lunedì 18 marzo 2013

L'Italia quaggiù, le donne contro l'ndrangheta

Il Messaggero, sezione Cultura & Spettacoli pag. 25, 
18 marzo 2013

di Gabriele Santoro

di Gabriele Santoro

LA DENUNCIA
«Lo so che per la vostra mentalità sto sbagliando, ma voglio avere la possibilità di fare una vita diversa». La giovane Denise racchiude nello spazio di un sms rivolto ai parenti il senso di una ribellione culturale, che nasce dall’anima di una donna coraggiosa quale era sua madre. Lea Garofalo, rompendo con i codici arcaici e maschilisti del potere ‘ndranghetista, ha disegnato un futuro di libertà per la propria figlia e per tutti i figli della Calabria, oppressa dal sistema dei clan alimentato da molteplici connivenze. Una terra aspra e bellissima che nel colpevole disinteresse generale rischia di abdicare a un oblio violento.

L’Italia quaggiù,
 raccontata dal giornalista Goffredo Buccini in un viaggio ricco di incontri, però cerca di muoversi verso un cambiamento faticoso, doloroso e potenzialmente rivoluzionario. Una strada intrapresa da
un gruppo di lucide visionarie che, unendo vissuti e condizioni sociali distanti, non si arrende all’ineluttabilità di un destino d’infelicità. «Sì, io ci spero che la rivolta delle donne possa distruggere i clan. In Calabria è fortissimo il ruolo della donna e, nei valori che trasmettono ai figli, tutto passa attraverso le mamme», confida Maria Carmela Lanzetta.

IMPEGNO POLITICO
La narrazione della sindaca di Monasterace, vittima più volte di atti intimidatori a causa del proprio impegno politico, s’intreccia con altre esperienze (dal lavoro della collega rosarnese Elisabetta Tripodi alla vicenda triste della testimone di giustizia Maria Concetta Cacciola, per arrivare al magistrato di Locri Katy Capitò) e offre le chiavi di lettura del riscatto sognato. Il rispetto delle regole, a partire dalla riscossione delle tasse per i servizi. Un’amministrazione della cosa pubblica efficiente e trasparente. Una scuola che funzioni, perché l’istruzione rappresenta lo strumento fondamentale per aprire le menti e i cuori.

La costruzione di un tessuto economico alternativo
 a quello criminale. Uno Stato che tuteli chi si emancipa attraverso la denuncia lacerante dei delitti di padri, fratelli o mariti, destrutturando famiglie malavitose. Una lotta che non ammette deroghe e affonda le radici nell’esempio di uomini come Peppe Valarioti. «Mi vedono come un simbolo, ma la nostra gente non campa di simboli, qua ci servono strade, scuole, ospedali (…). Vede, se perdiamo a Monasterace, perdiamo tutti assieme. Perdete anche voi, l’Italia è una sola».

mercoledì 6 marzo 2013

Il lavoro nelle carceri italiane: da Torino a Roma le storie di reinserimento sociale



di Gabriele Santoro

ROMA – «
V.S. si muoveva con pesantezza. Le braccia mostravano segni evidenti di ferite da taglio, leggere ma fitte. All’inizio era schiva, mi fissava con l’ira negli occhi e chiedeva alle guardie di essere riportata in cella. Tra tessuti, lane, bottoni e filati ha compiuto il primo passo verso il cambiamento. Non erano solo una distrazione, ma la materia per trasformarsi. Noi abbiamo governato artisticamente i suoi eccessi, lei ha scoperto la propria grazia».

Monica Cristina Gallo, fondatrice dell’associazione culturale La Casa di Pinocchio, comincia così a raccontare l’impresa quotidiana che si sviluppa nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Un laboratorio tessile dietro le sbarre, sostenuto dalla Compagnia San Paolo, in cui la manualità, la capacità di progettare e produrre da materiale riciclato di un gruppo di detenute, regolarmente contrattualizzate e retribuite, ha portato due anni fa alla nascita di Fumne (donne in dialetto piemontese, ndr), un marchio di moda ormai commercializzato nei negozi.
Laboratorio Fumne, Lorusso e Cotugno di Torino
«Siamo rimaste stupite soprattutto dalla loro energia creativa - dice Monica -. Come mi disse una signora: “I vostri capi d'abbigliamento e accessori (borse, sciarpe, collane, bracciali) si distinguono, hanno un’anima”. Il lavoro restituisce un’identità ed educa al rispetto delle regole, stabilendo un ponte con il mondo esterno». Ogni sabato infatti il Fumnelab accoglie donne libere, desiderose di apprendere dalle detenute i rudimenti del mestiere. Disegnano, cuciono e mangiano insieme. Alla fine della giornata si crea sempre un intenso sentimento di condivisione e solidarietà. Le lavorazioni hanno varcato anche i confini nazionali, per essere esposte al Museo delle arti decorative di Parigi.
Nella difficile realtà dei penitenziari italiani, certificata dalla sentenza di condanna per il sovraffollamento emessa dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, esistono delle oasi con numeri ancora piccoli, dove vi sono gli strumenti per attuare con risultati eccellenti il dettato costituzionale di rieducazione del condannato. 
Cooperativa Asom, Milano Bollate
Bollate rappresenta una di queste eccezioni. Nella seconda casa di reclusione milanese, la più grande d’Europa, c’è spazio per una scuderia che ospita diciannove cavalli e offre ai detenuti corsi trimestrali di formazione per riscoprirsi artieri. «L’aspetto preponderante del nostro progetto Asom di riabilitazione, unico al mondo e che contiamo di replicare a Roma, è psicologico - spiega l'ideatore Claudio Villa -. Il cavallo stimola una relazione empatica e affettiva, neutralizzando l’aggressività». 

