domenica 14 dicembre 2014

Paolo Maurensig: «Riscopriamo il rapporto con la natura e gli animali»

Il Messaggero, sezione Cultura pag. 28,
14 dicembre 2014

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

L’INTERVISTA
Lo scrittore goriziano, di respiro mitteleuropeo, Paolo Maurensig torna in libreria con un'autobiografia sui generis e una notizia da lui a lungo attesa. Il suo romanzo di maggior successo prenderà vita sul grande schermo con una produzione hollywoodiana. Colin Firth dovrebbe essere il protagonista della pellicola ispirata al libro La variante di Lüneburg.

Amori miei e altri animali (Giunti, 160 pagine, 14 euro) è un racconto lungo, che pesca dalla memoria dell’autore aneddoti e curiosità, nelle quali non è difficile immedesimarsi, sul rapporto tra l'uomo e l'animale domestico. Maurensig conserva il proprio stile leggero e raffinato. Il testo propone soprattutto una suggestione di fondo: stiamo rovinando l’equilibrio con l’ambiente. Nella sua visione la riconsiderazione della relazione con i compagni di viaggio a quattro zampe, oltre all’aspetto emotivo, ci aiuterebbe a ritrovare una giusta cognizione della natura, del tempo e del gioco.

Come si è sentito nei panni, per lei inediti, del narratore in prima persona?

«In questo diario ho raccontato me stesso, dall’infanzia in poi, rievocando gli animali che ho avuto accanto e che hanno influito nella mia vita. Nell'epoca della comunicazione totale, che spesso è indistinto rumore, i loro silenzi attivano uno scambio riflessivo. Fra gli esseri umani la comunicazione è frammentaria e condizionata da troppi fattori. Agli animali ci lega un filo non lacerabile di empatia e compassione».

La musica e gli scacchi sono stati il corpus preponderante della sua letteratura. Stavolta perché la natura?
«Appare sempre più evidente il nostro progressivo distacco dalla natura, alla quale ci riporta il legame con l'animale, da cui possiamo imparare molto. Ogni specie, estinta o in via di estinzione, è come l'ideogramma di una stele che, invece di essere riportata delicatamente alla luce con un pennello di setola, viene frantumata. E quando distruggiamo una specie vivente, o anche un suo solo esemplare, ci mettiamo nelle condizioni di rendere sempre più oscuro il significato di quel testo primordiale in cui è racchiuso l'enigma stesso dell’esistenza dell’uomo».

Nelle sue opere il gioco e il tempo sono dimensioni narrative fondamentali, che indaga con costanza.
«Il gioco ci distrae, permettendoci di entrare in un’altra dimensione della vita. È l'antidoto alla morte stessa. Quanto tempo sprechiamo rimuginando sul passato e a costruire castelli di sabbia sul futuro? Finiamo col dimenticarci che l'unico ad appartenerci è il presente, mentre il resto è immerso in uno stato onirico. Gli animali domestici portano il metro della nostra vita. Non sappiamo nulla della loro percezione temporale. Vivono nell’immanenza, la trascendenza non li riguarda: hanno il privilegio di restare in una sorta di eterno presente».

Il bellissimo incipit de
La variante di Lüneburg condensa tutto il fascino umano degli scacchi. L'avvento dell’informatica sta togliendo qualcosa?

«Ai livelli massimi il ricorso al computer, per analizzare soprattutto le aperture, è ormai necessario. Ma dopo le prime dieci, quindici, mosse i giocatori entrano in una terra di nessuno, dove bisogna lavorare con la propria testa. Rimane un gioco appassionante, in cui l'elemento psicologico è determinante. Gli scacchi hanno un grande futuro».

Nella trasposizione cinematografica teme di veder svanire la ricchezza psicologica dei personaggi del romanzo?

«Aspettavo da vent’anni questo momento. Finalmente siamo arrivati alla meta. Mi rende felice il poter contribuire alla stesura della sceneggiatura, consigliando e influenzando quelle che saranno le scelte. Ci sono tutte le condizioni, affinché sia un bel film: una produzione da Oscar. Certamente si perderà molto del libro, ma conto si realizzi un’opera di valore dai dialoghi alla colonna sonora».


© RIPRODUZIONE RISERVATA  

giovedì 11 dicembre 2014

Spike Lee: «Negli Usa cresce la rabbia, battiamoci contro il razzismo. Un film sulla rivolta»

Il Messaggero, sezione Cultura&Spettacoli pag. 1-27,
11 dicembre 2014

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

L’INTERVISTA
A chi gli domanda per quale squadra di calcio faccia il tifo, Spike Lee risponde a propria volta con un'interrogazione: «Chi ha dipinto e a quale epoca risalgano gli affreschi di Palazzo Barberini?». Ieri, ospite della nona edizione della rassegna Il gioco serio dell'arte curata da Massimiliano Finazzer Flory, ha incontrato il pubblico romano, prima di godersi un rapido tour italiano all'insegna dello sport. Prima allo stadio Olimpico per la Champions League: «D'abitudine parteggio per il Manchester United, dunque una ragione in più per sostenere la Roma». Il suo nuovo film Sweet Blood Of Jesus parlerà di persone dipendenti dal sangue pur non essendo vampiri, «un'allegoria». Ma l'occasione è propizia per cercare di capire con il regista di Malcolm X che cosa stia avvenendo Oltreoceano, dove cresce il subbuglio per il susseguirsi di casi di uccisione di giovani afroamericani da parte della polizia.

