sabato 26 novembre 2011

Nba, c'è l'accordo: si gioca a Natale

http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=171171&sez=HOME_SPORT

di Gabriele Santoro

ROMA - L'Nba ha annunciato l'accordo tra giocatori e proprietari per la fine della serrata che durava da 150 giorni e a Natale partirà il campionato. E c'è una conseguenza diretta per Roma, che vede sfumare l'operazione Tyreke Evans, e Milano che saluta Gallinari.

Manca solo l’ufficialità, ma l’Nba è pronta a ripartire. «Abbiamo trovato un accordo di massima, che è soggetto a diversi passaggi burocratici prima della sua approvazione definitiva, ma siamo molti ottimisti che sarà ratificato a breve e la stagione partirà il 25 Dicembre». David Stern, il gran capo della Lega statunitense, ha rimesso in moto con queste parole la macchina organizzativa dell’Nba.

Ora si voterà a maggioranza assoluta, ovvero almeno la metà più uno dei trenta proprietari e dei giocatori dovrà dire sì. L’ultima riunione fiume, quindici ore di trattative che si sono concluse nella tarda notte a New York, tra le due parti ha messo un punto alla serrata scattata il 30 giugno scorso alla scadenza del precedente contratto collettivo degli atleti.

È la fine di un incubo per le migliaia di lavoratori dell’indotto, dagli addetti alle arene ai servizi di sicurezza, che non hanno ingaggi milionari e sono a spasso da diversi mesi. Una gioia per la platea planetaria che si appassiona e diverte con le giocate spettacolari delle stelle a canestro.

Un sollievo per i conti in banca a nove zero di Bryant&soci e delle franchigie che in due mesi senza basket hanno registrato un buco da record quantificabile in trecento milioni di dollari. I dettagli precisi dell’accordo non sono ancora stati resi noti, ma lo scoglio chiave della spartizione degli introiti fatturati dall’Nba dovrebbe essere stato superato con un salomonico 50%-50% tra le proprietà e i giocatori e qualche benefit inserito in favore di questi ultimi.

La partita nel giorno di Natale è un classico Nba: in assenza di altri eventi sportivi catalizza l’attenzione e c’è da scommettere che sarà messo in calendario un esordio scoppiettante. Infatti per lanciare in grande stile la nuova annata con tutta probabilità saranno almeno due le sfide di cartello: il remake dell’ultima finale Dallas-Miami e Chicago-Lakers a Los Angeles.

La stagione sarà ridotta dalle canoniche 82 partite a 66. Ora sarà una corsa contro il tempo con il mercato che si intreccerà con il mese di preparazione atletica e tecnica delle squadre. Le ultime giornate di trattative non infondevano buoni presagi, ma il termine ultimo di Natale era ormai prossimo. Nessuno si sarebbe assunto la responsabilità di far saltare l’intero campionato, che tradotto significa non spartirsi una torta da 4 miliardi di dollari.

Una notizia che invece impoverisce il campionato italiano e l’Eurolega. Fino a ieri pomeriggio a Roma si respirava un’aria frizzante per l’ingaggio, non formalizzato, della stella dei Sacramento Kings Tyreke Evans e la società contava di averlo nella Capitale, una volta espletate le pratiche per il visto di lavoro, tra mercoledì e giovedì prossimo. A meno di un difficile nuovo passo falso dell’Nba Evans, offerto all’Acea più che cercato, non indosserà la canotta della Virtus. Ma la disponibilità economica dimostrata da un’operazione di questa portata fa traspirare ottimismo per un nuovo e tempestivo intervento sul mercato per ovviare alle lacune del roster capitolino.

Anche l’Emporio Armani Milano deve rinunciare con dispiacere a Danilo Gallinari.
Il “Gallo” farà le valigie per tornare a Denver.

L’Eurolega perderà una stella di prima luce come il russo Andrei Kirilenko, che in queste settimane ha incantato tutti con il suo Cska Mosca. Tony Parker saluterà l’Asvel Villeurbanne e Deron Williams i turchi del Besiktas.

«Egoisticamente è un peccato che l’Nba riparta proprio nel momento in cui c’era l’opportunità di portare nel campionato italiano un talento del calibro di Evans - commenta Lino Lardo, coach dell'Acea Roma - sarebbe stato il più forte straniero di sempre. Avrebbe acceso l’entusiasmo intorno alla squadra. Ma ora torniamo sulla terra: domenica affrontiamo un’avversaria fortissima come Cantù e sono contento di avere a disposizione una pedina in più come Mordente che nella mia carriera ho rincorso a lungo».

Ieri la guardia abruzzese ha svolto la prima seduta di allenamento con i compagni e ha dimostrato di essersi subito calato nella nuova realtà. Domenica pomeriggio esordirà al Palazzetto davanti ai tifosi romani con la canotta numero dodici. «La Virtus oggi è la soluzione migliore per me e la mia famiglia - spiega Mordente - e il coronamento di tanti contatti mai concretizzatesi nel passato. Anche durante l'estate avevamo parlato senza trovare la quadra. In classifica ci manca una vittoria e saremmo a ridosso della vetta. Il primo contatto con la squadra è stato positivo e già da domani proverò a dare il mio contributo anche se il debutto con Cantù non è dei più semplici».

venerdì 25 novembre 2011

Shirin Ebadi: "La primavera araba arriverà solo con la parità uomo-donna"

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di Gabriele Santoro
ROMA - «Nel giugno del 2009 ho lasciato l’Iran per un viaggio che doveva essere di soli tre giorni. Da allora non sono più potuta rientrare. Mio marito e mia sorella sono stati arrestati, perché non potevano farlo con me, e i loro passaporti sono stati sequestrati. Hanno messo i sigilli al mio studio legale e alla mia Ong. I beni personali sono stati espropriati e messi in vendita all’asta».

L’elegante, risoluta e coraggiosa avvocatessa, premio Nobel per la pace, Shirin Ebadi è da due giorni a Roma per partecipare ad alcuni eventi organizzati dal Telefono Rosa in occasione dell'odierna Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. «Negli ultimi anni ho seguito il lavoro di questa associazione, che è cresciuto ed è un supporto importante per le donne che subiscono soprusi e maltrattamenti».

L’impegno instancabile, le denunce e la lotta per il rispetto dei diritti umani l’hanno resa una persona sgradita e sovversiva agli occhi del governo di Teheran, che l’obbliga dal 2009 all’esilio a Londra. Shirin Ebadi è la donna delle prime volte. La prima giudice nel proprio paese, la prima persona iraniana e musulmana a ricevere il Nobel nel dicembre del 2003. L’avvocatessa si spende per dare voce nel mondo all’opposizione interna affievolita dalla repressione ed è un simbolo rivoluzionario per le donne che cercano un ruolo nuovo nelle società islamiche.

Ha vissuto l’euforia e la rapida disillusione seguita alla Rivoluzione islamica del ’79: «Alla fine del ’79 il Comitato rivoluzionario mi comunicò che ero destituita dalla mia carica di giudice ed ero retrocessa a segretaria del tribunale del quale ero presidente per il solo fatto di essere donna». Nel 2000 la sessantaquattrenne originaria di Hamadan ha affrontato il «silenzio devastante» dell’isolamento nel carcere di Evin e l’interdizione di cinque anni a svolgere il proprio lavoro «per aver difeso la famiglia di uno studente ucciso dai paramilitari autorizzati dallo Stato», come spiega nel libro Tre donne, una sfida di Marisa Paolucci.

Mentre racconta la propria vita da esule stringe tra le mani un foglio di carta spiegazzato, si commuove e il volto si riga di lacrime di rabbia. «Il regime iraniano mi ha costretta a scegliere tra l’amore per la mia famiglia e quello per la giustizia. Nei tanti incontri con gli studenti in giro per il mondo spesso mi viene chiesto se ne valga la pena e se non senta la mancanza dei miei affetti più cari. Un ragazzino mi ha suggerito un rimedio: fai un origami, scrivici i nomi delle persone a cui tieni e depositalo in mare. Ti sentirai meno sola e il tuo pensiero li raggiungerà».

Che cosa ne pensa della cosiddetta “primavera” araba? Avrà delle ripercussioni positive per la condizione delle donne nei paesi coinvolti dalle rivolte?«È una definizione che non mi convince, non basta destituire un dittatore per fare la rivoluzione. La primavera arriverà solo il giorno in cui avremo sistemi democratici, che assicurino anche pari diritti a uomini e donne. La visione predominante dell’universo femminile nei paesi di religione musulmana è miope. Si pensa che siano tutte chiuse in casa e accettino incondizionatamente questa situazione. In Iran, dopo le presidenziali del 2009, c’erano moltissime donne in prima fila per strada a protestare. Oggi in Egitto a piazza Tahrir è lo stesso e i militari hanno arrestato molte di loro sottoponendole a vessazioni. In Yemen una delle persone che ha combattuto con più energia il regime ha vinto l’ultimo premio Nobel per la pace (la giovane giornalista e attivista yemenita Tawakkul Karman, ndr)».

Sull’Iran tirano venti di guerra. Qual è la situazione all’interno del paese? «Il regime non ha la minima di intenzione di ascoltare la voce del popolo che chiede il cambiamento. Ma credo che un intervento di forze militari straniere sia controproducente e non compreso dagli iraniani. Alimenterebbe il sentimento nazionalistico, facendo passare in secondo piano le ragioni della protesta interna e aumenterebbe la repressione sul dissenso. Come è accaduto negli otto anni della guerra con l’Iraq, quando il regime ha giustiziato 14mila dissidenti politici. Prospettive? Nell’attuale sistema governativo e legislativo anche se alle elezioni dovesse vincere un riformista, come è avvenuto in passato con Khatami, avrebbe le mani legate. Le manifestazioni pubbliche sono state arginate con la violenza, ma la lotta non si è spenta. L’Iran è come un vulcano silente che potrebbe eruttare».

Il premio Nobel le ha creato più problemi o vantaggi? «Mi ha dato la possibilità di far circolare la mia voce a livello internazionale e raccontare ciò che accade nel mio paese. In Iran non mi ha aiutato, perché il regime crede che sia stata insignita di questo premio per rovesciarlo. Ma io non sono un leader politico, non coltivo tali ambizioni: sono solo un difensore dei diritti umani».

Come convive con la paura? «L’importante è credere sempre nella strada intrapresa e la fede religiosa mi sostiene. L’esperienza mi ha insegnato a governare la paura. Dopo l’estate del 2009 il regime ha reso la mia vita sempre più difficile, ma nulla ha scalfito le mie convinzioni. Ai miei familiari hanno ripetuto più volte che mi avrebbero trovata anche all’estero e ammazzata. Ho risposto che a tutti noi un giorno aspetta la morte, quindi è inutile aver paura di qualcosa che non possiamo controllare».

La giornalista e volontaria del Telefono Rosa Marisa Paolucci nel prezioso libro-intervista Tre donne una sfida (Emisferi, pp 137, euro 11) attraverso le storie di Shirin Ebadi, della giovane Malalai Joya, che ha affrontato senza paura i Signori della guerra afgani, e della sudanese Fatima Ahmed Ibrahim ha dato voce al cambiamento in movimento.