A Natale lo squisito panettone, sfornato dentro al Due Palazzi di Padova, ha registrato un record di ordini. La pasticceria I Dolci di Giotto
, inserita nelle eccellenze dolciarie italiane dalla rivista Gambero Rosso, costituisce il fiore all’occhiello del Consorzio Rebus, che dal 1990 nell’istituto padovano porta avanti l’integrazione mediante l’occupazione vera. Nelle varie attività (call center, officina meccanica, produzione ceramica) sono impiegati circa 130 detenuti, che arrivano a guadagnare anche novecento euro al mese. «Non pratichiamo assistenzialismo: qui si compete sul mercato con la qualità del manufatto e la professionalità. Abbattiamo sul campo la recidiva: chi impara un’arte raramente torna a delinquere», evidenzia Nicola Boscoletto.

Elton Kalica negli ultimi nove dei quindici anni di detenzione trascorsi al Due Palazzi si è innamorato della scrittura. Quando non era aggrappato alle grate della finestra per riscaldarsi con il sole primaverile «voglioso di abbracciare tutto, compresi noi», riconquistava il tempo nella redazione di Ristretti orizzonti, organo d’informazione carceraria multimediale diffuso dal 1998 su scala nazionale e diretto dalla pasionaria Ornella Favero. Ora da uomo libero, Elton ha scelto di restare a lavorare nel giornale e prestare servizio come volontario nella struttura. 
Artwo a Rebibbia, foto di Massimo Dinonno coperta da Copyright

«Non riuscivo ad allontanarmi da quel posto nemmeno per un giorno. La prima volta è stato come innamorarmi. Prima erano solo partite di carte, discorsi di malavita e litigi per cose banali. Qui c'è invece un quotidiano riappropriarci di quella cultura propria del rispetto delle persone». Il prodotto giornalistico raccoglie storie personali, esigenze e i numerosi incontri organizzati con scrittori, cronisti, ma soprattutto studenti. «Davanti alle loro domande, semplici ma dirette, - spiega Favero - sono costretti a mettersi in gioco, a raccontare storie tremende. Si assumono una responsabilità e soddisfano un bisogno di sincerità».

Il filo che unisce queste esperienze cooperativistiche è la creatività. A Rebibbia si sogna di aprire il primo museo d’arte contemporanea in un carcere. Un’idea visionaria coltivata da Luca Modugno, che da privato cittadino, d’accordo con la direzione del penitenziario romano, ha fatto decollare la declinazione sociale della cooperativa Artwo, che investe nel design ecosostenibile: dalla decontestualizzazione e riuso di scarti industriali prendono vita nuovi oggetti. «Le persone si recuperano, reinventandosi - sottolinea Modugno -. A Rebibbia abbiamo costruito un laboratorio d’incontro tra artisti e detenuti che nascondono talenti. Il processo di creazione instaura uno scambio fecondo».

sabato 2 marzo 2013

Mammarella, l'Italia e la crisi politica della Seconda Repubblica

Il Messaggero, sezione Cultura & Spettacoli pag. 29,
2 marzo 2013

di Gabriele Santoro

di Gabriele Santoro

SAGGI

Il compendio L’Italia di oggi (Il Mulino, 200 pagine, 13 euro) firmato dallo storico Giuseppe Mammarella, docente emerito della Stanford University, racchiude tutte le ragioni della crisi della Seconda Repubblica ed è uno strumento utile a comprendere l’evoluzione attuale dello scenario politico, terremotato dall’eccezionale affermazione elettorale del Movimento 5 Stelle. L’analisi muove i passi dal 1992 per ricostruire un ventennio di occasioni mancate e riforme non realizzate, che avrebbero permesso al Paese di modernizzare l’architettura istituzionale.

Mammarella riannoda le scelte e i fatti che hanno caratterizzato il sostanziale fallimento dei due progetti politici nati sulle macerie della partitocrazia della Prima Repubblica. Da una parte l’eterogeneo centrosinistra, che vanta il merito dell’ingresso nell’Euro, arenatosi in un’opposizione puramente nominalistica a Berlusconi e incapace spesso di proporre un'alternativa convincente, ascoltando le istanze più profonde della società. Dall’altra il centrodestra, trascinato ed egemonizzato della leadership di Silvio Berlusconi, ha tradito le promesse di una rivoluzione liberale ispirata al modello reaganiano dello Stato minimo. Il professore approfondisce anche i motivi e le modalità della discesa in campo del Cavaliere, soffermandosi su un nodo ancora cruciale: lo scontro con la magistratura permanente e condizionante per l’azione governativa.

RECESSIONE
Una doppia eredità negativa che rende fragile il sistema e appesantisce gli esiti di una recessione epocale. Emergono varie analogie con il 1992: a partire dall’incapacità di autoregolamentazione dei partiti e dal dilagare della corruzione. Oggi come allora l’Italia non sembra disporre di ricette per scalfire il debito pubblico, rimasto in vent’anni sempre oltre il livello di guardia e aggravato dalla crescita zero conseguente al progressivo processo di deindustrializzazione. In un clima di reciproca delegittimazione, tratto distintivo di un bipolarismo che non ha assicurato una reale governabilità, e in assenza di dialogo tra gli schieramenti appare ancora quanto mai difficile immaginare la definizione di un quadro di regole condivise. «Le riforme sono il passaggio obbligato al nuovo modello di sviluppo, ma condizioni fondamentali restano il cambiamento della classe politica e la semplificazione dei processi decisionali».