Nei mesi scorsi, all'indomani della morte di Eric Garner, lei ha montato un breve video, che sovrappone le immagini di questo omicidio con quelle girate per Fa' la cosa giusta (1989), in cui l'afroamericano Radio Raheem viene strangolato con il manganello da un poliziotto. Trent'anni sono trascorsi invano?
«Qualcosa è cambiato, qualcos'altro evidentemente no. Nella relazione tra le forze di polizia e gli afroamericani, o le comunità ispaniche e asiatiche, permane un antico, odioso, retaggio violento. È deprimente che dopo venticinque anni su questo fronte non siano stati compiuti progressi significativi».

Lunedì Obama, nel corso di un'intervista al canale Black Entertainment Television, ha ammesso che il razzismo sia una malapianta ancora profondamente radicata nella società statunitense. Ha invitato i giovani a perseverare nella lotta contro la discriminazione, rinunciando alla violenza. Si ripropone il bivio che divise il reverendo King da Malcom X?
«In America molte persone sono arrabbiate. E mi piace affermare, senza paura di essere smentito, che non si tratta solo dei neri. Quand'è che prevarrà la giustizia? Se gli Stati Uniti suppongono di essere il faro mondiale dei sistemi democratici ciò non è ammissibile. Già le scelte politiche e militari post 11 settembre hanno messo molte presunte certezze in discussione. Non è il momento di riproporre quello schema. Il presidente Obama ha detto che si può e deve manifestare pacificamente. Non è di nessuna utilità alla causa appiccare il fuoco nel tuo quartiere o al vicinato. E non posso che essere d'accordo con lui. Posso aggiungere una cosa?»

Prego.
«L'interpretazione di Denzel Washington nel biopic Malcom X è stata una delle migliori nella storia del cinema. Avrebbe dovuto vincere l'Oscar. Lo ricordi».

Le manifestazioni possono contribuire al cambiamento?
«I gruppi di protesta, che hanno fatto il giro delle televisioni nel mondo, sono assai trasversali e compositi. Sono nutriti e uniti dal sentimento di incomprensione e rabbia verso l'amministrazione della giustizia, nello specifico nella figura del Grand jury. Non mi arrogo il ruolo di portavoce di nessuno, ma ho preso parte alle proteste a Staten Island. Sono sceso in strada con la mia bicicletta, e mi ha colpito l'energia vitale di quel movimento. Insomma i giovani credono ancora nel futuro».

Le decisioni dei Grand jury di Missouri e New York di non incriminare i responsabili delle morti di Michael Brown ed Eric Garner ci dicono che lo Stato, come altrove, rinuncia a giudicare se stesso?
«La mancata incriminazione dei poliziotti è un atto grave. Il legame del Grand jury con la polizia è promiscuo, tale che non lavorino duro, andando fino in fondo per la ricerca della verità. A comandare è la polizia, che non viene messa in stato d'accusa. In questi casi la giurisdizione dovrebbe passare a procuratori speciali, che garantiscano di essere sopra le parti».

Lei immagina di raccontare questa rivolta nella veste di documentarista?
«Molti mi chiedono di farlo. E ci sto seriamente pensando».

Lo sport nel cinema è spesso il pretesto per narrare altro. Nel suo He got game il basket divenne metafora di libertà, emancipazione e perfino redenzione. L'invasività nello sport della diretta televisiva e del suo linguaggio sta sottraendo le possibilità del cinema?
«No. Non intravedo questo rischio. Da sempre ho utilizzato diversi mezzi per rappresentare la mia disciplina preferita e non solo. Il cinema e lo sport moderno nacquero insieme. Nella declinazione dei diversi generi cinematografici offre ancora opportunità narrative».

È uscito recentemente un suo documentario dedicato al coach leggendario Phil Jackson, da qualche mese manager plenipotenziario dei suoi amati New York Knicks. Riuscirà a risollevarne le sorti?
«Domanda terribile. Prego affinché riesca in una missione quasi impossibile. Mi manca il vostro giocatore più forte, Gallinari, passato a Denver».


© RIPRODUZIONE RISERVATA  

domenica 7 dicembre 2014

Orologi atomici mai così precisa la misurazione del tempo

Il Messaggero, sezione Macro pag. 1-20,
7 dicembre 2014

di Gabriele Santoro



di Gabriele Santoro

LA SCOPERTA

«Entro tre o quattro anni saremo in grado di ridefinire a livello globale la misurazione del secondo. In laboratorio applichiamo già, con gli orologi atomici d'ultima generazione, sviluppati anche da noi, la nuova misura del tempo universale. Ora dobbiamo riuscire a rendere questi oggetti riproducibili, in modo da uniformare lo standard», annuncia Massimo Inguscio, presidente dell'Istituto Nazionale di Metrologia. Il consesso per la ratifica della convenzione sarà la Conferenza Internazionale Pesi e Misure, che si riunisce con cadenza quadriennale.