«Il libro è stato un’avventura condivisa con il Telefono Rosa - dice Marisa Paolucci - e un’esperienza entusiasmante che mi ha permesso di catturare uno sguardo soggettivo e diretto di persone che vivono sulla propria pelle le conseguenze di una scelta di coraggio. È un tentativo di uscire dagli stereotipi negativi con cui viene rappresentata la donna nel mondo islamico: sono tre donne che vanno controcorrente e il loro esempio ha una forza dirompente».

Che cosa le accomuna? «Mi ha colpito il fatto che il denominatore comune delle loro esistenze sia la figura paterna. Il padre le ha sempre trattate allo stesso modo dei fratelli maschi e garantito loro un’istruzione. Inoltre non si sentono vittime della religione, ma di un’interpretazione prettamente maschilista, e credono che l'Islam sia compatibile con i sistemi democratici. Un modo per testimoniare che essere donne libere anche in Iran, Sudan e Afghanistan è difficile, ma non impossibile».

giovedì 24 novembre 2011

Basket, Roma mette a segno due colpi: arrivano Evans e Mordente

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di Gabriele Santoro

ROMA – L’Acea Roma, reduce dal brutto ko di sabato a Sassari e alle prese con diversi infortuni, si scuote con due veri botti di mercato: Tyreke Jamir Evans, asso classe ’89 dei Sacramento Kings, e il capitano della nazionale italiana Marco Mordente. Per entrambi l’accordo è fino al termine della stagione in corso, ma la posizione dello statunitense è collegata all’evolversi della serrata Nba: nel caso si sblocchi la situazione Evans, come Gallinari a Milano, s’imbarcherà sul primo volo per gli Stati Uniti. L’arrivo di Mordente nella Capitale è previsto per venerdì e potrebbe essere impiegato già domenica nella difficile sfida contro la Bennet Cantù. Per Evans si attende il fax con la firma del giocatore, ma la società romana lo ha già ufficializzato: «La Virtus Roma comunica di aver raggiunto un accordo con l'atleta Tyreke Evans fino al termine della stagione sportiva 2011/2012 con un’uscita nel caso in cui riparta il campionato NBA, si aspetta la formalizzazione del contratto che avverrà nella notte». Una mossa che riaccende un po' di entusiasmo all'ambiente virtussino, ma il concreto impatto tecnico è ancora imponderabile.

L’infortunio del playmaker Anthony Maestranzi e un roster con diverse lacune ha spinto Roma a cercare un rimedio sul mercato, ma i primi nomi circolati da Hubalek a Giovacchini non convincevano nessuno. Naturalmente se il “crack” Evans indosserà la canotta della Virtus per tutto l’anno si ridisegnano gli equilibri e le ambizioni di una squadra “operaia” costruita con l’unico obiettivo di “lottare e conquistare un posto nei playoff”. Marco Mordente, che era a spasso dopo l’addio estivo a Milano, garantisce un salto di qualità in difesa e a differenza dei compagni ha un bagaglio enciclopedico di esperienza cestistica .

La stella ventiduenne dei Kings, prodotto del college Memphis e votato miglior esordiente nella stagione Nba 2009/10 (20.1 punti, 5.3 rimbalzi e 5.8 assist di media in 72 partite, come lui solo Michael Jordan, Robertson e Lebron James), ricopre il ruolo di guardia. Evans è un realizzatore dalla potenza fisica esplosiva, assolutamente straripante per il livello del campionato italiano. Sfiora i due metri di altezza e i cento chilogrammi di peso. Ha chiuso l’ultima stagione Nba a 18 punti, 5 rimbalzi e 6 assist di media in 37’ di utilizzo a partita. Il nativo di Chester (Pennsylvania), scelto al primo giro del Draft Nba 2009 alla quarta chiamata, è soprannominato il re del lay-up, dotato di una straordinaria abilità nell’attaccare il ferro. L’unica incognita, oltre alla durata della permanenza, è l’attitudine con cui verrà a Roma: la Virtus non ha bisogno di un fenomeno in ferie retribuite.

L’altro rinforzo è l’azzurro Mordente
(190 cm, 85 kg), che è una guardia ma può essere impiegato anche da playmaker. Il trentaduenne capitano della nazionale costituisce un capitale di mentalità, intensità e dalla panchina della Virtus può rivelarsi un innesto prezioso grazie alla pericolosità del tiro dalla lunga distanza. Nel 2006 ha vinto da protagonista lo scudetto con la Benetton Treviso, poi dal 2008 al 2011 ha vestito la canotta dell’Olimpia Milano (5.6 punti in 18’ d’utilizzo, 44% da3) con la quale esordì nella massima serie nell’annata ‘96/’97.

venerdì 18 novembre 2011

Ficarra&Picone: ridere senza volgarità in "Anche se è amore non si vede"

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di Gabriele Santoro

ROMA – È ancora possibile far ridere di gusto il pubblico al cinema con una commedia italiana senza inondarlo di parolacce, banalità o volgarità? È la scommessa del nuovo film Anche se è amore non si vede della collaudata coppia di attori comici e registi palermitani Ficarra&Picone. Il lavoro, prodotto da Attilio De Razza con Medusa e distribuito in 550 copie, uscirà il 23 novembre e punta a ripetere gli incassi a nove zeri dei successi precedenti La Matassa e Il 7 e l’8. Novantaquattro minuti di pellicola che scorrono leggeri, inseguendo la geometria variabile dell’amore con i suoi equivoci e domande quotidiane. Da un’amicizia può nascere una storia d'amore? Perché ci manca spesso il coraggio di dire al partner che è finita? Quanto è vero il vecchio adagio del “chiodo scaccia chiodo”? Perché rincorriamo chi ci rifiuta e non ci accorgiamo di chi ci ama?

In Anche se è amore non si vede Salvatore Ficarra e Valentino Picone sono due amici alle prese con situazioni sentimentali agli antipodi e condividono l'attività di operatori turistici con un pullman vintage, di colore giallo, che porta i turisti in giro per Torino. Sono diversi, ma inseparabili: «Sei il peggior miglior amico che mi potesse capitare. Ti ho scelto a scuola quando gli altri erano stati tutti presi», dice Salvatore. Quest’ultimo intraprendente e disincantato è alla caccia continua di avventure amorose. Il dolce e imbranato Valentino invece tra anniversari e scontatissime feste a sorpresa opprime la fidanzata Gisella, interpretata dalla divertente Ambra Angiolini, che non sa come uscire dal rapporto e chiede aiuto al miglior amico del proprio uomo. Poi c’è la frizzante e improbabile guida turistica Natascha (Sascha Zacharias) corteggiata dal principale Salvo, che non si accorge delle attenzioni dell’insicura amica di vecchia data Sonia (Diane Fleri).

L’intreccio narrativo, in un ritmo incessante di battute riuscite, scioglie i nodi di affetti rincorsi alla ricerca dell’happy end. Anche se è amore non si vede è un invito a prendersi meno sul serio e a mantenere la giusta distanza da sentimenti che possono cambiare in una frazione di secondo. «Le relazioni non cambiano mai: ci si rincorre sempre, ma come diceva Troisi un uomo e una donna sono le persone meno adatte per sposarsi. Non tutto quello che vedrete è autobiografico, piuttosto frutto dell'osservazione della società», spiega Ficarra. I due protagonisti non monopolizzano la scena. «Siamo stati scemi - ironizza Picone - perché avendo scelto tre donne ci siamo automaticamente messi in minoranza». «Una volta entrata in sintonia con le dinamiche, la fragilità e l’unicità di Salvo e Valentino - sottolinea Ambra Angiolini - più che aver lavorato mi sono appassionata alla lavorazione del film. Abbiamo raccontato quello che non si vede dell’amore, pieno di equivoci e parole non dette. Sono entrata nel mio personaggio, una donna nevrotica e speciale, tirando fuori la sua carica di umanità. Nella vita reale credo più a una storia d'amore finita che si trasforma in amicizia, che la dinamica inversa». «Durante le riprese c'è stato spazio anche per le improvvisazioni e il confronto. Ormai non posso fare a meno delle loro prese in giro e caricature divertenti. Al contrario di Ambra penso che da un'amicizia possa sbocciare l'amore, perché conosci già diversi aspetti della persona che ti è vicina», dice Diane Fleri.

Nel film risalta il tributo alla coppia Bud Spencer-Terence Hill con tanto di scazzottata al matrimonio sui generis dell’indeciso e furbo Orazio (Giovanni Esposito): «Da piccoli sono stati nostri idoli - svela Ficarra - ed è un chiaro riferimento cinematografico. Gli effetti sonori degli schiaffi e dei pugni sono stati curati dallo stesso rumorista dei loro film. Sul set ci siamo fatti una foto con il mitico Sal Borgese, presente in molti lavori di Carlo Pedersoli (Bud Spencer) e Mario Girotti (Terence Hill)». «Ci ispiriamo anche al cinema di Sergio Leone e al genere spaghetti western - prosegue Valentino - perché era pieno di ironia». Dopo tre film girati in Sicilia la coppia di attori-registi ha deciso di trasferirsi a Torino: «Sarebbe troppo facile dire che dalla nostra regione emigrano pure i film. Cercavamo una città d’arte, meno inflazionata di altre, necessaria per ambientare l'occupazione dei protagonisti». La sceneggiatura è firmata anche da Fabrizio Testini e Francesco Bruni, sceneggiatore e regista della commedia Scialla da oggi al cinema.

Ficarra e Picone posano anche il proprio sguardo critico sull’Italia e sull'immagine del nostro paese all'estero. Frecciate che non stonano nel contesto di una narrazione spensierata: «Qua vedo solo macerie, ma che è l’Italia in miniatura?» o dalla voce di Peter (David Furr), l'antipatico fidanzato americano di Sonia: «Ogni volta che torno in Italia la trovo un po’ peggio».

E il mirino dei due comici è puntato sulla politica: «Importiamo molte commedie dall’estero - dice Ficarra - mentre noi esportiamo con fatica il nostro cinema. I politici ci fanno una concorrenza sleale: sono presenti in tutti gli show satirici del pianeta. Da bambino mi annoiavo guardando le tribune politiche per il linguaggio politichese, ma ora siamo scesi troppo in basso con il dito medio facile, le pernacchie e gli insulti dei nostri parlamentari». «Stiamo vivendo un lento declino culturale - rincara Picone - e ora si respira un’aria da festa finita. Dobbiamo raccogliere i cocci. Il governo Monti? Se questo è tecnico, il precedente era di fantasia. Non auguro a nessun paese di passare alla normalità da un giorno all’altro, dovrebbero metabolizzare il nostro stesso shock».

I due nella vita appassionati di calcio, sul set si sono cimentati con la disciplina nordica del curling e hanno fatto una caricatura goliardica dei riti stanchi, come le esultanze verso le fidanzate e le ripetitive dichiarazioni post partita, dei professionisti dello sport. «Durante le Olimpiadi invernali di Torino eravamo davanti al televisore - racconta Salvo - e ci siamo appassionati a questo sport. A Palermo è un po’ difficile trovare le piste…e non potevamo perdere l’occasione di provare questa ebbrezza»!

mercoledì 9 novembre 2011

La crisi del basket azzurro: mancanza di regole certe e poco spazio ai giovani

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di Gabriele Santoro

ROMA – Il risultato deludente della nazionale italiana all’ultimo campionato europeo in Lituania ha riacceso il dibattito sul cortocircuito tecnico e strutturale alla base del mancato ricambio generazionale che affligge da quasi un decennio il basket azzurro. E all'orizzonte non ci sono novità sostanziali. Tra i primi trenta marcatori della massima serie ci sono solo Hackett e Datome. Amoroso, Soragna e Hackett sono gli unici a stare in campo con una media superiore ai 30 minuti. Il fanalino di coda Casale Monferrato è la squadra più italiana con sei cestisti e una media di utilizzo di 19 minuti. Il quintetto base dell’Under 20 vicecampione d’Europa passa dall’eccezione Gentile al promettente Cervi (centro di 215 cm, classe ’91, 1.5 punti, 7.3 minuti) che a Reggio Emilia fa panchina dietro al trentasettenne Chiacig (6.6 punti, 25.4 minuti). Melli (4.7 punti, 11.3 minuti), Polonara (4.4 punti, 8.6 minuti) e De Nicolao (1 punto, 3.5 minuti) cercano spazio a Milano, Teramo e Treviso, mentre Moraschini ha trovato collocazione a Sant'Antimo, in fondo alla Legadue.

