mercoledì 29 maggio 2013

La storia di amore e fede di Alessandra e Manuela accolta dalla Chiesa Valdese

www.ilmessaggero.it/roma/cronaca/la_storia_alessandra_e_manuela_lottiamo_per_il_riconoscimento_delle_nostre_unioni/notizie/285530.shtml

di Gabriele Santoro

ROMA – Dalla piazza alla benedizione in chiesa. Domenica scorsa la quarantasettenne veneziana Alessandra Brussato e la quarantaduenne romana Manuela Vinay hanno vissuto una giornata particolare.Come quella di quattro anni fa quando si conobbero e scattò la scintilla a Roma, durante una manifestazione per i diritti di gay, lesbiche, transessuali e bisessuali. Da allora convivono e si considerano una famiglia. Due storie parallele e un amore che ha trovato accoglienza nella Chiesa Valdese di Piazza Cavour. «Non si è trattato della pantomima di un matrimonio - racconta Manuela -, bensì del semplice riconoscimento all’interno della nostra comunità del cammino spirituale e sentimentale di una coppia. È stata la manifestazione pubblica di una gioia interiore e di diritti civili, che lo Stato italiano ancora non tutela».

Manuela è nata e cresciuta in una famiglia valdese, che dopo il travaglio iniziale ha accettato con serenità la sua omosessualità. «Nel momento della scoperta la chiesa ha rappresentato un rifugio - prosegue Manuela - Il luogo dove mi sono rifugiata per accettarmi ed essere accettata. Ho avuto la fortuna di vivere in prima persona la chiesa come luogo di accoglienza di qualsiasi tipo di diversità. Siamo arrivati alla benedizione di domenica dopo un percorso di fede comune durato due anni».

Alessandra, invece, da cattolica si è avvicinata alla Chiesa valdese: «Dall’età adolescenziale mi sono sentita rifiutata dal cattolicesimo - dice -. Con Manuela ho condiviso l’attivismo politico e individuato una strada per esprimere la mia religiosità». La Chiesa valdese non considera il matrimonio un sacramento, tuttavia celebra un evento fondamentale nella vita dei credenti e dal Sinodo del 2010 ha introdotto questa opportunità anche per le coppie omosessuali. «Io e Alessandra ci abbiamo messo la faccia, uscendo dall’ombra - conclude Manuela - Da molte coppie eterosessuali sentiamo dire: “Ormai il matrimonio lo volete solo voi”. Sì, abbiamo una sete responsabile dei diritti e dei doveri che comporta. Lottiamo per il riconoscimento delle nostre unioni, che non ledono il significato della famiglia tradizionalmente definita».

sabato 25 maggio 2013

L'impatto dei cambiamenti climatici sull'agricoltura: persi tra il 30 e il 50 percento dei raccolti

Il Messaggero, sezione Cronache pag. 16, 
25 maggio 2013

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

IL CASO
ROMA Dalla siccità estrema della scorsa estate alle precipitazioni piovose da record di questa primavera: il clima appare fuori controllo ed è allarme agricoltura. I coltivatori, oltre a contare i danni ingenti alla produzione, stanno affrontando una sfida di sistema visto che poi il problema a cascata riguarderà tutti i settori, dai distributori ai commercianti fino a noi consumatori. Così l’associazione di categoria Coldiretti, che ha calcolato un +24% di pioggia rispetto al maggio 2012, ha chiesto al governo lo stato di calamità. Le perdite infatti dei raccolti sono stimate tra il 30 e il 50% a seconda dei prodotti: 30-35% per i pomodori e l’ortofrutta, in particolare mele, pere, meloni e angurie. Per il riso la perdita è prevista del 30%. E quel che è peggio in molte zone, soprattutto in Lombardia e Veneto, ancora si attende per la semina a causa dei campi divenuti paludi. La semina del mais è in ritardo di due mesi, di un mese la soia, quella della barbabietola da zucchero non è neppure iniziata ed è andato perso l’intero primo sfalcio di foraggio, quello che garantisce il 50% del prodotto alle stalle.