SPETTROSCOPIA
Il professore, ordinario di fisica della materia e direttore del Laboratorio europeo di spettroscopia non lineare, evita il termine rivoluzione. Preferisce usare l'espressione «progressi drammatici», per evidenziare l'impatto crescente degli studi metrologici. Nel convegno torinese, che ha appena celebrato gli ottant'anni dell'Inrim, è apparsa ormai matura la possibilità d'introdurre un più preciso calcolo del secondo. Il margine di errore è equivalente a un secondo sul tempo di tutta la vita dell'universo.

L'unità non sarà più registrata con l'orologio all'atomo di cesio, che assicurava la precisione di un milionesimo di miliardesimo di secondo, ma dall'atomo itterbio, arrivando al miliardesimo di miliardesimo. La misura della luce, elemento chiave per i metrologi, che pilota questi orologi atomici ottici, accresce dunque di cento volte la puntualità.

IL RUOLO DELLA GRAVITÀ

Non si potranno prevedere ancora i terremoti, però rileveremo con maggiore accuratezza le deformazioni della crosta terrestre, gli stress e le tensioni che l'agitano. Il tempo diventa così determinato dalla nostra capacità di seguire l'evolvere della gravità terrestre, e studiare il turbamento provocato dagli effetti gravitazionali, che ritardano o accelerano l'orologio. In altre parole sono strumenti tanto sensibili agli effetti previsti dalla legge della relatività generale da percepire un tempo diverso anche fra dislivelli minimi di altezza. Sarà più esatta la localizzazione Gps, grazie all'evoluzione degli orologi atomici a bordo dei satelliti. Miglioreranno i sistemi di comunicazione wireless. Potremo verificare leggi fondamentali della natura e disporre di maggiore precisione nella fisica fondamentale.

LUCE INFRAROSSA
Questi battiti di tempo tremendamente precisi viaggiano, e sempre più viaggeranno, a cavallo della luce infrarossa su una fibra ottica dai laboratori dell'Inrim. «Il nostro sogno è di unificare l'Italia, mettendola in sintonia col tempo in fibra - racconta Inguscio -. Per ora siamo collegati con i laboratori a Milano, Bologna e Firenze, ma sarà molto importante raggiungere Matera e la Sicilia. Il passaggio in fibra in un tunnel sotto le Alpi ci aprirà all'Europa. Sarà bellissimo unirsi agli altri istituti di metrologia europei. Immaginiamo la ricaduta di un tempo assoluto, uguale poi in tutto il mondo, sugli scambi commerciali e finanziari».

LA BORSA

Un esempio pratico? «Il segnale di tempo con le fibre lo mandiamo anche nei distretti finanziari. Gli inglesi lo fanno già con la City, dove le compravendite di azioni e titoli si giocano su una risoluzione temporale di millisecondi. Nel pianeta globalizzato e iperconnesso è risolutiva la sincronizzazione del flusso delle informazioni, grazie a orologi che «ticchettano» al miliardesimo di secondo».

CONTARE GLI ATOMI

Nella due giorni torinese, alla quale hanno partecipato i premi Nobel per la fisica David Wineland (2012) e William Phillips (1997), è stata affrontata anche la questione della riconsiderazione prossima del chilogrammo. Questa unità di misura di massa di platino-iridio, conservata a Sèvres presso l'Ufficio Internazionale dei pesi e delle misure, potrà essere riprodotta da ogni laboratorio nazionale, che realizzerà il proprio campione di chilo basandosi su parametri unici. La ridefinizione deriverà dal contare gli atomi contenuti in una sfera di silicio, utilizzando il numero di Avogrado. Ma c’è dell’altro.

Le frontiere della ricerca metrologica evolvono anche di pari passo con lo sviluppo delle nanotecnologie, i cui riflessi sono decisivi sulla produzione farmacologica. La metrologia della chimica, e della nanochimica, mira ai processi produttivi delle nanoparticelle. E per l'efficacia del farmaco, e soprattutto per evitare danni sull'essere umano, la dimensione delle nanoparticelle deve essere quanto più standardizzata.

L’ITALIA

L'avanguardia italiana nel settore emerge nell'elaborazione di sistemi per la sicurezza alimentare. Sono state sviluppate tecniche molte raffinate per la tracciabilità e la valutazione della qualità degli alimenti. L'Ue ha di recente approvato un programma Inrim per la misurazione dell'umidità nei cibi. La quantità di quest'ultima incide fortemente sul grado nutritivo e la digeribilità del prodotto.
«La metrologia è una scienza lenta. La nostra rivoluzione consiste nello spingerci fino all'esattezza massima dei campioni noti del tempo, della lunghezza e delle altre unità fondamentali. Misurare significa conoscere. E gli standard assoluti innovativi, che validiamo, saranno riferimento indispensabile per l'organizzazione del mondo e la produttività», conclude Inguscio.