Non ci sono nuovi talenti o le scelte dei club non gli consentono di emergere? Quante squadre di serie A investono veramente nello sviluppo del proprio settore giovanile? Le regole che impongono il numero minimo di italiani in campo sono la soluzione? In Italia due società come la Benetton Treviso e la Stella Azzurra, con l’evidente differenza di dimensioni, hanno creato una cultura aziendale e sportiva che scommette sui giovani.

La Benetton Treviso con la cittadella dello sport “Ghirada”, dotata di una foresteria stile college americano e impianti di ottima qualità con accesso gratuito per tutti, è da vent’anni un punto di riferimento nella formazione di talenti. «Dai primi Anni Novanta a oggi sono oltre cento gli atleti usciti dal nostro vivaio che hanno militato nei vari campionati nazionali. Attualmente in prima squadra abbiamo cinque ragazzi, classe ’90-’93, cresciuti con noi che lottano per il posto. Alessandro Gentile è senz’altro la punta del diamante», spiega Paolo Pressacco, responsabile del settore giovanile della squadra trevigiana.

Dal minibasket agli juniores quanti prospetti gravitano nell’orbita Benetton? «Con il progetto “Pool crescere insieme” abbiamo coinvolto trenta società del territorio - prosegue Pressacco - e sono circa 1500 i bambini del minibasket che successivamente costituiscono il bacino per il nostro reclutamento. Una volta raggiunti i 13-14 anni di età gli allenatori e osservatori ci indicano i ragazzi con le migliori attitudini e potenzialità». A fine stagione la famiglia Benetton lascerà il timone del club, ma continuerà a investire nella Ghirada. Quanto costa mantenere la vostra attività? «Le spese si aggirano intorno ai 350mila euro annui».

Le strategie dei club dipendono esclusivamente dagli effetti prodotti della sentenza Bosman? «La competizione e la concorrenza si sono sicuramente alzate - sostiene il dirigente Benetton - quando avevamo due soli americani in squadra era tutto più semplice. Ma c’è un problema di cultura sportiva: in passato i giovani erano il capitale sociale, oggi sono considerati come un costo che a breve termine sicuramente non fattura introiti e non può essere ammortizzato». Quindi c’è spazio solo per i talenti assoluti? «Purtroppo abbiamo una grave carenza anche alla voce allenatori. Dove non straborda il talento fisico o tecnico serve un lavoro ancora più mirato, continuo e duro. Ci mancano i mediani, “quelli che a volte vinci casomai i mondiali”, che sono altrettanto preziosi».

Lei è stato un playmaker e la scuola italiana ne ha sempre sfornati tanti e di grandissimo spessore; Brunamonti, Gentile, Pozzecco solo per citarne qualcuno. Sulla carenza di pivot si dà la responsabilità alle mamme e ai papà che non fanno più figli oltre i due metri, ma sui play ci sono poche scuse. «È vero - conclude Pressacco - ma il ruolo e anche la lingua sono cambiate: si deve parlare l’inglese. Si cerca una maggiore propensione al tiro e alla fisicità. La figura del play ragionatore, prodotto della nostra scuola, è in via d’estinzione. Un nome: Andrea De Nicolao (regista dell’Under 20 vicecampione d’Europa, ndr), classe ’91, 185 centimetri, buone qualità, tanta grinta e voglia di lavorare».

A Roma una delle società che vive di e per i giovani è la Stella Azzurra. Nel mondo frastagliato delle leghe minori il factotum Germano D’Arcangeli getta nella mischia ragazzini dalla faccia tosta e con la fame di arrivare. «Da noi non c’è spazio per i fannulloni. Abbiamo il coraggio di credere nelle qualità di chi ha talento e si impegna quotidianamente».

Nell’attuale sistema di regole le nuove leve possono ritagliarsi uno spazio? «No, sono necessarie riforme vere - afferma D’Arcangeli - a partire da quella dei campionati: bastano una serie A, una B e una terza Lega di sviluppo in cui si formino e giochino, abolendo la mole di leghe improduttive e disorganizzate (trasferte lunghissime, arbitraggi non all’altezza, costi insostenibili)».

Lei è un allenatore. Non ha responsabilità anche la vostra categoria. «Il diktat “vinci o sei fuori” porta a trascurare il lavoro in profondità. Qualsiasi discorso sulla programmazione è superfluo. Anche nelle minors si preferisce il vecchio “marpione” che garantisce esperienza rispetto al ragazzo. Se l’ultima generazione dei Melli e Cervi ha possibilità di affermarsi, sono preoccupato per i ’93-’94, promettenti, che semplicemente fanno numero sulle panchine di A e non trovano minuti neanche nelle altre categorie». Esiste un problema nella fase del reclutamento? «Credo sia una favola - dice il coach romano - è solo una questione di volontà e organizzazione. Oltre a noi in Italia le società che lo fanno veramente sono la Virtus Bologna, Biella, Treviso, Casalpusterlengo e Virtus Siena. Poi certo non basta prendere un ragazzo a 15 e aspettare che a 20 diventi un giocatore».

Una risorsa per il futuro sono gli italiani di seconda generazione o per formazione. «È inspiegabile ostinarsi a non esplorare questo mondo - conclude D’Arcangeli - come invece hanno fatto molte altre nazionali. Si tratta di un bacino fondamentale a cui attingere per colmare anche il gap fisico che ci penalizza. Quale strumento migliore dello sport può rispondere alle istanze d'integrazione che vengono dalla società?»

Basile vs Gentile: il vecchio e il bambino del basket italiano

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di Gabriele Santoro

ROMA – Quanti cestisti italiani sono determinanti nelle vittorie dei propri club? Pochi, se non pochissimi. Nell’ultima giornata del campionato di basket si sono affrontate due splendide eccezioni: il “vecchio” Gianluca Basile, classe ’75, e il “bambino” Alessandro Gentile, classe ’92. Il primo è tornato in Italia, a Cantù, dopo l’esperienza dorata al Barcellona; il secondo sta sbocciando nella culla della Benetton Treviso. Rappresentano il passato, il presente e il futuro della pallacanestro azzurra alla ricerca affannosa di talenti e forze fresche. In comune hanno il temperamento e la faccia tosta.

Gentile (24.3 minuti e 10.3 punti di media a partita), figlio del play Nando che rese grande Caserta e oggi è l’allenatore di Veroli, è il prospetto più interessante della sua generazione e da due anni ha conquistato il posto nel quintetto di partenza della formazione trevigiana. È una guardia pura che può fare canestro in tutti i modi e ha il fisico per imporsi anche in difesa. Durante l’estate con i coetanei dell’Under 20 ha riportato l’Italia sul podio europeo. Nel pantheon cestistico di "Gentilino", il suo soprannome, ci sono Kobe Bryant e i Lakers, ma anche Bodiroga ammirato ad Atene quando dominava con papà Nando al Panathinaikos.

Il "Baso" invece tra Michael Jordan e Drazen Petrovic sceglie MJ, «ma che talento il Mozart dei canestri». Basile (18.5 minuti e 11 punti di media per gara) ha scritto alcune delle pagine più intense e vincenti dell’Italbasket (209 presenze, 1602 punti) come la semifinale olimpica del 2004 contro la Lituania. A Bologna ha vissuto da capitano la stagione migliore della Fortitudo con due scudetti e derby memorabili contro la Virtus. Un antidivo dallo sguardo profondo sempre misurato nelle parole, umile e generoso fuori dall'ordinario. Il leader a cui affidare la palla arancione quando scotta per i tiri “ignoranti” da infilare nel nylon e un difensore eccellente. Di mestiere playmaker e guardia con la stimmate del tiratore: perfetto nell’uscita dai blocchi, dotato di una straordinaria pulizia stilistica nella meccanica di tiro e di un tempo di esecuzione inafferrabile per l'avversario di turno.

Il basket è…
G. «Un gioco che emoziona e se ti conquista subito non c’è modo di tradirlo. Non è per solisti: ti diverti se entri nello spirito di squadra. E fin da piccolo mi ha permesso di costruire rapporti di amicizia bellissimi».
B. «È rapido, coinvolgente e adrenalinico. Uno sport su misura e accogliente per le famiglie molto più del calcio. Da spettatore tra lo spettacolo di una partita di alto livello sul rettangolo verde e una sul parquet scelgo sempre la seconda».

Diciotto anni di differenza, due storie diverse e un destino comune a canestro assecondato lontano da casa.
G. «Dopo aver mosso i primi passi con la squadra di Maddaloni (Caserta) ho fatto le valigie e sono andato da solo a Bologna nel settore giovanile della Virtus. Ma non ha funzionato e l’anno successivo, 2007, sono approdato a Treviso. Qui ci sono l’ambiente e l’organizzazione ideale per crescere come giocatore e persona. I primi tempi senza la famiglia sono stati duri. Ora ci siamo riuniti e sono migliorate molte cose dentro e fuori il campo, a partire dall’alimentazione».
B. «È cominciato tutto grazie al mio professore di educazione fisica. Poi il primo canestro mobile nel giardino di casa, dove ho preso confidenza con la retina. A diciotto anni c'è stata la svolta: dopo un provino sono arrivato a Reggio Emilia e lì è decollata la mia carriera. In Puglia e nelle altre regioni meridionali c’è grande passione per il basket, ma manca il resto: grandi club di riferimento come Caserta nei primi Anni Novanta, impianti, allenatori e spesso sei costretto a partire. A Ruvo di Puglia mi allenavo solo tre volte a settimana…».

Quanto e come incide il fattore età quando si scende in campo?
G. «In realtà non mi sono mai sentito un bambino anche se ho esordito in Serie A a sedici anni. Quando indosso la canotta non penso all’anagrafe: sono un giocatore come gli altri. Dalla prima palla a due ho cercato di guadagnare il rispetto e la considerazione dei compagni e degli avversari».
B. «Il tempo è volato ed è meglio non pensare che ho già 36 anni. Alla mia età sono fondamentali il recupero dello sforzo, la gestione delle energie e le motivazioni».

Perché faticano a emergere i nuovi talenti italiani?
G.«Il nostro movimento produce giocatori bravi. Ma spesso l'obbligo di vincere subito e la paura di perdere il posto in panchina non consente agli allenatori di scommettere sulle loro qualità. Spero che anche altri ragazzi abbiano la mia opportunità e lo spazio per dimostrare quanto valgono. Poi spetta a noi lavorare più duramente».
B. «La sentenza Bosman è stata il primo passo verso lo smantellamento dei settori giovanili. Noto però anche una diversa mentalità dei ragazzi: il basket non è più la prima ragione di vita e si accontentano troppo. In molti sembrano che lo vivano più come un hobby che una professione».

