martedì 31 dicembre 2013

In fuga dal Senato, dopo il no dell'Auditorium Conciliazione, approda al Sistina: Dario Fo racconta l'impegno di Franca Rame

Il Messaggero, sezione Tutta Roma Agenda pag. 46,
31 dicembre 2013

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

TEATRO
Dopo il gran rifiuto dell’Auditorium Conciliazione, Dario Fo tornerà in scena a Roma il 20 gennaio, al Teatro Sistina, con In fuga dal Senato; spettacolo che restituisce il senso dell’impegno politico di Franca Rame.

Lo scorso 31 ottobre una lettera del Premio Nobel aprì le polemiche con la Santa Sede, proprietaria dell’Auditorium: «Il cambiamento della Chiesa, conseguente all’elezione di Papa Francesco, è frenato soprattutto dall’interno. Un caso macroscopico è il divieto della rappresentazione dell'opera teatrale basata sul libro (In fuga dal Senato, Chiarelettere) di Franca Rame». A stretto giro la risposta della direzione della struttura: «L’evento non è stato annullato o censurato. Stavamo decidendo quali attività svolgere - spiegò Valerio Toniolo, amministratore delegato del Conciliazione - e non è stata data una conferma sulla spettacolo di Fo, perché le nostre scelte di programmazione erano altre».

Appena appresa la notizia Massimo Romeo Piparo, neodirettore del Sistina, si è mosso per offrire una casa alla rappresentazione. «Fo è un patrimonio dell’umanità - dice Piparo - e non si possono chiudere le porte a un artista del genere. Ha accettato subito la nostra offerta. Vogliamo tornare in prima linea: la mia missione è di restituire a questo teatro i fasti di una volta. Il no dell’Auditorium? È difficile parlare di una scelta artistica, piuttosto economica». Perché? «Ci ha imposto, come in tutti i teatri in cui è arrivata la tournée, un prezzo popolare per il biglietto d’ingresso: dieci euro. Un costo così basso può diventare un problema. Ma sono disposto a perdere un po’ di soldi per l’immagine e l’importanza della serata».

DAL LIBRO
Il libro postumo In fuga dal Senato narra la presenza, scomoda, di Franca Rame in parlamento dal 2006 al 2008, eletta nelle file dell’Idv di Antonio Di Pietro. Una donna di cultura che ha provato a portare nel Palazzo le proprie battaglie, dal pacifismo alla lotta per le condizioni e i diritti dei detenuti, scontrandosi con le dinamiche del potere, fino a rassegnare le sofferte dimissioni. Fo riannoda i ricordi di un’esistenza ricca, dolorosa e combattiva dalla parte degli ultimi, condivisa con la compagna e l’amore di una vita. Non mancherà la naturalezza del racconto della dimensione privata, poi in realtà non semplicemente scindibile da quella pubblica e dalla tensione morale ai bisogni del paese reale.

«Sarà una testimonianza diretta e forte; tutt’altro che morbida, irriverente nel registro di Fo - conclude Piparo -. Il ricordo della vita intensa di Franca è l’occasione per affrontare un nodo centrale per l’Italia: il rapporto tra cultura e politica. L’invadenza di quest’ultima, nel teatro pubblico, è evidente con i risultati che conosciamo. C’è troppa politica nella cultura. Ci mancano il coraggio e l’impegno civile di un’artista come Franca Rame: le sue rotture, i suoi no e l’essere sé stessa fuori dalle convenienze».