© RIPRODUZIONE RISERVATA  

venerdì 28 novembre 2014

L'Italia che nega se stessa. Intervista ad Amara Lakhous


di Gabriele Santoro

«Guarda che cosa ti mostro». Il collegamento Skype è iniziato da qualche minuto, quando Amara Lakhous comincia ad aprire la corrispondenza. Il postino gli ha appena consegnato il codice fiscale statunitense. «Vedi, l'immigrazione è una questione di documenti, di numeri che identificano. Ma comporta soprattutto un cambiamento mentale profondo. E sono nel pieno di un processo generativo», dice. Lo scrittore italianissimo d'Algeri si è trasferito a New York tre mesi fa, e sta portando la propria letteratura nei principali atenei, dalla Columbia alla Stony Brook.

Chi lo conosce non si sorprende. Lakhous è uscito dal ventre della madre prima con i piedi: aveva urgenza di venire al mondo e di camminarlo. I suoi romanzi coprono la distanza minima, quel lembo di acqua salata che separa la vecchia Europa dall'Africa. La qualità della scrittura libera dalle catene identitarie, che ci portano alla rovina. Da qualche settimana è in libreria La zingarata della verginella di Via Ormea (E/O, 155 pagine, 16 euro), che mantiene il consueto registro lakhousiano tra commedia e giallo. Come nel precedente romanzo l'azione è ambientata a Torino. Il cronista di nera Enzo Laganà è alle prese con un fattaccio: un'adolescente nel quartiere multietnico di San Salvario sostiene di essere stata violentata da due rom.

La denuncia scatena la rappresaglia di un comitato di quartiere, che assale il vicino campo rom al parco del Valentino. È tutto davvero come appare? Laganà, discostandosi dalla linea editoriale, interroga l'ipocrisia che sovente affligge il Belpaese. Il coraggio di Patrizia (o Drabarimos?), l'altro personaggio centrale, rievoca quello di Amedeo, che abbiamo ammirato inScontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio. La loro essenza dà voce a un'Italia possibile.

Lakhous, davanti agli studenti della Cornell University ha pronunciato una frase molto significativa: «Ogni emigrazione è una nascita, ogni nascita è un’emigrazione». Allora questa è la sua terza vita. Perché ha deciso di rinascere negli Stati Uniti?
«Vivo di sfide, e considero questa americana come la più complessa che abbia mai affrontato. È un paese particolare. New York una città particolarissima, propriamente cosmopolita, che mi ha già conquistato. L'immigrazione per me è una risorsa letteraria. Il trasferimento non è una scelta esotica, programmata a tavolino, per individuare magari il luogo ideale per il prossimo romanzo. Per fortuna non funziona così. Le prime settimane newyorchesi sono volate via con un intenso e stimolante ciclo di lezioni universitarie».

L’immigrazione e la contaminazione linguistica resteranno il cuore del suo progetto letterario?
«Sul dialogo fra lingue ho costruito la mia narrativa. La scrittura, e forse la mia stessa esistenza, sono il risultato del plurilinguismo. Ogni lingua è una patria priva di confini artificiali e permessi di soggiorno da rinnovare. Mi affascinano i mestieri del traduttore e del mediatore. Definirei la traduzione il viaggio da una riva all'altra, durante il quale ti arricchisci di idee, immagini e metafore. Probabilmente se non fossi nato berbero ad Algeri, ma in Cabilia, racconterei un'altra storia. Benedico l'emigrazione, perché simboleggia l'alternativa al mare chiuso. Ti spinge a riflettere sulla tua identità. La mia è un mosaico di tessere assemblate in contesti diversi. Direi che si tratta di una fusione a caldo fondata sul dono e sulla reciprocità».

Possiamo aspettarci un romanzo in inglese?
«Lavoro a un testo sull’Algeria. Riprendo dunque l’arabo, ma certamente continuerò a scrivere in italiano. A breve verrà pubblicato in berbero Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio. Sarebbe meraviglioso riuscire ad aggiungere l'inglese: è il mio sogno americano. Diverrei un musulmano inappuntabile: quattro lingue come se fossi sposato con altrettante mogli».

La lettura de La zingarata della verginella di via Ormea dà la sensazione della chiusura del ciclo inaugurato da Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio.
«Non so se abbia esaurito o meno lo spazio creativo per ulteriori approfondimenti sul tema. Fui sollecitato da una piccola intuizione o meglio da una domanda: come può l’Italia disconoscere, così dissipando, la propria straordinaria esperienza migratoria? Ho studiato per esempio la presenza italiana in Romania, ancora meno nota di quella negli Stati Uniti. A fine Ottocento si spostarono in massa dal Veneto e dal Friuli le fasce più povere di lavoratori. Provocarono tensioni, perché erano accusati di accettare impieghi per poche lire rispetto alla paga abituale. Li soprannominarono i cinesi d’Europa. Ma anche quella interna scivola nell’oblio: chi ricorda le migrazioni dei minatori veneti e abruzzesi a Carbonia? E potrei proseguire. Perché da ciò non si trae consapevolezza, elaborando politiche di buon senso almeno sull’accoglienza?»