Il rapporto con gli allenatori.
G.«È sempre stato ottimo a partire da coach Frank Vitucci che mi ha lanciato in prima squadra. Repesa, che ha allenato anche il “Baso”, mi ha insegnato moltissimo sul piano tecnico e a livello personale con lezioni di vita. L’attuale, Djordjevic, è come un maestro. Papà Nando (il suo primo coach a Maddaloni, ndr)? Sono molto fortunato ad avere il suo esempio. Mi consiglia e aiuta ad affrontare situazioni che ha già vissuto. Quando sbaglio mi rimprovera, mentre i complimenti latitano».
B. «Non sono mai stato una testa calda. Non dimentico nessuno dai primi maestri come Consolini e Lombardi. Le vittorie hanno reso speciale il rapporto con Repesa, Recalcati e Pascual. Mi dispiace non essere stato allenato da Zelimir Obradovic (il santone serbo alla guida del Panathinaikos, ndr) e da Ettore Messina».

L’Nba è l’obiettivo e il rimpianto di una carriera straordinaria?
G. «Almeno per il momento non ci penso. Voglio crescere passo dopo passo e affermarmi nel mio Paese».
B.«Non è un rimpianto: non avevo l’atletismo per competere oltre oceano e amo la pallacanestro europea. Al Barcellona ho vissuto delle stagioni fantastiche con la conquista dell’Eurolega e della Liga. Io e Messi? Con i calciatori del Barça ci si incontrava solo nelle iniziative organizzate dal club, ma c’era la consapevolezza di rappresentare la stessa realtà sportiva e la Catalogna intera».

La maglia azzurra: le emozioni di chi ancora deve indossare quella senior e il ricordo di chi ha segnato un'epoca ricca di successi.
G. «Non so quando avverrà il salto in quella maggiore, ma è un mio obiettivo e sarà una sensazione incredibile. Dopo la finale europea Under 20 persa contro la Spagna ero arrabbiatissimo, volevo l’oro e ho gustato poco la premiazione. A mente fredda rimane l’orgoglio di avere ben rappresentato la mia comunità».
B. «L’argento olimpico di Atene 2004 vale quanto una carriera intera. Purtroppo il movimento non ha saputo sfruttare la visibilità e l’onda lunga di quel successo. Non avevamo il fisico e il talento dei tre alfieri in Nba (Bargnani, Belinelli, Gallinari), ma serve altro per creare un gruppo vincente come il carattere e la mentalità. Nel mio ultimo periodo in azzurro ho giocato anche con loro e provato la difficoltà di trovare un linguaggio tecnico comune. In America è quasi un altro sport e oggi c’è un divario macroscopico tra loro e il resto della selezione italiana. Occorre avere pazienza e credere nel progetto partito due anni fa».

L’avversario più spigoloso e quello più difficile su cui difendere.
G. «Antipatici? Non ci sono, altrimenti quando li affronto chissà che “mazzo” mi fanno! Avversari forti li incontro ogni domenica e non saprei scegliere».
B. «Louis “Sweet Lou” Bullock: quando giocava a Verona mi segnò trenta punti in faccia. Da quel momento ho iniziato a difendere forte…».

Il compagno di squadra con cui ha legato di più.
G. «Il mio capitano Massimo Bulleri: è un esempio da seguire quotidianamente in palestra».
B. «Senz’altro in nazionale: condividi per almeno due mesi l’intera giornata con i compagni. Ero quasi sempre in camera con Galanda, Andrea Meneghin e Bulleri, e si è creato un bel rapporto di amicizia».

La vita oltre alla palla a spicchi.
G. «Ho tanti amici tra i compagni di squadra, quando non siamo in trasferta usciamo per andare al cinema o per una pizza. Guardo ogni genere di film, soprattutto i polizieschi e in generale quelli di azione. Il preferito? Scarface. A tavola? La pizza ai quattro formaggi. Il valore più importante è la famiglia. La fidanzata? La prossima domanda, grazie».
B. «La sera mi godo le mie tre figlie. Per il resto ho sempre vissuto la professione con un impegno e una dedizione totale. Anche da ragazzino ero un tipo tranquillo. Il mare e la Sardegna sono la mia passione estiva da condividere con la famiglia».

Che cosa direbbe a Basile?
G. «Il “Baso” è un simbolo della nostra pallacanestro e un modello per noi giovani. Da lui prenderei tutto e gli dico vacci piano quando giochi contro di noi!»

Un consiglio a Gentile.
B. «Alessandro ha mezzi fisici e tecnici importanti. Da quello che ho visto ha anche un caratterino tosto. Consigli? Li lascio al papà Nando…».

sabato 29 ottobre 2011

Nba, nuova fumata nera: non si gioca fino a dicembre

http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=168174&sez=HOME_SPORT&ssez=ALTRISPORT

di Gabriele Santoro

ROMA - L’ottimismo delle ultime ore di trattative per sbloccare la serrata Nba, giunta al centoventesimo giorno, è evaporato nella nottata italiana con l’annuncio della cancellazione delle partite fino al mese di dicembre. Ed è ufficiale che la stagione, qualora partisse, non si snoderà più sulle classiche ottantadue partite. «È impossibile programmare un’annata completa», ha detto David Stern, gran capo dell’Nba.

Lo scoglio principale sul quale si è nuovamente arenato il dialogo è la spartizione degli introiti. I proprietari hanno ribadito la disponibilità a una divisione al 50%, mentre il sindacato dei giocatori non scende sotto il 52.5%. La differenza tra domanda e offerta è di circa 80 milioni di dollari per una singola stagione e 630 sui prossimi sette anni su una torta complessiva da 4 miliardi di ricavi annui. Si sono compiuti passi in avanti su altri punti dell’accordo collettivo come la tassa sul lusso per chi sfora il tetto salariale e la durata dei contratti.

«Anche in questa occasione abbiamo sperato di trovare un accordo - ha spiegato Stern - ma la controparte ha abbandonato il tavolo. Billy Hunter direttore esecutivo del sindacato dei giocatori), subissato di telefonate degli agenti, ha detto che non sarebbe sceso di un penny sotto il 52% per poi alzarsi e uscire dalla stanza». Stern ha lanciato poi un messaggio che non lascia presagire un ammorbidimento delle posizioni: «La serrata sta provocando delle perdite colossali alle franchigie che andranno quantificate e non è stimabile il tempo necessario a rientrare degli incassi mancati».

«Non siamo riusciti ad avvicinarci abbastanza. Abbiamo fatto tante concessioni, ma non è sufficiente per i proprietari. Il prossimo incontro? Non lo so, ma speriamo di poter arrivare a una soluzione il prima possibile. È chiaro però che non firmeremo un accordo valido per i prossimi sei anni che possa danneggiare anche i futuri professionisti», ha commentato Derek Fisher, presidente del sindacato giocatori.

Obama inascoltato. Giovedì si era aperto uno spiraglio importante per la conclusione positiva delle trattative con la frase "It's time to go" (È tempo di cominciare) che apriva il sito ufficiale dell'Nba, poi sostituito con "It's (no) time to go". Nelle ultime settimane anche la Casa Bianca ha aumentato il pressing su proprietari e giocatori per raggiungere un accordo. Il presidente statunitense, intervenendo alla trasmissione televisiva di Jay Leno, aveva lanciato questo monito: «È ora che i giocatori e i proprietari delle squadre di Nba pensino di più ai tifosi, senza dimenticare che devono il successo alla loro passione. In questi anni tutti i protagonisti della Lega hanno fatto milioni di dollari e dovrebbero essere in grado di spartirsi la torta dei ricavi. Dopo questo tipo di serrate serve molto tempo per tornare alla normalità».

venerdì 28 ottobre 2011

Anna Cremascoli, la prima presidentessa del basket

http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=168009&sez=HOME_SPORT&ssez=ALTRISPORT

di Gabriele Santoro

ROMA – Pavia è stata la culla delle presidenze in rosa nello sport professionistico italiano. Nei primi Anni Novanta le pioniere Giusy Achilli e Barbara Bandiera aprirono il varco in un mondo declinato tutto al maschile: la prima presidentessa del Pavia calcio, la seconda della squadra di basket locale promossa nella massima serie. Se la signora Achilli ha fatto scuola nel mondo del pallone con diverse eredi, dalla romana Rosella Sensi alla bolognese Francesca Menarini solo per la serie A, nella pallacanestro si è dovuto attendere ventidue anni per avere un’altra donna alla guida di una società.

Lo scorso 17 settembre la trentottenne milanese, di professione ingegnere, Anna Cremascoli è diventata ufficialmente la presidente della Bennet Cantù. Una piazza storica come quella canturina ha sposato e accolto con entusiasmo il nuovo corso e la virata al femminile al vertice societario. «La pallacanestro è stata sempre la passione di casa. L’azienda di famiglia Ngc Medical è radicata da oltre vent’anni in Brianza con sede a Novedrate. Prima siamo entrati come sponsor di Cantù, poi come soci e infine abbiamo rilevato il 100% delle quote dalla proprietà precedente che non poteva più sostenere i costi», spiega la presidentessa.

Il cuore pulsante del triangolo cestistico lombardo Milano-Varese-Cantù dopo anni in chiaroscuro è tornato a battere forte. L’anno scorso la squadra allestita dal sapiente Bruno Arrigoni e allenata dall’ottimo Andrea Trinchieri ha riconquistato la finale scudetto e la qualificazione all’Eurolega. E in questa stagione si ripropone come l’outsider di lusso alle spalle delle regine designate Siena e Milano grazie a un gioco bello e concreto. Cantù conta trentamila abitanti, vive per la palla a spicchi e vanta la tradizione della provincia divenuta metropoli del parquet. Al botteghino è stato registrato il record di abbonamenti, oltre quattromila tra campionato ed Europa.

Una donna presidente, come ama definirsi, rappresenta un inedito per il basket. Come hanno reagito i colleghi?
«All’inizio quando andavo in trasferta accompagnata da mio marito salutavano lui come presidente. Ora mi sono fatta conoscere e apprezzare nell’ambiente. L'approdo alla presidenza è stato abbastanza naturale: ho stimoli e passione per ricoprire la carica con una dedizione assoluta. Nel mio percorso di studio e professionale ho imparato a guadagnarmi la pagnotta. Mi sono laureata in ingegneria meccanica. Ho girato il mondo lavorando per la Pirelli, poi quando i ritmi sono diventati inconciliabili con la volontà di costruire una famiglia sono entrata nei quadri dirigenziali della Ngc Medical».

Ci racconti la sua giornata tipo.
«Con mio marito e i nostri figli viviamo a Milano. La mattina presto accompagno i piccoli all’asilo (una figlia di 4 anni e il fratellino nato dopo la conclusione la finale 2011 Siena-Cantù, ndr). Poi vado a lavoro nel mio ufficio alla Ngc e alle cinque corro al Pianella per seguire gli allenamenti della squadra».

Si è fatta un'idea sul dibattito sempre aperto sulle cosiddette quote rosa?
«Il merito non dovrebbe avere bisogno di quote. Anzi credo si tratti di una forma di ghettizzazione. Non rincorro gli uomini e non svolgerò mai il mio ruolo di presidente come se lo fossi. Sono una presidentessa con le mie predisposizioni e il mio stile».

