada gli orfani italiani. All’inizio organizzò a Roma uno scantinato in via Varese, dietro la stazione Termini, dove accoglieva questi sciuscià. Con gli anni comprese che bisognava dare qualcosa di più, un progetto di vita e allora inventò la comunità città dei ragazzi. Una città governata dai ragazzi, in un fascia di età tra i 14-18 anni: eleggono un sindaco, c’è una moneta locale (lo scudo usato solo all’interno della struttura), un bazar, una banca. Nella città c’è anche una scuola, dove insegno, la succursale dell’istituto professionale Cattaneo per l’industria e l’artigianato. Nel tempo la città si è ingrandita accogliendo ragazzi che provengono da tutto il mondo: Afghanistan, Marocco, paesi dell'est europeo. La missione della città dei ragazzi è di renderli responsabili, di tirare fuori il dolore dai loro sguardi e integrarli nella società dove dovranno vivere».

"Peppino non fa che bestemmiare. Comincia subito, appena entra in classe. I ragazzi mi chiesero: Non ti offendi? Perché dovrei, conosco la ragione per cui bestemmia". Che cos’è la rabbia e come si può dominarla?
«La rabbia è un sentimento dominante in loro. All’inizio del libro racconto la lotta tra un afgano e un marocchino, che si picchiarono all’improvviso senza un motivo apparente. Era uno scontro duro, all’ultimo sangue se non li avessimo separati. In quei ragazzi c’era un qualcosa di irrisolto. La rabbia è un modo di reagire. Tu educatore devi decifrarla, capirla e interagire in questo senso. La mia adolescenza solitaria, triste, mi permette di capire meglio le loro sensazioni, la loro rabbia che poi riesce a sanarsi. Il protagonista afgano di quello scontro incredibilmente è diventato un ragazzo sereno ed equilibrato. Fa il parrucchiere, si è sposato con una ragazza italiana e ha un figlio, Francesco. In classe era sempre rabbioso, mai avrei pensato che avrebbe avuto una soluzione così positiva della rabbia».

"Bisogna saper leggere le loro maniche sporche". Quali macchie e ferite nascondono i suoi ragazzi?
«Sono i traumi che la vita gli ha riservato da subito. Vedere morire in guerra i propri genitori. Un viaggio clandestino da bambino dall’Afghanistan a Roma. L’essere stato rinchiuso in un carcere turco con altri 80 detenuti in un solo stanzone o aver viaggiato nascosti dentro una betoniera con altre 40 persone. Arrivare da Lagos nascosti nella stiva di un aereo. Cercano di mascherare le loro ferite, ma ogni tanto affiorano con scatti di rabbia e violenza oppure li puoi leggere nella malinconia degli occhi e dei silenzi. Devi essere un amico e un maestro. Un amico nel cercare di stargli vicino e nel condividere gli entusiasmi e i momenti di sconforto, però anche un maestro nell’imporre dei limiti. Far capire che devono incanalare l'energia, trovare uno sbocco vitale. Solo se riesci a guadagnare la loro fiducia ed essere un adulto credibile ti raccontano quelle cose che in molti casi non hanno sottaciuto a loro stessi. In questo la scrittura è fondamentale. Possono trovare nella nostra lingua una chiave di comprensione ed espressione nuova di aspetti della loro esistenza prima nascosti».

Nel libro racconta il viaggio in Marocco con due ragazzi della Città. Riprende le suggestioni del libro A occhi bassi di Tahar Ben Jelloun?
«Tornare a casa per loro è stato lacerante. Constatare come quel paese da cui erano scappati fosse rimasto uguale, povero e corrotto. Si sentivano stranieri nel loro paese tanto quanto me. A Marrakesch sono voluti andare in una pizzeria invece che a mangiare il cous-cous. “No professò andiamo a mangiare una pizza”, sentivano già la nostalgia dell’Italia. Fariz nella casa nel deserto marocchino conservava la valigia ancora chiusa, non tirava fuori i vestiti. Vivono una doppia difficoltà, sentirsi arabo dentro e italiano fuori. Una scissione affascinante, preziosa che ti dà una carta in più nell’interpretazione della realtà, ma provoca sensazioni di profondo smarrimento».

La Città dei ragazzi è un laboratorio della nostra società multietnica. Quanto conta la potenza dell’insegnamento?
«Quello che accade in aula tra insegnante e allievo può avere effetti indelebili per entrambi. Le ore trascorse tra i banchi forgiano la psicologia, il carattere e lo spirito di una persona. Succedono cose straordinarie perché c’è una disponibilità all’ascolto anche nel momento dell’indisciplina, del caos, momenti di incontro umano molto forte garantiti dalla potenza dell’insegnamento. Viviamo in una società inevitabilmente multietnica anche se non la vogliamo. La scuola è il momento in cui impari a parlare con uno diverso da te, il luogo dove ci sono i primi scontri è l'aula scolastica che mette insieme un italiano, un moldavo, un rumeno o un arabo. La potenza dell’insegnamento è un fatto di civiltà nella trincea. Se si perde la scommessa dell’integrazione nella scuola, la società del futuro rischia di sfaldarsi dalle fondamenta. Creare classi separate è assurdo, piuttosto bisognerebbe fornire un supporto linguistico aggiuntivo per i ragazzi stranieri».