Il suo primo incontro con i rom è stato reale o immaginato?
«Da bambino vissi in una casa popolare, edificata vicino a un grande ospedale. Mia madre andava lì a piedi, partoriva e rientrava. Ultimo di nove figli, ho goduto di una libertà pazzesca. Per esercitare una forma di controllo i familiari ci inculcarono una leggenda paesana, bisbigliata dall'ospedale e destinata a imprimersi nel mio immaginario infantile. Una madre, in attesa di essere visitata, affidò il figlio a un'anziana, poiché aveva necessità del bagno. Una volta tornata non li ritrovò. Dissero che era una zingarata. Mediante l'immaginazione ho vissuto e rivissuto quella storia. Ho covato la paura per il rom, come succede a tanti. Nel destino comune del Mediterraneo, oltre alle speranze, ci legano le paure».

Lei si sottrae all’asfittica divisione tra buoni e cattivi. Piuttosto raffigura una condizione che descrive qualcosa di noi.
«Ho deciso di affrontare l'argomento, perché credo sia uno dei razzismi più antichi e radicati. I rom: il sempiterno e perfetto capro espiatorio del diffuso malessere sociale. Si parla ancora di nomadi, quando a Torino ho incontrato sinti piemontesissimi stanziali dal medioevo. Al fondo di un pregiudizio plurisecolare permane un irrisolto sradicamento economico-culturale. La vita marginale nei campi, abusivi e non, incentiva la devianza. Lo sforzo per abbattere questo muro deve essere compiuto anche dalle nuove generazioni rom, a partire dall'integrazione scolastica. Ci indigniamo giustamente per l'odioso furto del portafogli, mentre reprimiamo la rabbia verso le banche, che indisturbate speculano o bruciano i risparmi delle persone oneste. Restituiamo la giusta misura alle cose. Ai criminali, siano essi rom o meno, dovrebbe pensare la legge, possibilmente senza prescrizioni, sanatorie e condoni».

Il giornalista Laganà è il personaggio filo conduttore della narrazione. Un Monteiro Rossi alla ricerca della riscossa del Pereira tabucchiano. Rappresenta l'eccezione che delinea una distorsione funzionale operata dai media?
«In Algeria ho visto cadere assassinati amici e colleghi giornalisti. Anch'io ricevetti minacce e ho rischiato quella fine. Non dimentico le parole con le quali Said Mekbel, importante cronista algerino, descrisse il mestiere. Lo uccisero il 3 dicembre 1994. Proprio quel giorno su Le Matin aveva firmato questo articolo:

“Questo ladro che la notte rasenta i muri per rientrare a casa. Questo padre che raccomanda ai propri figli di non dire agli altri il mestiere che svolge. Questo cattivo cittadino che si attarda al palazzo di giustizia, aspettando di essere inquisito dai giudici. Questo individuo catturato in una retata nel quartiere e che il calcio di un fucile spinge in fondo al camion. Colui che la mattina esce di casa senza essere sicuro di farvi ritorno. Colui che la sera lascia la redazione senza essere sicuro di giungere a casa. Questo vagabondo che non sa più quale casa sia la più sicura. Questo testimone che spesso deve ingoiare ciò che sa. Questo cittadino nudo e disarmato. Quest'uomo che ha fatto il voto per non morire trucidato. Colui che con le proprie mani non sa fare altro che i propri piccoli scritti. Colui che spera contro tutto, perché possano sbocciare belle rose su un mucchio di letame. Lui è tutto questo ed è solamente un giornalista”.

Laganà con un tocco di rabbia e ironia tenta di disarticolare la gerarchia, che dispone il ciclo produttivo dell'informazione. Lo sguardo che propongo è evidentemente disilluso. Per avere una stampa matura, e di qualità, ritengo indispensabile essere cittadini esigenti. La vicenda è ancorata a un fatto avvenuto. Nel dicembre del 2011 un quotidiano nazionale titolò: «Mette in fuga i due rom che violentano sua sorella». La sedicenne poi confessò di aver inventato lo stupro. Nel frattempo giustizieri improvvisati avevano appiccato il fuoco nel campo rom torinese della Continassa. E mi colpì la rettifica giornalistica, Il titolo sbagliato:

“ (…) Ieri, nel titolo dell’articolo che raccontava lo «stupro» delle Vallette abbiamo scritto: «Mette in fuga i due rom che violentano sua sorella». Un titolo che non lasciava spazio ad altre possibilità, né sui fatti né soprattutto sulla provenienza etnica degli «stupratori». Probabilmente non avremmo mai scritto: mette in fuga due «torinesi», due «astigiani», due «romani», due «finlandesi». Ma sui «rom» siamo scivolati in un titolo razzista. Senza volerlo, certo, ma pur sempre razzista. Un titolo di cui oggi, a verità emersa, vogliamo chiedere scusa. Ai nostri lettori e soprattutto a noi stessi”.