In un momento di crisi economica così grave e di austerity ha ancora senso investire nello sport?
«Investiamo in emozioni e il ritorno non è soltanto economico. Il basket rispetto al calcio è uno sport “povero” e richiede investimenti decisamente più bassi (intorno ai 7 milioni il budget annuale della Bennet, ndr). La trasmissione delle partite sui canali Rai e La7 ci ha restituito anche una visibilità importante».

Identità, organizzazione e passione: il modello Cantù.
«Esattamente. Con questi tre termini possiamo sintetizzare la ricetta vincente di una squadra che non ha soldi da spendere come Milano o Siena, ma compete con tutti. Chi indossa la nostra maglia è consapevole della storia che rappresenta. A Cantù la pallacanestro la respiri per strada. L’emozione del Pianella è difficile da descrivere. C’è un’energia antica che si infiamma nel rito domenicale della partita».

Qual è il suo rapporto con una “vecchia volpe” come il general manager Bruno Arrigoni? Come si è calata in una realtà che richiede una competenza specifica?
«Le racconto un aneddoto. Giovedì all’alba eravamo all’aeroporto di Bilbao tutti stanchi per la lunga trasferta e la gara di Eurolega di ieri sera. Arrigoni parlava del futuro: dalle nuove regole sui tesseramenti ai mercati giocatori da sondare. È il più anziano del gruppo, ma quello che vede più lontano di tutti. Penso che la maggiore qualità di un presidente sia scegliere i collaboratori giusti. Bruno l’ho ereditato dalla gestione precedente con una fortuna sfacciata e me lo tengo stretto. Sono entrata in punta di piedi con l’umiltà di chi deve solo apprendere. Ho anche una panchina settimanale. Quando arrivo in palestra per seguire gli allenamenti mi siedo vicina ad Arrigoni e mi spiega tutto. E se sorride a una mia domanda significa che ho detto una stupidaggine…».

Per lei c’è un posto in panchina pure la domenica…
«Sì, prima della palla a due mi siedo vicino al coach Andrea Trinchieri e parliamo per qualche minuto. Naturalmente non svelerò mai il contenuto dei nostri discorsi, si romperebbe l’incantesimo (sorride, ndr). Il “Trinca” è un allenatore pazzesco, per me geniale».

Ha una ricetta per guarire il basket italiano afflitto da troppe liti e l’assenza di una progettualità condivisa per il futuro?
«Tutte le componenti del movimento dovrebbero capire che siamo sulla stessa barca: se il giocattolo si rompe come in Nba non vince nessuno. Un problema centrale da risolvere è quello degli impianti: non abbiamo strutture all’altezza. E serve un pacchetto di regole certe da concertare con la Federbasket. Cantù per esempio deve disputare l’Eurolega a Desio e in tante altre realtà i palasport sono vetusti».

Un punto di forza di Cantù è l’aver assemblato un pool consistente di sponsor. Avrebbe accettato la presunta sponsorizzazione milionaria offerta dal sito Ashley Madison alla Virtus Roma?
«No, non ho neanche voluto curiosare sul sito (una piattaforma virtuale per far incontrare coniugi in cerca di avventure extraconiugali, ndr). Non credo molto ai soldi facili e gli altri sponsor mi avrebbero abbandonata. La pallacanestro merita altre sponsorizzazioni. In compenso si sono fatti una grande pubblicità, gratuita, con il nome di Roma».

Lo scudetto è un sogno proibito?
«Quest’anno sembra una corsa a due tra Milano e Siena, ma se qualcuno sbanda noi ci siamo».

martedì 18 ottobre 2011

Carlo Delle Piane, la valigia dell'attore tra risate e solitudine

http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=166907&sez=HOME_CINEMA

di Gabriele Santoro

ROMA – Può bastare una semplice biografia a raccontare una vita straordinaria? Probabilmente no, ma il libro Signori e signore, Carlo Delle Piane (Testepiene, 240 pp., 22 euro) scritto dal giornalista Massimo Consorti restituisce l’emozione, le difficoltà e l’arte dell’attore romano che ha intrecciato la sua esistenza con l’epoca dorata del cinema italiano. La narrazione della valigia del caratterista per eccellenza con cento film all’attivo illumina l’umiltà di chi ha conquistato l’ammirazione di giganti come Vittorio De Sica o l’amicizia di Aldo Fabrizi con cui condivise solitudine e risate. «L’idea della biografia è di Anna Crispino, una donna molto importante per me, e dopo molti anni si è concretizzata», dice Delle Piane. Al libro è allegato un dvd (Il Bello del Cinema Italiano) del regista Giuseppe Aquino con le interviste a Franco Battiato, autore della postfazione, e Pupi Avati che ha curato la bellissima prefazione.

La biografia regala un affresco della Roma sospesa tra l’occupazione nazifascista e l’attesa della liberazione. È un’infanzia felice con un pallone da rincorrere a Campo de Fiori, gli odori della cucina di casa e il cinema Modernissimo.
«Abitavamo a Trastevere nei pressi di Ponte Garibaldi. Il ricordo più nitido della guerra sono le mitragliatrici dei tedeschi che presidiavano il ponte, poi il rifugio nello scantinato del palazzo durante i bombardamenti. E una mattina all’alba da via Arenula si sentì un gran rumore e scendemmo in strada: erano i carri armati della libertà con le loro caramelle e chewing-gum. Le nostre giornate trascorrevano giocando a calcio per strada e al cinema Modernissimo, dove cercavamo di fregare le maschere: un biglietto per due film. In casa c’era già un attore inconsapevole, mio padre, di mestiere sarto. Per mantenerci a scuola accettava tutte le richieste dei clienti e poi s’inventava o recitava le scene più strane per giustificare il ritardo nella consegna».

Che passione il calcio. Lei un’ala destra velocissima e quella pallonata che le ha cambiato il naso e la vita.
«Il calcio era lo svago principale e si giocava nei campionati studenteschi al campo Mastai. Il 26 ottobre del ’46 durante una partita un difensore rinviando un pallone mi prese in pieno sul volto. E cambiò per sempre i connotati del mio naso alla francese».

Cuore, Duilio Coretti e il primo giorno a Cinecittà.
«Un giorno del marzo ’48 vennero a scuola Coletti e i suoi collaboratori per scegliere tra i bambini le facce giuste per il film Cuore, tratto dall’opera di Edmondo De Amicis. Li colpì la mia faccia curiosa e mi chiesero di andare a Cinecittà per il provino. Nell’attesa giocavamo incoscienti a pallone nel cortile con gli altri coetanei. Davanti alla macchina da presa risposi alle domande con molta naturalezza e fui scelto per il personaggio di Garoffi».

«Bravo hai girato una scena perfetta. Naturale, spontanea e armoniosa. Se a tredici anni reciti così avrai una carriera luminosa». Il ciak per Domani è troppo tardi che conquistò Vittorio De Sica, il primo maestro.
«Già nel film Cuore De Sica fu importantissimo. Sapeva parlare con i bambini e ci insegnò a dire le battute, l’intonazione, le pause. L’anno successivo mi chiamò per Domani è troppo tardi e se ne uscì con quel commento, dopo una scena in cui spiegavo come nascevano i bambini. Ci ha visto giusto».

«Carle’, ma quanno la cambi ‘sta machina?». L’avventura unica del Rugantino e l’amicizia con il commentadore Aldo Fabrizi.
«Fuori dai set non ho mai frequentato colleghi. Aldo Fabrizi è l’eccezione. Il primo incontro avviene nel ’52 con Guardie e ladri, poi a teatro dal ’62 con l’edizione grandiosa del Rugantino a Roma e la tournée mondiale. Non gli piaceva la mia Alfa Romeo coupè, perché stava scomodo sui sedili. Amava l’arte del cucinare; la cucina di casa era un appartamentino. Una sera eravamo a tavola da lui con un’amatriciana fumante pronta. Il primo boccone e poi…”Er sale, Carle’, manca er sale”. Buttò tutto e ne preparò una squisita».

«La scoperta di una comune visione del senso da dare alla vita, inclusa la vocazione alla solitudine, rafforzò l’amicizia di Carlo Delle Piane ed Aldo Fabrizi», scrive Massimo Consorti.
«Aldo aveva un carattere difficile, alla ricerca di affetti veri e non adulatori. Era stimato come attore. Ma non amato come uomo nell’ambiente, perché diceva sempre la verità e non accettava nessun tipo di compromesso. È questo il suo tesoro. Si paga un prezzo alto, quando si è sinceri e leali».

Tre nomi e cognomi: Antonio de Curtis (Totò), Alberto Sordi, Orson Welles.
«Quando recitai con Totò ero ancora un bambino. Mi voleva bene e mi trattava come un figlio. Lo ricordo tra un ciak e l’altro seduto sulla sua poltrona un po’ triste e malinconico. Sordi era una persona divertente, giocava e scherzava come in scena con una grande professionalità. Non dimenticherò mai l’incontro casuale sul set a Cinecittà con Orson Welles: una voce roboante, profonda e poi si spalancò una porta con quell’omone possente. Avevo appena incontrato il mito, ma solo successivamente capii la grandezza della sua opera».

Ieri, oggi e domani il cinema per Delle Piane.
«Non ho mai fatto nessuna scuola di cinema. Negli Anni ’60-’70 la mia formazione è avvenuta nei cineclub e cinema d’essai divorando film. Mi impressionò Buster Keaton: ho fatto tesoro della sua faccia e del suo recitare essenziale, scarno. Il mondo del cinema in cui sono nato era una grande famiglia, dove ci si divertiva. Nella mia vita intima ho vissuto e affronto un grande disagio come la mania per l’igiene. Il cinema mi dà una grande gioia. Lo amo ancora dopo tanti anni ed è come una terapia. Faccio quello che nella vita non farò mai».

L’incontro con Antonio Avati e i dubbi di Pupi.
«L’incontro con Pupi Avati lo devo al fratello Antonio. Nel ’76 Pupi stava preparando Tutti defunti tranne i morti e cercavano il secondo protagonista, ma nonostante le pressioni del fratello non ne voleva sapere niente di me. Antonio organizzò un appuntamento in sartoria per l’abbigliamento del personaggio, che era un investigatore, e mi misero impermeabile e cappello alla Humphrey Bogart. Aprii la porta dello stanzino e mi presentai davanti a Pupi: rise di cuore e mi assegnò il ruolo. Da lì è cominciato un sodalizio professionale lunghissimo e un’amicizia profonda».

Il caratterista diventa attore protagonista. «Carlo Balla era inevitabilmente Delle Piane» e il successo di Una gita scolastica.
«Nel 1983 Pupi Avati mi cuce addosso un ruolo per la prima volta da protagonista assoluto. In Una gita scolastica il professor Carlo Balla innamorato della collega, con volontà far trasparire sullo schermo anche la mia interiorità. «Non ho niente contro il matrimonio. È che bisognerebbe chiedere a lui cos’ha contro di me», diceva Balla. Non era un personaggio facile, poteva scadere nel ridicolo o nel melodrammatico. Pensando a Keaton ne diedi un’interpretazione asciutta, essenziale. Un film che riscosse moltissimi consensi e vinsi a Venezia il premio Pasinetti».