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domenica 15 dicembre 2013

La via italiana al cricket: la sfida del cosmopolitismo parte da Roma

Il Messaggero, sezione Macro pag. 21,
15 dicembre 2013

di Gabriele Santoro



di Gabriele Santoro

IL FENOMENO
Alfonso Jayarajah l’aveva detto agli amici inglesi, scettici: «Gli italiani sono troppo impazienti per il cricket? Vedrete, impareranno a giocarlo e ad amarlo». Lui, insieme al presidente della Federcricket Simone Gambino, è il pioniere nel nostro Paese di uno sport elitario diventato cosmopolita. Il gioco affonda le radici nei valori del puritanesimo dell’Inghilterra vittoriana, appassionando oggi tre miliardi di esseri umani. E continua a diffondersi nel villaggio globale, attraverso le rotte dell’emigrazione. L’essenza del gioco ha contagiato anche il Belpaese. Un piccolo boom denso di storie, raccolte nel libro Italian cricket club (Add editore, 183 pagine, 14 euro), che fotografano la complessità dei fenomeni migratori, e parlano al presente e al futuro dell’Italia. Gli azzurri e le azzurre con la pelle scura sono campioni d’Europa.

Nella penisola il cricket arrivò a fine Ottocento. E rinacque nel secondo dopoguerra nello spazio verde della romana Villa Doria Pamphilj, dove si incontrarono ambasciatori, cardinali, nobiluomini e immigrati delle ex colonie britanniche amanti del cricket; tra i quali Jayarajah. Nel 1968, ventunenne, aspirante ingegnere, approdò con una borsa di studio all’Università La Sapienza. Pensava di tornare in Sri Lanka; Roma, invece, non l’ha più lasciata. Ha costruito una famiglia con Franca. Ha lavorato come consulente finanziario per i progetti della Fao.

LABORATORIO SOCIALE
Non ha mai tradito la passione per il pitch: «Dall’inizio ci siamo posti una sfida culturale: trovare la via italiana al cricket - spiega Jayarajah - Questa disciplina è un laboratorio sociale. Dal 1978, quando fondammo all’ippodromo il Capannelle Club, ci siamo sempre rifiutati di assemblare formazioni monoetniche. Nella squadra convivono tante lingue e culture, creando una comunità complessa. La diffusione non dipende semplicemente dall’immigrazione o dall'importazione selettiva di talenti. Lavoriamo sul territorio, coinvolgendo migranti e ragazzi di seconda generazione».

Roma rappresenta tuttora un epicentro di questa crescita illuminata: il Capannelle Club è campione d’Italia e conta sessanta tesserati; un numero che sale costantemente. L’avviamento e il reclutamento parte dalle scuole. All’attività della massima serie si affianca quella spontanea di base. Nei parchi il nostro sguardo curioso si posa sempre più spesso su pitch improvvisati, dove si affrontano indiani, pachistani, srilankesi e italiani. E quella nuova generazione di italiani che attende di essere accolta.

L’APPRODO A SCUOLA
A Piazza Vittorio, nel cuore multietnico della Capitale, è nato un esperimento, che funziona e attrae ragazzi di molti quartieri: dall’Eur a Torpignattara. «Dal 2007 siamo aumentati esponenzialmente, aprendo la sezione cricket nel circuito Uisp - racconta Edoardo Gallo, uno dei due allenatori del Piazza Vittorio Cricket Club - Questo sport abbatte le barriere; propizia il dialogo. L’abbiamo insegnato a scuola: un’esperienza meravigliosa alla Pisacane, a Torpignattara, dove il 90% dei bambini è di origine straniera».

Il diciottenne Fernando Cittadini, studente del liceo Machiavelli, è cresciuto nella piazza disegnata da Gaetano Koch. «Prima mi ha incuriosito vedere molti compagni di classe cimentarsi per strada con uno sport estraneo alla nostra tradizione. Poi mi sono appassionato, e sono entrato a far parte di un gruppo speciale. Il cricket ha un linguaggio universale. È rigido, complesso e spettacolare». La struttura classica richiede tempi lunghissimi: cinque giorni per una partita; tanto impensabili per lo show-business, quanto accattivanti per i risvolti psicologici della competizione. Il formato, che rivoluziona i dettami tecnici della disciplina e ha creato un sistema mondiale, televisivamente commercializzabile, si esaurisce in tre ore.