Esiste l’Italia? E se sì, quale idea ne coltiviamo? Queste due domande ricorrono nelle sue opere.
Si sofferma, come sottolineava in precedenza, sulla storia negata dell’emigrazione italiana.
«L'immigrazione è una sfida bellissima, ma bisogna essere attrezzati per giocarla. L’Italia non lo è. Nei due anni trascorsi a Torino ho compreso quanto la questione meridionale sia ancora una ferita fresca. È necessario fare pace con la memoria e con la ricchezza incredibile delle diversità che contraddistinguono il Paese. Non credo sia una provocazione ammettere che gli italiani debbano ancora integrarsi fra di loro. Il fenomeno della balcanizzazione è un contagio pericoloso».

L'Italia è accogliente verso lo straniero?
«Se l'emergenza costituisce l'unico principio proattivo, non dobbiamo stupirci che l'istituto dell'accoglienza qui assomigli alla gestione di una discarica di umanità sofferente. E in quartieri già privati di servizi e risorse culturali nessuno vuole le discariche vicino casa. Tutto grava sulle spalle degli operatori, spesso generosi. La strumentalizzazione politica è figlia di un deficit culturale storicizzato, che si traduce anzitutto nell'incapacità di comprendere e governare la complessità».

In Divorzio all’islamica a viale Marconi la sua penna ironica ci appassionò con le traversie dell'esule Garibaldi, imbarcatosi a Marsiglia sotto il falso nome di Joseph Pane e riparato a Tunisi per sfuggire alla condanna a morte per insurrezione emessa dal tribunale di Genova. Il povero è colui che la società ritiene insignificante, colui che non ha il diritto di avere diritti. Chi è invece il rifugiato?
«È un essere umano, che attraversa una fase piuttosto delicata della propria vita. La paura è il sentimento che accompagna la fuga dalla persecuzione o dalla guerra. A metà degli anni Novanta ottenni lo status di rifugiato politico: conosco bene tale condizione d'animo. La vicenda di Garibaldi ci rammenta che la ruota gira. Domani potrebbe toccare a noi dover scappare, desiderando un approdo sicuro. La Siria, per anni terra di tregua per i profughi palestinesi, insegna».

Il modello del multiculturalismo, entrato nell’immaginario collettivo dagli anni Sessanta in Nord-America, scricchiola? Insomma il “Tutti differenti, tutti uguali” non è più una risposta soddisfacente sul piano etico e politico al fine della convivenza civile?
«Dall’approccio multiculturalista non si fa retromarcia. È però vero che si frappongono molteplici ostacoli alla concretizzazione di un idealtipo. Farei una premessa, citando Norberto Bobbio a proposito di eguaglianza e libertà:

“(...) Nelle società storiche gli individui non sono mai tutti liberi né eguali fra loro. La società di liberi ed eguali è uno stato ideale o ipotetico, soltanto immaginato. La democrazia è, non tanto una società di liberi e di eguali, perché come ho detto questa è solo un ideale limite ma è una società regolata in modo che gli individui che la compongono sono più liberi ed eguali che in qualsiasi altra forma di convivenza. In una situazione originaria, in cui tutti ignorano quale sarà la propria posizione nella società futura, l'unico ideale che può loro sorridere è quello di essere il più possibile liberi rispetto a chi detiene il potere e il più possibile eguali fra di loro”.

Presupponendo dunque due valori non negoziabili, quali la libertà e il rispetto della dignità umana, possiamo poi cercare un terreno fertile condiviso, andando oltre la semplice presa d’atto delle differenze. Solo dalla relazione interculturale, basata sul riconoscimento, sullo scambio e sul dono si evitano la relativizzazione e la dinamica dello scontro».

Le hanno già domandato qualcosa a proposito di Isis e Islam?

«Stavolta cedo il turno, già nel post 11 settembre lo sforzo è stato enorme. Si propaga una fuorviante, plastica, generalizzazione. Sono stanco, non difenderò l'Islam dalla palesemente infondata appropriazione simbolica attuata dall'Isis. Ciò che mi appare più urgente è il ripensamento della laicità statuale. Uno Stato laico capace di valorizzare ciò che vi è di umano fra le diverse identità culturali. L'adesione di miliziani occidentali al totalitarismo di stampo fascista dell'Isis chiama in causa tutti. Entriamo nella sfera della politica, in un teatro dove il quadro, utile a molti, è assai opaco. Per dirla con le parole del generale prussiano Carl von Clausewitz siamo impantanati nella guerra che è la continuazione della politica con altri mezzi. L'eredità dei grandi imperi collassati non ha stabilito un nuovo ordine, bensì atomizzato i conflitti».

L’inchiesta sociale, condotta anche mediante splendide fotografie, di Pierre Bourdieu nell’Algeria della transizione anni Cinquanta e Sessanta del Novecento è un’eredità preziosa. La periferia dell'impero sembra convergere sempre più verso un centro politicamente disarmato. Il colonialismo europeo è tuttora paradigmatico del nostro rapporto con l'altro?