I CEREALI A RISCHIO

Tra le coltivazioni più compromesse c’è il mais, prodotto fondamentale nella filiera zootecnica italiana. «Il calo andrà compensato ovviamente con l’importazione - spiega Rolando Manfredini, Coldiretti - Non possiamo farne a meno, mantenendo l’attuale filiera intensiva». La grandine ha colpito anche gli alberi da frutto, con particolari conseguenze per la frutta di stagione come per esempio le ciliegie. Un crollo della produttività che nei prossimi mesi si rifletterà sui prezzi.

«Per quantificare integralmente i danni dovremo attendere la metà di giugno - sottolinea Mario Salvi, Confagricoltura -. Il clima è impazzito. Subiamo una progressiva tropicalizzazione, mentre le nostre abituali condizioni climatiche si spostano verso Nord. L’elemento più preoccupante è che con questi cambiamenti ci troveremo a combattere fitopatie e parassiti diversi dal passato e dovremo modificare i fattori pregiudicanti della qualità e quantità della produzione. A medio e lungo termine con la ricerca e l’evoluzione dei sistemi produttivi sono processi affrontabili, mentre con l’aumentare di eventi estremi è impossibile intervenire».

LA PASTA

L’evoluzione del clima sta già incidendo sulla geografia delle coltivazioni, con la tendenza a ricercare le aree più ospitali, e sulle dinamiche del mercato agricolo. In questo senso il Cnr ha rilevato come la produzione del frumento duro stia migrando sempre più lontano dal Mediterraneo. Ed è scattato l’allarme: un alimento tipico della nostra dieta come la pasta rischia di diventare prodotto d’importazione? «La resa in zone non tradizionali come il Canada e il settentrione degli Stati Uniti è bassa - precisa Salvi -. Infatti stanno pensando a frumenti duri ogm per adattarli a quei terreni. Dobbiamo puntare sulla qualità e, come sostiene Barilla, continuare a sviluppare varietà di grano adeguate ai diversi climi». La Barilla infatti ha rassicurato tutti: la pasta italiana è al sicuro.

Un’altra sfida determinante per il settore è la gestione di un bene esauribile come l’acqua. Per mitigare l’effetto delle piogge torrenziali occorrerebbe modernizzare i bacini di raccolta. «L’agricoltura dovrà evolversi - conclude Manfredini -. Questo tipo di manifestazioni piovose si disperde e svanisce. Mentre tale disponibilità idrica andrebbe confinata e preservata quando si dovessero ripresentare periodi di siccità. Serve una programmazione dell’acqua».

lunedì 13 maggio 2013

Contesa per un maialino italianissimo a San Salvario, il nuovo giallo multietnico di Lakhous

Il Messaggero, sezione Cultura & Spettacoli pag. 17,
13 maggio 2013

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

A pochi mesi dall’ingresso della Romania in Europa, Torino è scossa da una serie di omicidi di cittadini albanesi e rumeni. Sulla scena irrompe il cronista di nera Enzo Laganà che, senza particolari scrupoli deontologici, offre alla città una chiave di lettura: una faida tra clan che ricalca la guerra di mafia dei corleonesi Riina e Provenzano. E poi è alle prese con un’altra vicenda assai spinosa. Il maialino Gino, tifoso juventino doc, ha gettato lo scompiglio a San Salvario. Chi l’ha portato a passeggio e filmato dentro la moschea del quartiere? Amara Lakhous torna a illuminare con la sua penna leggera e ironica le contraddizioni e sfatare i pregiudizi che ostacolano la nostra capacità di dialogo con lo straniero. Il giallo multietnico Contesa per un maialino italianissimo a San Salvario (Edizioni E/O, 158 pagine, 16.50 euro) racconta frammenti dell’Italia d’oggi, partendo dalle strade di un quartiere che spesso sono lo specchio delle nostre diffidenze ed egoismi.

Lakhous, dopo il successo di “Scontro di civiltà” e “Divorzio islamico a Viale Marconi”, ambientati e radicati nel cuore di Roma, ha deciso di cambiare il suo punto di osservazione sull’Italia e l’immigrazione.