ARBITRO INTOCCABILE
La pallina da battere viaggia anche a centosessanta chilometri orari: il gioco diventa esplosivo, aggressivo, consumabile, producendo ricchi guadagni. Il codice di comportamento non ha smarrito lo spirito puritano originario di compostezza e sportività. L’arbitro è intoccabile: a fine contesa si celebra il rito rugbistico del terzo tempo. Il cricket compie il miracolo dell’apertura mentale al diverso: alla conversazione nel senso di coesistenza. Pone la sfida del cosmopolitismo: sentirsi legati alle proprie radici, senza dimenticare di appartenere a una comunità più ampia: l’umanità.

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sabato 14 dicembre 2013

Magazzino 18, il teatro civile di Simone Cristicchi: «Un viaggio nella memoria dell'esodo istriano»

Il Messaggero, sezione Tutta Roma Agenda pag. 57,
14 dicembre 2013

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

L’INTERVISTA
«Da quella volta non l'ho rivista più, cosa sarà della mia città. / Non so perché stasera penso a te, strada fiorita della gioventù. / È troppo tardi per ritornare ormai, nessuno più mi riconoscerà», cantava il profugo polese Sergio Endrigo, raffigurando la tragedia degli italiani d’Istria, Dalmazia e Venezia Giulia privati, dopo la Seconda Guerra Mondiale, della terra madre e stranieri in patria. Una storia scomoda e complessa che Simone Cristicchi porterà in scena da martedì a domenica al Teatro Sala Umberto. Magazzino 18: un monologo, con la regia di Antonio Calenda, in cui si incontrano il teatro civile e la musica del cantautore romano.

Perché ha scelto di far partire il viaggio della memoria da un luogo evocativo come il Magazzino 18 al Porto Vecchio di Trieste?
«È un luogo pieno di oggetti personali che restituisce la lacerazione interiore provocata dalla diaspora, conseguenza diretta della carneficina delle Foibe e delle condizioni del Trattato di Parigi del 1947. Interpreto l’archivista ministeriale Persichetti, che incaricato di stilare l’inventario del magazzino svela un giacimento di ferite mai rimarginate. Il personaggio, con i tratti della romanità di Alberto Sordi e Aldo Fabrizi, da italiano medio scopre e coinvolge gli spettatori in un dramma rimosso dalla coscienza nazionale».

Le cause dell’oblio furono molteplici. A partire dall'interesse occidentale di non disturbare Tito, funzionale in chiave antisovietica. Lei ha scelto di mettere da parte la politica per raccontare le storie individuali?
«Lo spettacolo rappresenta un omaggio a centinaia di migliaia di persone che sono state dimenticate. Metto al centro il dolore di comunità di cui troviamo traccia in quasi ogni città italiana. A Trieste, e nelle altre città del Nordest, in cui è arrivata la tournée sono stato travolto dall’emozione che accomuna diverse generazioni. I profughi, costretti ad abbandonare le proprie case dopo la cessione dei territori alla Jugoslavia di Tito, hanno pagato il prezzo più alto nel periodo postbellico».

Crede si riesca a liberare la storiografia dalle paradossali strumentalizzazioni ideologiche e dalle amnesie, rendendola patrimonio condiviso del Paese?
«Sui fronti politici estremi, tanto a destra quanto a sinistra, si manifestano ancora sacche di resistenza. Ma è giunto il tempo di costruire una visione comune. Il vero j’accuse dello spettacolo è nei confronti dell’Italia: si critica la colpevole damnatio memoriae di Stato sulla vicenda. Gli esuli erano fascisti e antifascisti: più semplicemente italiani dei quali si prevedeva la rimozione senza distinzioni. Qualcosa di più della rappresaglia o vendetta per i misfatti nazifascisti in terra jugoslava. L’esodo istriano è stato uno sradicamento culturale mai più ricomposto».


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