«Mio padre avvertì tutto il peso della colonizzazione, sollevato durante la lotta di liberazione dall'illusione di un futuro migliore. Il regime coloniale ridusse gli algerini a corpi senza diritti. Il prezzo stabilito dalla Francia dei diritti universalistici per la piena cittadinanza fu il ripudio dell'identità culturale musulmana. I coloni s'impossessarono dei terreni più fertili, terremotando gli equilibri della la società rurale. La teoria e la pratica capitalistica europea, imposte con brutalità, frantumarono il sistema dei valori arabi producendo l'alienazione del mondo contadino, trasformato in sottoproletariato e ammassato nelle crescenti bidonville urbane. La generazione di mio padre ha convissuto con il miraggio dell'indipendenza, portatrice di un plausibile cambiamento nei tradizionali rapporti di forza interni ed esterni. Occorreva affrancarsi dall'ingiustizia di cui il colonialismo è stato la massima espressione. Il francese se n'è apparentemente andato, ma l'oppressione è rimasta. L'emigrazione era percepita come un esilio momentaneo, al quale si era costretti. Oggi invece partire è il sogno più grande: la prospettiva dei giovani che abitano l'immaginario della globalizzazione».

domenica 23 novembre 2014

C'erano bei cani ma molto seri: storia di mio fratello Giovanni Spampinato

Il Messaggero, sezione Cultura pag. 20,
23 novembre 2014

di Gabriele Santoro



di Gabriele Santoro

Giovanni Spampinato non era un abusivo, seppure il tesserino di pubblicista l'abbiano consegnato solo ai familiari, una volta morto ammazzato. Amava il mestiere, osservandone la regola fondamentale: scrivere una notizia, quando è tale, senza l'autocensura propria dei calcoli d'opportunità. «Assassinato perché cercava la verità», titolò L'Ora. Il fratello Alberto inizia da una vecchia fotografia a raccontare la storia dolorosa della famiglia, che ha cercato di sopravvivere alla tragedia. C'erano bei cani ma molto seri (Melampo, 276 pagine, 15 euro) è qualcosa di più della cronaca della fine, quasi annunciata, di un giovane cronista in una città di provincia, apparentemente ai confini dell'impero.

L'ALTRO GIORNALE
Il memoriale sviluppa tre tracce fondamentali. Innanzitutto ritroviamo il senso dell'avventura editoriale del quotidiano pomeridiano palermitano, animato da un gruppo di giornalisti non riconducibili a poteri particolari. «Giovanni restò incantato da quella redazione che viveva una stagione speciale. Il suo sogno fu di trasferirsi a Palermo per lavorare con quei matti che si divertivano a fare un giornale di denuncia duro come una roccia», ricorda Alberto.

LA SOLITUDINE
Un desiderio che si impose pezzo su pezzo dopo gli studi universitari. Un cammino solitario, cominciato nel 1969, da collaboratore di frontiera, isolato e privo di tutele economiche quanto di coperture redazionali. Figlio di un partigiano, poi divenuto militante attivo del Pci, mantenne quella matrice politica, sapendo però rifuggire l'ortodossia dell'adesione acritica. Aveva puntato tutto sul giornalismo, Giovanni. Lottava affinché si avverasse quel sogno. Dotato di una scrittura fluida e brillante, batteva veloce i polpastrelli sui tasti della Valentina rosso fuoco. Le sue corrispondenze squarciarono il velo della commistione politico affaristica, propria delle mafie, a Ragusa e non solo dove si coagularono personaggi e miasmi dell'eversione fascista.

SICILIA NERA
«Il grande tema con il quale il cronista fu chiamato a confrontarsi fu quello del fascismo che risorgeva intorno a lui. In tutta la Sicilia, e in gran parte del Mezzogiorno, il fascismo era rimasto endemico. Di faccende più serie riguardanti ai fascisti cominciò a occuparsi dopo la strage di Piazza Fontana, chiedendosi se ci fosse un disegno unico che collegava la strage di Milano e gli strani movimenti dei circoli fascisti siciliani», sostiene Alberto. Un cadavere eccellente scosse Ragusa, appena destatasi dall'illusione petrolifera. La divulgazione della notizia dei pesanti sospetti degli investigatori su Roberto Campria, figlio del presidente del Tribunale ragusano, nell'ambito delle indagini inerenti l'omicidio del costruttore Angelo Tumino, legato a missini di stretto raccordo con Junio Valerio Borghese, segnò lo spartiacque dell'esistenza di Spampinato.

Volle accendere una luce su un'inchiesta mica male insabbiata e un palese conflitto di interessi. Firmò sull'Ora: «Le indagini a quattro mesi dal delitto sono al punto di partenza. Sembra impossibile che la macchina della giustizia, altre volte così efficiente, si sia inceppata in questo caso. Ad accrescere gli interrogativi è poi la delicata situazione in cui è venuto a trovarsi Roberto Campria, figlio di Salvatore, presidente del Tribunale e oggetto di una relazione della Commissione parlamentare antimafia, all'inizio interrogato per chiarire circostanze poco comprensibili», e che sono rimaste misteriose. Lo fece con la propria penna coraggiosa, fino a pagarne l'estrema conseguenza. Il 27 ottobre 1972 venne crivellato di colpi di pistola dallo stesso giovane Campria.