«Due anni fa sono andato a Torino per assecondare le esigenze del personaggio principale del libro. E dopo una settimana con mia moglie abbiamo deciso di trasferirci. Vivo a San Salvario, perché i luoghi sono i veri protagonisti dei miei romanzi. Roma resta il primo grande amore. Anche lì ho messo delle radici profonde, ma mobili, che hanno arricchito il mio percorso».

Perché ha scelto San Salvario?
«È una zona molto particolare, che assorbe strati di varie migrazioni e contiene memorie della città. Uno spazio delimitato tra la stazione Porta Nuova e il parco Del Valentino che non ha smarrito le proprie caratteristiche. Le prostitute mantengono da sempre il proprio marciapiede. E poi si incrociano molti luoghi di preghiera: la sinagoga, moschee e chiese».

Laganà, giornalista sui generis, è il filo conduttore della narrazione e unisce i personaggi nei due piani intersecati della vicenda. Per accontentare la direzione del giornale, inventa di sana pianta un esilarante Riina rumeno e un Buscetta albanese.

«Mi sono accorto che occorre andare oltre lo studio della realtà. Serve affrontare l’immaginario. Spesso la gente è soggiogata da paure senza riscontro o sovrastimate. A San Salvario, come a Piazza Vittorio, ho sentito molte volte l’espressione: “Qui non si può più vivere”. Nel romanzo cerco di ragionare sul ruolo dei media, sulla scelta delle parole, dei titoli che incidono nel costruire rappresentazioni di senso distanti dalla complessità dei fatti».

Il cronista è a sua volta figlio di emigrati. Che cosa l’ha spinta a volgere lo sguardo alla storia delle migrazioni interne?

«A Torino, come nel resto del Nord Italia, l’immigrazione meridionale è ancora una ferita aperta. I calabresi, che arrivarono inseguendo il posto fisso alla Fiat, erano bianchi, cattolici e patirono ugualmente un razzismo e discriminazioni allucinanti. Ricordiamo i cartelli “Non si affitta ai terroni”. È una memoria recente che non andrebbe rimossa, ma elaborata per l’Italia del futuro».

Dal romanzo l’integrazione che rincorriamo però appare un falso mito.

«Avverto una grande confusione su questo tema. In Italia funziona benissimo l’integrazione tra la criminalità locale e quella d’importazione. Mentre gli immigrati che lavorano regolarmente e rappresentano una risorsa importante per il Paese vengono tenuti ai margini della società. Ai loro figli, nati qui, non viene riconosciuta la cittadinanza. Credo nella convivenza in cui ogni cittadino debba prendere e offrire il meglio della propria cultura. Ho rifiutato il maschilismo patologico che caratterizza la mia cultura d’origine e ciò mi avvicina a una questione molto attuale anche in Italia. È la nostra sfida».

L’hanno sorpresa gli attacchi al neoministro Cécile Kyenge? Che cosa pensa del dibattito sullo Ius soli?

«No. Trovo vergognoso il rifiuto aprioristico dello ius soli. Nei quasi vent’anni che ho vissuto qui, ho constatato la profonda fragilità dell’identità italiana. Molti connazionali faticano a riconoscersi negli elementi simbolici unificanti. Italiani non si nasce, si diventa. Non ho ereditato un’identità; l’ho costruita con la lingua in cui scrivo. La lingua è la radice più forte. Il test d’italiano deve essere una prerogativa per la cittadinanza. Ma i ragazzi cinesi di Piazza Vittorio, come i coetanei, già parlano sfumature meravigliose di romanesco».