Regalo di Natale, una telefonata e il trionfo al Festival di Venezia.
«Nel 1986 è arrivata la consacrazione con il film Regalo di Natale. Vinsi a Venezia la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile. Il nostro nome non circolava tra i favoriti. Poi arrivarono due telefonate a casa di Antonio Avati. «Sei seduto?» «No, sono sdraiato». «Hai vinto, dobbiamo partire subito per il Lido!» Ricordo con particolare piacere l’abbraccio forte e i complimenti di Walter Chiari».

Oggi si riconosce nella commedia italiana?
«La commedia era un’altra cosa e non mi riferisco solo ai cosiddetti “cinepanettoni”. Il problema principale è che mancano gli sceneggiatori, non c’è una vera scrittura. Oggi si pensa soprattutto al denaro, ad andare sul sicuro. Una volta i grandi produttori almeno una volta all’anno scommettevano su un film d’autore. Il nostro cinema non varca più i confini della penisola. E mi rimprovero di non aver imparato l’inglese per lavorare oltre oceano. Ai giovani dico di fare la gavetta, di non sentirsi mai arrivati o pronti. Hanno a disposizione mezzi tecnici straordinari, ma mi sembra che oggi l’unico obiettivo sia apparire più che studiare».

domenica 16 ottobre 2011

La piazza tradita: "Ci hanno rubato anche il 15 ottobre"

http://www.ilmessaggero.it/articolo_app.php?id=41859&sez=HOME_INITALIA&npl&desc_sez

di Gabriele Santoro

ROMA - «Ci hanno rubato anche il 15 ottobre». C’è incredulità, sconforto, rabbia per la violenza che ha travolto e messo in pericolo l’incolumità delle migliaia di persone accorse da tutta Italia per manifestare liberamente e in pace il proprio pensiero nella giornata di protesta mondiale "United for global change". In piazza San Giovanni c’erano anche ragazzi e ragazze in carrozzina, accompagnati dai genitori indignati del Coordinamento nazionale disabili gravi, costretti a scappare nel panico e nella follia del momento.

Nel sabato nero per la città di Roma ci sono tre piazza San Giovanni da raccontare. Alle ore 15.37 da Via Merulana si affaccia la testa del corteo, con in apertura un cordone di polizia ma la piazza non è presidiata da nessun lato, partito alle 14.30 da piazza della Repubblica per riempire serenamente a macchia di leopardo il pratone. Alla spicciolata arrivano le bandiere del Movimento per l’acqua pubblica e dell'arcipelago della sinistra extraparlamentare (Sel, Sinistra critica, Prc), i No Tav, i lavoratori Fiom, i sindacati di base con le bandiere dei Cobas, Legambiente, mentre il movimento degli Indignados (Italian Revolution-Democrazia Reale), già dalle prime ore del mattino riunito sotto la statua di San Francesco all’inizio di via Carlo Felice, in assenza di un palco centrale ha allestito l'unico punto per i dibattiti.

Cinquanta minuti più tardi piazza San Giovanni ormai è piena, ma gli occhi e i pensieri dei manifestanti si rivolgono tutti verso il fumo pesto e tetro che si alza da via Labicana. È il segnale che la devastazione iniziata alle 15 in Via Cavour è ormai a un passo dal congestionarsi e arrivano i primi racconti di chi ha provato a fermare gli incappucciati. «Eravamo oltre quattrocento persone ed era appena cominciata l’assemblea con i primi interventi individuali, dagli operai Fiat ai ragazzi del nostro movimento - racconta Chiara, da mesi impegnata con il Movimento Indignados P.zza San Giovanni (Italian Revolution Roma) - ma nel volgere di pochi minuti la gente ha iniziato a correre in ordine sparso. Abbiamo cercato di mantenere la calma e con le mani alzate ci siamo avvicinati alla zona degli scontri urlando “Non violenza, non violenza” e si è unita un’altra fetta della piazza. Alcuni hanno provato a fermarli, invano. In realtà fin dal concentramento di piazza della Repubblica tutti hanno potuto notare gente con caschi neri e divise inquietanti». Quando la situazione è diventata incontrollabile l’unica soluzione era scappare. «Due camionette della polizia con gli idranti tentavano di disperdere quei delinquenti e ci siamo rifugiati a piazza Santa Croce in Gerusalemme, dove abbiamo ripreso a discutere e confrontarci come nelle intenzioni della giornata».

La terza piazza. Dopo lo sconcerto per la guerriglia sono tante le domande che affiorano e passano di bocca in bocca tra gli Indignados accampati a San Giovanni: «Perché i violenti non sono stati fermati prima?», «Che fine faranno le ragioni e le istanze della nostra protesta?». C’è chi vuole ripulire la piazza distrutta dagli incappucciati e arrivano le tende: duecento accampati (tra cui i Draghi Ribelli di Palazzo delle Esposizioni) realizzano l’intento di restare in piazza davanti alla chiesa Santa Croce in Gerusalemme e stamattina dalle 11 nuova assemblea; “l’indignazione non è morta”. Ma c’è la consapevolezza della necessità di un’auto riflessione importante. «Lo abbiamo detto in questi mesi e ripetuto fino alla vigilia della manifestazione: all’interno delle piattaforme di dialogo tra realtà diverse non ci può essere alcun distinguo sul tema della non violenza», conclude Chiara.

Madrid e le sue piazze per il momento restano un sogno. Ieri nella capitale spagnola Plaza Puerta del Sol era stracolma di gente normale, indignata e con una proposta di cambiamento. Ed è superfluo sottolineare come non si sia verificato il minimo incidente. In Italia il movimento sorto sulla scia di quello iberico non ha gli stessi numeri e l’obiettivo dei suoi militanti è quello di coinvolgere le forze sane della società colpite dalla crisi, a partire dal territorio. Da oggi ci riproveranno con un’attenzione ancora più decisa a isolare le derive nichiliste che puntano a prendersi e distruggere spazi di libertà da altri democraticamente costruiti.

sabato 15 ottobre 2011

In corteo con "Lupo" e gli altri cassaintegrati Fincantieri

http://www.ilmessaggero.it/articolo_app.php?id=41844&sez=HOME_ROMA&npl&desc_sez

di Gabriele Santoro

ROMA - Tra la moltitudine di giovani che affollano piazza della Repubblica non passano inosservati i volti degli operai colpiti dalla crisi economica. Sorrisi tirati, stanchi e arrossati dal sole. Gli operai cassaintegrati degli stabilimenti navali Fincantieri e delle ditte a cui vengono appaltati i lavori (il 70 per cento della manodopera di Fincantieri proviene dagli appalti) sono partiti stamattina alle 8 da Ancona e provincia con diciotto pullman della delegazione Fiom Cgil.

Il cinquantacinquenne Sante, da tutti i colleghi conosciuto con il soprannome Lupo,
ha la barba incolta, i capelli spruzzati di grigio, le mani usurate, il volto scavato e sfila in silenzio. Ha passato una vita, oltre ventisei anni, negli spazi angusti dei doppifondi delle navi come pittore. «Sono disperato - racconta Sante - ma non perdo la dignità di una professione onesta che richiede un'alta qualità da artigiano. Sei mesi fa ho perso il lavoro che riempiva le mie giornate e sosteneva la famiglia composta da cinque persone. Nel cantiere è finito il ferro e non sono più arrivate le commesse». Gli ammortizzatori sociali? «Noi lavoratori delle ditte esterne occupati grazie agli appalti non abbiamo neanche quelli. Per sei mesi ho ricevuto un sussidio di disoccupazione, dal primo novembre non percepirò neanche un centesimo». Come si tira avanti? «Devo ringraziare un infortunio alla gamba sul posto di lavoro proprio in un cantiere che mi "frutta" una pensione d'invalidità pari a settecento euro mensili».

Insieme a Sante ci sono colleghi sempre più sull'orlo del baratro. «Tra Ancona e provincia sono duemila e cinquecento le famiglie colpite dai tagli di Fincantieri - spiega Giuseppe Ciarrocchi, responsabile regionale Fiom Cgil - Siamo in cassa integrazione dall'ottobre 2009 e i nostri stipendi sono decurtati del 30 per cento. Ora abbiamo occupato il cantiere anconetano. Colpa della crisi congiunturale? Non solo. L'azienda non investe in ricerca da oltre dieci anni ed esternalizza il processo produttivo. L'unica strategia assunta è quella del taglio occupazionale, 2500 posti persi, e salariale».

Qual è l'età media degli operai? C'è la possibilità di un reinserimento in altre realtà produttive del territorio? «Intorno ai quarant'anni - prosegue Ciarrocchi - Non scherziamo: le piccole e medie imprese della nostra zona stanno chiudendo i battenti. E poi non siamo operai generici: il nostro è un lavoro artigianale e non vogliamo smarrire la nostra identità».

Le mille anime degli "Indignados"

http://www.ilmessaggero.it/articolo_app.php?id=41829&sez=HOME_ROMA&npl&desc_sez

di Gabriele Santoro

ROMA - La caratteristica e la volontà del movimento riassunto nel nome generico “Indignati”, sotto cui vanno realtà estremamente eterogenee e anche distanti, è di essere “leader less”. L’atipicità di questa partecipazione così variegata e frammentata si rifletterà nella manifestazione di domani, che si annuncia imponente. Il web inquadra le diverse anime e i vagiti di una protesta spontanea con lo sguardo rivolto a sinistra e al futuro nel rifiuto di una qualsiasi rappresentanza politica costituita. «I partiti politici non sono invitati all'azione mondiale di Protesta del 15 ottobre. Per il semplice fatto che loro stessi sono una grossa parte del problema», si legge sul profilo Facebook di Italian Revolution.

In queste giornate calde la Rete ha catalizzato pensieri, condiviso le ragioni della piazza reale, esteso le adesioni e descritto modalità di azione diverse. A essere comune è Il lessico della protesta: basta delegare le scelte a chi non ci rappresenta, rottura con il sistema economico che ha condotto alla crisi, restituire il futuro a una generazione di “bamboccioni” per forza.

«Ci hanno definito generazione senza contenuti, adesso sveglia, fuori gli attributi. Il futuro ci appartiene, spezza le catene di questo sistema che non ti sostiene. Spegni la televisione, scendi in strada qualcosa si muove. Una spinta dal basso per una nuova realtà», parole e musica del pezzo World Revolution di Josa&Cizeta feat Dily.

A piazza San Giovanni, dove si concluderà il corteo (partenza ore 14 Piazza della Repubblica), non ci sarà un palco, anche perché troppo costoso. Sono previsti alcuni però alcuni spazi in cui parleranno persone che vivono in prima persona la crisi dal lavoratore cassaintegrato Fiat al ricercatore universitario senza dimenticare il popolo dei precari della scuola. I partiti non resteranno fuori dalla mobilitazione. L’Italia dei Valori ha annunciato la propria adesione, come già fatto in precedenza da Sel, Federazione della Sinistra, Verdi e ci sarà una rappresentanza dei giovani del Pd.

Tutti “Indignados”? In queste ore l’etichetta degli Indignati non restituisce l’origine e la reale coesione di un movimento che ha trovato una sintesi nella data del 15 ottobre, ma che ha storie e scelte diverse. «All’inizio con le altre realtà ci eravamo proposti di dialogare - spiega Chiara Moncada, Movimento Indignati gruppo San Giovanni (Italian Revolution), da mesi seguono Indignatos spagnoli - con le piattaforme “Roma Coordinamento Bene Comune” e “Uniti per l’alternativa”. Purtroppo nelle assemblee per un’organizzazione comune non si è riusciti ad avere la “quadra”. Non è stata data la stessa importanza e centralità al discorso del rifiuto di qualsiasi forma di protesta violenta. Anche se la piattaforma della manifestazione è assolutamente pacifica».