venerdì 10 maggio 2013

La biografia giornalistica di Arrigo Levi, Gente luoghi e vita

di Gabriele Santoro

ROMA – Una passione che rapisce precocemente e disegna l’esistenza fin dall’età della formazione. Una biografia avventurosa che s’intreccia con la narrazione dei grandi fatti della storia del Novecento. Gente luoghi vita (Aragno, 12 euro, 270 pagine), quinto volume della collana Classici del giornalismo, presenta un’antologia della vastissima produzione giornalistica di Arrigo Levi e ne restituisce la capacità lungimirante di analisi degli eventi; l’incisività delle idee e la cifra stilistica. Un mestiere vissuto come una missione nell’equilibrio richiesto dal ruolo di mediatore per il lettore di realtà assai complesse. Da semplice collaboratore a direttore di testata, Levi ha attraversato le trasformazioni tecnologiche, che hanno cambiato i processi dell’informazione, mantenendo lo spirito di servizio originale.Costretto a scappare dalla natia Modena e a emigrare in Argentina con la famiglia a causa delle leggi fasciste antiebraiche, da esponente del Movimento studentesco subì anche la repressione del regime peronista. Il primo articolo siglato apparve nel maggio del 1944 su Italia libera, giornale degli esuli antifascisti, in cui traspare il legame indissolubile con la madre patria. Dopo l’arruolamento nell’esercito d’Israele per la guerra d’indipendenza (1947-’48) e la laurea in filosofia all’università di Bologna, decollò la carriera giornalistica con l’impiego alla BBC e le corrispondenze londinesi con numerosi quotidiani italiani. 
Poi l’approdo al Corriere della Sera, a Il Giorno e a La Stampa, con l’esperienza televisiva al telegiornale Rai di Fabiano Fabiani. The Times e Newsweek hanno ospitato a lungo i suoi commenti. Da uomo di cultura e profondo conoscitore della geopolitica mondiale ha messo a disposizione, in veste di consigliere, del presidente emerito Carlo Azeglio Ciampi e dell’attuale Capo dello Stato Giorgio Napolitano un patrimonio di saperi e relazioni. 

La miscellanea di editoriali, reportage e inchieste curata da Alberto Sinigaglia ripercorre molti degli eventi dirimenti del Secolo Breve: dalla Guerra Fredda alla vicenda arabo-israeliana. Le corrispondenze, nei giorni successivi all’attentato al presidente John Kennedy, intuiscono il segno indelebile che lascerà quel triennio (1960-'63) per le future conquiste democratiche e di eguaglianza della società americana. Da Mosca raffigura con largo anticipo l’implosione del gigante sovietico arroccato e irriformabile.
Un tratto distintivo che emerge dalla pubblicistica firmata Levi è l’adesione convinta all’utopia europeista. In questo senso l’autore riporta al contempo la lettera rivolta all’euroscettica Margaret Thatcher e l'incontro con Altiero Spinelli: “Il filosofo che ha trovato la sua Repubblica, l’utopista nella stanza dei bottoni”. Durante la direzione (1973-‘78) del quotidiano torinese ha affrontato in prima persona la stagione tetra e dolorosa della lotta armata eversiva. Emoziona l’omaggio al collega e amico, vicedirettore de La Stampa, Carlo Casalegno ucciso dalle Brigate Rosse. Tra gli altri documenti di estremo interesse segnaliamo il colloquio con il pontefice Paolo VI e la corrispondenza del 13 giugno 1980 da Buenos Aires con le madri di Plaza de Mayo che ruppe silenzi distratti e complici.

Il segnalibro, Io e l'Avvocato Agnelli di Mimmo Calopresti



di Gabriele Santoro

ROMA - Una famiglia povera calabrese e la dinastia Agnelli. Due destini uniti dalla Fabbrica Italiana Automobili Torino. Il regista Mimmo Calopresti esordisce con il romanzo autobiografico Io e l’Avvocato, costruendo un dialogo immaginario con il padre Emilio, operaio Fiat emigrato negli anni del boom economico, e Gianni, icona dell’industria novecentesca. Due storie parallele che arrivano a toccarsi e mischiarsi con l’incontro tra i due figli: Mico e il fragile Edoardo. Calopresti racconta le aspirazioni di riscatto sociale mediante il lavoro alla catena di montaggio, la rottura generazionale della contestazione studentesca e lo smarrimento identitario che ha accompagnato l’automatizzazione progressiva dei processi industriali. Ed esplora in un corpo a corpo l’ascesa e le cadute della famiglia più influente d’Italia.