Come interverrete al corteo? «Domani una parte di noi parteciperà al corteo senza bandiere - prosegue Chiara - con il Coordinamento nazionale famiglie dei disabili gravi, colpiti dai tagli del governo, e altre realtà sociali. L’altra sarà direttamente a San Giovanni ad allestire la piazza per l’assemblea popolare sotto la statua di San Francesco. La speranza è che non ci sia alcun tipo di incidenti. L’intenzione non è di forzare l’accampamento dopo la manifestazione. La nostra proposta non si esaurisce nella protesta».

Nella mappa pubblicata da Italian Revolution - Democrazia Reale s’invita espressamente a evitare la “zona rossa” di Montecitorio “come di scarso interesse e si sconsiglia di avvicinarsi”.

Da Bologna arriverà una forte partecipazione, circa trenta pullman, e a Piazza Nettuno è sorto il primo nucleo della protesta simil spagnola. «È cominciato tutto il 20 maggio con un presidio di solidarietà ai nostri coetanei spagnoli - dice Elena Liborio, studentessa bolognese ventiduenne del Dams - che hanno dato un volto nuovo alla protesta di un’intera generazione. All’inizio abbiamo attirato più l’attenzione dei ragazzi Erasmus, poi l’accampamento diurno e notturno è cresciuto con uno zoccolo duro sempre presente. Siamo andati avanti per un mese con assemblee, workshop». «La realtà bolognese è molto frammentata - continua Elena - ed è stato complicato creare un’interazione. E ci siamo interrogati sul reale peso politico della nostra lotta. I riferimenti sono stati con i collettivi universitari, i centri sociali e i sindacati di base, soprattutto Cobas e Cub, ma non c’è stata un’integrazione completa. La data del 15 ottobre è stata un collante».

Atenei in rivolta. Gli studenti universitari saranno una grossa fetta dei partecipanti alla manifestazione. «Il nostro movimento è nato sull’Onda delle proteste nel 2008 - racconta Marta dell’organizzazione studentesca Atenei in Rivolta, studentessa della Sapienza - L’organizzazione degli studenti si è diffusa in molti atenei e domani è prevista una partecipazione massiccia da tutta Italia. La piattaforma del 15 ottobre? Abbiamo preso parte all’assemblea "Roma Bene Comune" e intendiamo avvicinare le nostre lotte a quelle dei lavoratori e altri soggetti che stanno pagando il debito prodotto dal governo delle banche». L’intenzione del movimento degli indignati non segue quella lanciata da voi “Yes, we camp”. «Piazza San Giovanni è lontana dai palazzi che contano, dove si decide. Non è sufficiente una sfilata della sinistra che si esaurisca nello spazidi o di un corteo. Serve una mobilitazione permanente che costruisca un percorso collettivo e partecipativo. Vediamo come evolverà la giornata», conclude Marta.

Il corteo, dai cassaintegrati di Mirafiori ai precari della scuola, raccoglierà la frustrazione dei lavoratori colpiti dalla crisi. «Mancherà per una scelta politica la Cgil - spiega Enrico Bernocchi, Cobas - ma noi e la Fiom rappresenteremo una parte consistente del mondo del lavoro, vittima principale della speculazione finanziaria. Era dall’inizio della guerra in Iraq che non riuscivamo a coinvolgere un campo così ampio di forze». Il movimento non è troppo frammentato? «Piuttosto direi variegato, ma l’idea di fondo è unica: cambiare su scala globale l'attuale sistema». Come conciliare il rapporto con gli studenti. «Innanzitutto precisiamo che il corteo partirà dalla Sapienza, ma confluirà in quello comune a Piazza della Repubblica. Durante la manifestazione sfileranno accanto alla delegazione Fiom. Alla base c'è un dialogo costruttivo. Prevenire eventuali incidenti? Il nostro appello parla chiaro: una manifestazione di massa e pacifica».

giovedì 13 ottobre 2011

Gli Indignati verso il 15 ottobre

http://www.ilmessaggero.it/articolo_app.php?id=41799&sez=HOME_ROMA&npl&desc_sez

di Gabriele Santoro

ROMA – «La tenda ce l’ho. Il sacco a pelo ce l’ho. Il materassino ce l’ho. Il debito, ho anche quello, ma giuro che non è mio»! Sui social network corre veloce l’organizzazione della giornata del 15 ottobre, quando a Roma confluiranno manifestanti da tutta Italia per la protesta United for global change, e sta prendendo corpo l’iniziativa lanciata dai collettivi universitari “Yes, we camp”. Un’idea di protesta permanente che trae ispirazione dalla massa di giovani “indignados” spagnoli accampati a Plaza Puerta del Sol a Madrid. «È necessario andare oltre un corteo rituale - si legge nel comunicato di Atenei in rivolta - oltre una semplice sfilata che si concluda a San Giovanni. Vogliamo scendere in piazza per rimanerci, accamparci e porre un problema al potere». Diritto allo studio, casa, lavoro e la rivendicazione di un nuovo protagonismo democratico sono i punti chiave dell’agenda di un movimento eterogeneo per età, professione ed estrazione sociale e frastagliato che non si identifica in una rappresentanza politica partitica.

Senza i grandi numeri che si annunciano per sabato l’embrione della protesta degli indignati italiani nasce verso la fine di maggio sulla scia di un sit-in di un gruppo di ragazzi iberici davanti alla sede romana dell’ambasciata spagnola. «Su Facebook arrivò l’invito a sostenere questa manifestazione - racconta Chiara Franceschini, insegnante precaria trentacinquenne che ha aderito da subito al movimento - e per curiosità siamo andati a vedere di che cosa si trattasse. Eravamo una decina di italiani al Pincio e siamo rimasti colpiti da una protesta nuova per modalità e contenuti. Rispetto al paesaggio italiano immobile abbiamo deciso di muoverci. All’inizio eravamo un gruppo molto ristretto, poi grazie ai social network la realtà si è allargata e ha iniziato a coinvolgere molto persone con Flash mob, volantinaggi e assemblee di quartiere. Vogliamo avere un radicamento nel territorio». La Rete ha costruito un network nazionale, “Italian Revolution”, che ha sedi in molte città.

Qual è l’idea fondamentale che anima il vostro progetto? «Non vogliamo più delegare le scelte che indirizzano i nostri destini. Gruppi di potere piccoli che decidono della vita di tutti». Chi partecipa alle vostre iniziative? «La partecipazione è trasversale: dai ventenni universitari ai sessantenni in pensione. Non esprimiamo solo il disagio sociale delle cosiddette fasce a rischio (migranti, precari, disoccupati). Ci sono anche avvocati, liberi professionisti». Durante alcune manifestazioni ci sono stati momenti di tensione e di scontro come a Bologna. «La non violenza è una nostra prerogativa fondamentale - conclude Chiara - Ci proponiamo di cambiare dal basso un sistema sociale violento e quindi non possiamo utilizzare metodi di protesta violenti». Il centro nevralgico delle attività è a San Giovanni, dove il 10 e l’11 settembre si è tenuto il primo accampamento degli Indignati con un migliaio di partecipanti. A giugno c'è stata invece la prima assemblea con una tre giorni di dibattiti e assemblee in piazza.

“United for global change”. «È arrivato il momento di condividere una protesta globale e non violenta - si legge nel manifesto del movimento - In tutti i continenti le persone si stanno muovendo per chiedere una vera democrazia e rivendicare i propri diritti. Banchieri e politici non ci rappresentano. Uniti in una sola voce faremo sapere alle elite finanziarie e politiche che è la gente a decidere del proprio futuro. Il 15 ottobre ci incontreremo per le strade del mondo per iniziare il cambiamento. È il tempo di stare uniti e farci sentire».

Nel video promo della manifestazione chiamata “Uniti per il cambiamento globale” allo scoccare della mezzanotte del 15 squilla fragorosa una sveglia e scorrono le immagini delle rivolte nelle piazze arabe, le tende dei giovani spagnoli. Saranno 71 i paesi e 719 le città del mondo toccate dalla protesta con il cuore pulsante nel continente americano e in quello europeo. In Africa si concentreranno soprattutto in Sudafrica, mentre i in Asia è l’India, Malesia, Corea del Sud e Filippine. Sulla pagina Facebook si susseguono i post che danno nuovi appuntamenti e raccontano la protesta.

La manifestazione a Roma. Alla piattaforma degli Indignati hanno aderito partiti della sinistra oggi extraparlamentare (SEL, Prc e Sinistra Critica), sindacati di base (Cobas, Cub e Usb), Il Popolo Viola, l’associazionismo (Arci, Legambiente, Gruppo Abele, Flare) e i collettivi universitari. L’appuntamento è fissato per le 14 di sabato a Piazza della Repubblica e il corteo si snoderà per via dei Fori Imperiali, via Manzoni fino a raggiungere piazza San Giovanni. Il mezzo di trasporto principale per raggiungere la Capitale saranno i pullman: da Alessandria a Catania se ne stanno riempiendo a decine. Partenza fissata all’alba di sabato e costo del biglietto che oscilla dai cinque euro da Napoli ai trentacinque andata/ritorno da Milano.

A Bologna sono già in overbooking, mentre a Firenze si applicano sconti a studenti e disoccupati. Ci saranno anche due treni speciali, uno da Torino e l’altro da Livorno. La maggior affluenza di manifestanti è prevista dalle regioni settentrionali e centrali. Il “Coordinamento 15 ottobre” è il motore dell’organizzazione e lancia questo appello: «Ci impegniamo insieme a costruire una manifestazione partecipata, pacifica, inclusiva, plurale e di massa. Il suo obiettivo è favorire la massima inclusione, convergenza, convivenza e cooperazione delle molteplici e plurali forze sociali, reti, energie individuali e collettive che stanno preparando la mobilitazione».

martedì 11 ottobre 2011

Nba, cancellate le prime due settimane di campionato: lontano l'accordo tra proprietari e giocatori

http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=166072&sez=HOME_SPORT

di Gabriele Santoro

ROMA – Ora è ufficiale: dopo mesi di serrati e infruttuosi tentativi di accordo sul rinnovo del contratto collettivo dei giocatori non parte l’Nba. Le ultime sette ore di trattative non sono bastate a superare «il golfo che ci separa», come sintetizza il commissioner Stern, e sono state cancellate le prime cento partite della stagione ai nastri di partenza il primo novembre. Solo per la vendita dei biglietti (17mila la presenza media di persone preventivata) si calcola una perdita di oltre 83 milioni di dollari (il taglio della prestagione ha fatto segnare un rosso da 200 milioni). I giocatori non percepiranno compensi complessivi di 350 milioni di dollari per ogni mese di serrata. Senza dimenticare la ricaduta occupazionale sull’indotto del “circus” Nba dai ristoranti e negozi interni alle arene agli addetti alla sicurezza.

L’annuncio di David Stern, rappresentante dei proprietari. «Sono triste nel comunicarvi che non si disputeranno le prime due settimane del nostro campionato. È l’epilogo che abbiamo cercato di evitare fin dall’inizio. Le parti in causa hanno lavorato duro per avvicinare le posizioni, ma le distanze sono rimaste immutate. La nostra proposta è equa e credo che anche molti giocatori ne siano convinti».

«Eravamo consci che si arrivasse a questa situazione. Qui non si tratta di un problema di dollari, ma dell’intera ristrutturazione del sistema Nba», ha commentato Derek Fisher, play dei Lakers e leader del sindacato. Dietro alle stelle c'è anche la fortissima pressione a non cedere delle agenzie che li rappresentano e trattano i loro ingaggi.

«Tutti aspettano che saremo noi a cedere e che il fronte dei giocatori si possa spaccare al primo o secondo assegno mensile che non arriva. Ma non succederà. Siamo reduci dall’annata più ricca (4.2 miliardi di incassi) e spettacolare della storia Nba e sarebbe una follia uccidere l’intera stagione. Nell’attuale situazione di crisi economica la Lega recupererebbe difficilmente i mancati ricavi», ha detto Billy Hunter, direttore esecutivo dell'associazione dei giocatori.

Il tetto salariale e la spartizione degli introiti sono gli scogli principali su cui si sta arenando la Lega sportiva più globale. Le riunioni fiume del weekend hanno avuto al centro soprattutto la prima questione. I proprietari vogliono tagliare i super ingaggi, aumentare la cosiddetta tassa sul lusso, che punisce le franchigie che sforano il tetto massimo degli ingaggi (nelle intenzioni pari a 62 milioni di dollari), e ridurre la durata massima dei contratti dagli attuali sei e cinque anni a quattro e tre. Sono arrivate alcune aperture sui contratti garantiti e un accordo sembrava vicino sui contratti fissi definiti “mid-level exception” (da 5.8 milioni per anno a 3), ovvero la possibilità per i club di ingaggiare giocatori liberi e di non conteggiare la spesa nel tetto salariale.

Per quanto riguarda la divisione dei ricavi nessuno si è mosso dalle proprie posizioni. I proprietari si sono spinti a offrire il 50% (all’inizio chiedevano alle stelle di scendere dal 57% al 47%), mentre il sindacato dei giocatori ha confermato l’ultima offerta del 53% a 47% in loro favore. In ballo ci sono circa centoventi milioni di differenza per il primo anno dell’accordo collettivo.

Le tappe della vicenda.
L’allarme rosso è scattato ufficialmente il 30 giugno alla scadenza del precedente contratto collettivo con l’annuncio della serrata da parte dei proprietari. Alle franchigie non tornano i conti: perdite totali dichiarate per 300 milioni di dollari e solo 8 squadre con il bilancio in attivo. Durante l’estate non sono stati fatti passi in avanti con il risultato della cancellazione della prestagione. Oggi siamo esattamente nella situazione di tredici anni fa, quando il campionato fu ridotto dalle classiche ottantadue a cinquanta partite, senza alcuna certezza di rivedere a breve Bryant e soci in azione.

mercoledì 5 ottobre 2011

Nba, stop alle trattative: salta la preseason e migrano le stelle

http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=165429&sez=HOME_SPORT

di Gabriele Santoro

ROMA - La riunione chiave, durata oltre cinque ore, per salvare l’ultimo scorcio della prestagione e l’avvio del campionato Nba si è risolta in un nulla di fatto. Le stelle milionarie, da Bryant a Wade, che da giorni sfilano al Waldorf Astoria hotel di Manhattan e i proprietari, rappresentati dal commissioner David Stern, non hanno trovato l’accordo sul come dividere l’immensa torta di ricavi (4 miliardi di dollari per anno) della lega cestistica statunitense. E non è stata fissata una data per la ripresa dei colloqui. L’ultima offerta formulata a sorpresa dai proprietari è stata una spartizione al 50% degli introiti (il precedente accordo collettivo era 57%-43% in favore dei giocatori), ricevendo in risposta un altro no.

In questa momento l’unica certezza è che si tratta di un gioco a perdere per tutti: incassi mancati per le franchigie, giocatori bloccati (non possono allenarsi con i rispettivi staff tecnici e usufruire delle strutture delle squadre, è vietato parlare con gli allenatori della propria squadra, gli stipendi sono congelati) e gli appassionati privati di uno show sportivo che catalizza l’attenzione su scala globale. Secondo le stime dell’Nba solo il taglio della prestagione ha prodotto una perdita tra i 175 e i 200 milioni di dollari, mentre la mancata partenza a novembre produrrebbe un rosso quantificabile in centinaia di milioni.

«Abbiamo mostrato la volontà di trattare - ha spiegato Derek Fisher, presidente dell’associazione giocatori - e ci siamo detti disposti a scendere dal 57% al 53% nella percentuale dei ricavi che ci è dovuta e per la Nba sarebbe un risparmio di un miliardo di dollari in sei anni. La nostra proposta non è stata accettata, al di sotto di quella cifra non possiamo scendere. Siamo consapevoli che questa contrapposizione produrrà un’annata a macchia di leopardo».

L’idea che sostiene la posizione del sindacato giocatori, sotto l’influenza delle potenti agenzie che li rappresentano, è elementare: il nostro talento e l’attitudine allo spettacolo sono il motore di tutti i ricavi e quindi ci spetta la fetta più grossa. Inoltre c'è il timore che la sottoscrizione al ribasso di un accordo a lungo termine li tenga fuori dalla crescita esponenziale che il business Nba può avere nei prossimi anni.

David Stern, memore dei danni prodotti dalla serrata nella stagione 1998/99 quando si giocarono solo 50 partite, con Adam Silver e il proprietario dei San Antonio Spurs ha tentato di calare l’ultimo asso con il concetto di una divisione esattamente a metà del denaro fatturato. Dopo una riflessione in stanze separate delle due parti sull’offerta è arrivata la resa.

«È stata una giornata intensa, ma non abbiamo fatto i progressi che ci attendevamo e le negoziazioni sono state bloccate. Cancelleremo le 43 gare restanti della prestagione e se entro lunedì (praticamente impossibile, ndr) non ci sarà una svolta salteranno le prime due settimane del campionato», ha annunciato Stern. E non è stato neanche affrontato l’altro tema scottante della ristrutturazione del tetto salariale con gli agenti che hanno fatto pressione per non abbassare i livelli massimi con cui sono retribuiti i top player.

Le stelle Nba in Europa. Dopo le seconde linee, ovvero gli atleti senza contratti in essere o garantiti, il prolungarsi della situazione di stallo sta convincendo anche gli uomini copertina dell’Nba a trovare una sistemazione da quest’altra parte dell’oceano. L’ultimo in ordine di tempo è stato il francese Tony Parker che ha ufficializzato il ritorno all’Asvel Villeurbanne, di cui è azionista, pagando di tasca propria il costo dell’assicurazione. Il russo Andrei Kirilenko, bandiera degli Utah Jazz, è tornato alla base, il Cska Mosca, firmando un triennale con Nba escape e devolvendo l’ingaggio in beneficenza. I fratelli Gasol potrebbero iniziare ad allenarsi con il Barcellona in cui sono cresciuti.

La durata della serrata è destinata a cambiare gli equilibri della stessa Eurolega, che diventa la manifestazione più importante grazie all'abbondanza di fuoriclasse. In Italia, dopo l’approdo di Gallinari a Milano e le sirene per Andrea Bargnani, l’attenzione è rivolta all’evolversi dell’affaire Bryant. «Ancora sono indeciso sull’offerta della Virtus. Non è una trattativa semplice, l’attuale stallo mi dà tempo per pensare. Quante possibilità ci sono che venga in Italia? Mica sarete degli scommettitori». Poi la benedizione di Stern, che però mastica amaro. «È un suo diritto andare a cercare altre opportunità, facendo attenzione alla condizione fisica e spero che poi torni presto da noi».

sabato 1 ottobre 2011

Basket, la cinquina di Siena: Cantù battuta nella Supercoppa

http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=165021&sez=HOME_SPORT

di Gabriele Santoro

ROMA - La Bennet Cantù spreca l’occasione, costruita con saggezza per trentotto minuti, di interrompere la dinastia nazionale dell’invincibile Montepaschi Siena. I campioni d’Italia conquistano in volata, 73-70, la quinta Supercoppa italiana consecutiva, la sesta della propria storia, sul collaudatissimo asse lituano Kaukenas (10 punti)-Lavrinovic (25 punti, 7/11 al tiro, 9/9 ai liberi, 8 rimbalzi, 34 di valutazione). Il primo infila a 1’20 dalla fine l’unica, ma decisiva, tripla della sua serata, 69-65. Il secondo è l’anima delle varie rimonte senesi con l’ampio repertorio offensivo che ne da diversi anni a questa parte ne fa il lungo più forte della nostra Lega.

Lo splendido tifo canturino trasforma il Palafiera di Forlì nel Pianella di Cucciago, ma nel momento chiave sul 59-63 al 37’ una banale palla persa su rimessa laterale e un’altra ingenuità riaccendono la Montepaschi versione cannibale. Lavrinovic non perdona dalla lunga distanza, poi le mani veloci di capitan Stonerook lanciano in contropiede Moss per il sorpasso, 66-65. Qualche errore di troppo dalla lunetta dei biancoverdi, 2/4, tiene aperta la sfida fino all’errore di Lightly che fallisce il libero che vale il supplementare, 71-70 a tre secondi dall’epilogo.

Nelle prime due frazioni i canturini toccano il massimo vantaggio al 12’, 12-22, ma la retina è un miraggio per tutti (10/26 dal campo). Mazzarino sigilla la superiorità della Bennet con un 2/2 da3, 32-24 al 20’. Al rientro dall’intervallo lungo la squadra di Trinchieri si pianta in attacco (4/12 in 10’), 0 punti in 4’, e la Montepaschi impatta, 36-36 al 25’. Si prosegue in equilibrio, ma i lombardi non sfruttano mai le inerzie positive (47-55 al 32’) e l’esperienza dei toscani li punisce sul traguardo.

Le due finaliste dell’ultimo scudetto sono un cantiere tecnico aperto e di conseguenza la partita viaggia a intermittenza tra errori (38 palle perse complessivamente) e percentuali al tiro basse soprattutto dalla lunga distanza (7/25 da3). Siena rinuncia al colpo dell’estate, David Andersen, ancora non al meglio della condizione e inizia a scoprire Dajuan Summers. L’ex Pistons dimostra applicazione, esplosività fisica e qualità in attacco, ma deve essere ancora integrato nei sistemi di coach Pianigiani. Bo Mc Calebb (13 punti, 6 falli subiti), dopo lo straordinario Europeo con la Macedonia, è già sontuoso e il suo primo passo non lo tiene nessuno.

Cantù intanto regala un’emozione a tutti gli italiani appassionati di pallacanestro: rivedere Gianluca Basile nei nostri palazzetti. Il “Baso” (6 punti) piazza un paio delle sue triple ignoranti, ma non ha le gambe per reggere a lungo la pressione difensiva del dinamitardo Mc Calebb (7 palle recuperate). Tra i nuovi innesti la scommessa Cinciarini (4 punti, 1 palla persa) manca di personalità, come l’americano Lightly (1/2 al tiro, -2 di valutazione) con un esordio in punta di scarpe. La dirigenza dei brianzoli, dopo aver rinunciato al pivot Parakhouski, deve colmare il buco sotto canestro che può creare danni soprattutto in ottica Eurolega.

A una settimana dal via del campionato si riparte dunque dalle due certezze della scorsa stagione: la fame insaziabile di successi della Montepaschi, la solidità ancora non vincente della diretta inseguitrice Cantù.