MEMORIA
Sappiamo bene quanto fatichino i familiari delle vittime della mafia, come gli Spampinato, a esternare pubblicamente vicende e ferite che spesso in assenza di giustizia scivolano nell'oblio. A volte possono servire anche decenni per rompere il silenzio luttuoso. Almeno citare con costanza ad alta voce i loro nomi e cognomi è un esercizio di civiltà necessario.


© RIPRODUZIONE RISERVATA  

sabato 15 novembre 2014

Fiori di campo, il villaggio per un turismo sostenibile nel nome di Peppino Impastato

Il Messaggero, sezione Macro pag. 29,
13 novembre 2014

di Gabriele Santoro

di Gabriele Santoro

«Questa è la terra di Peppino Impastato», dice Francesco Costantino. Siamo a Marina di Cinisi, a trecento metri dal mare. Qui la deturpazione del cemento mafioso prova ad assomigliare a un ricordo lontano. Dove il costruttore Vincenzo Piazza riciclava mediante l'edilizia il denaro sporco dei fratelli Graviano, sta nascendo un villaggio turistico a impatto ambientale zero, destinato a fornire un servizio di qualità alle fasce di popolazione più disagiate. Un luogo prezioso in cui da tre anni ogni estate si rifà l'Italia unita. Da giugno a settembre, grazie al progetto E-state liberi, arrivano da tutte le latitudini giovani volontari dalla faccia pulita per rammendare un bene diventato comune.

Su una parete della villa, confiscata nel 1993, Elena ha inciso il profilo di Peppino con in mano il microfono della coraggiosa emittente Radio Aut, da dove, prima di essere ammazzato, per dirla con le parole di Paolo Borsellino faceva risuonare la bellezza del fresco profumo di libertà. «Io vedo Peppino in ognuno di voi», risponde il fratello Giovanni Impastato. Il riutilizzo con finalità sociali delle proprietà o aziende sottratte alla criminalità organizzata restituisce la misura della credibilità dello Stato. Come ripete Raffaele Cantone, lo Stato si gioca la faccia in questa partita. Le statistiche non sono confortevoli: troppi ostacoli, a cominciare dalle ipoteche bancarie, si frappongono alla riconversione e alla rinascita di quei beni.

La storia del villaggio Fiori di campo, titolo di una poesia struggente dedicata a Peppino, offre l'istantanea di questi ritardi. Per quasi vent'anni è rimasto abbandonato in un regime di semi illegalità. Malgrado fosse sotto sequestro veniva affittato da ignoti per il periodo estivo. Paradossalmente la presenza abitativa illegale ha consentito di non trovare il bene vandalizzato, come invece spesso avviene. Nel 2012 arriva la svolta, quando la cooperativa Libera-Mente, di cui Costantino è socio fondatore, ha vinto il primo bando d'assegnazione indetto dal Comune di Cinisi. Da allora tra investimenti dei cinque soci e l'impegno volontaristico la struttura è stata parzialmente rinnovata e ammodernata. «Ho calcolato, già per il primo anno, un impatto della manodopera volontaria del valore di 70mila euro - sottolinea Francesco -. Le migliaia di giovani sono ripartiti da qui con il cuore pieno dell'energia propria del riscatto. Non ci hanno dimenticato».

La strada da percorrere è ancora lunga e difficoltosa. Una delle sfide da vincere è quella di non far percepire queste esperienze come un corpo estraneo al tessuto socioeconomico locale. Sovente si crea un clima di ostilità attorno a pratiche che rappresentano una rottura dirompente per il sistema malavitoso. Il cancello di Fiori di campo è aperto a tutti. Si cercano costantemente di coinvolgere le realtà sane del territorio. Tra le collaborazioni fondamentali spicca quella con la Casa della memoria Felicia e Peppino Impastato. Il villaggio appartiene a chiunque voglia scrivere una storia nuova per la Sicilia e l'Italia intera.

La cooperativa, referente locale di Libera, alla logica del profitto a qualsiasi costo, del business senza scrupoli, contrappone i principi di un’economia sociale che tutela l’ambiente. «Questo è il valore aggiunto dei nostri servizi e prodotti come il limoncello di Partinico - conclude Costantino -. Vogliamo alimentare un'economia pulita che non paga il pizzo, che restituisce dignità al lavoro. Al territorio stiamo dicendo che si può fare diversamente, senza assuefarsi al giogo dell'illegalità. Non ci sentiamo piccoli, in quanto siamo parte integrante di una rete. Il rischio e la paura si avvertono, però sappiamo di non essere soli».


© RIPRODUZIONE RISERVATA  

giovedì 13 novembre 2014

Greenrail, la ferrovia ecologica del futuro è una start up siciliana

Il Messaggero, sezione Macro pag. 29,
13 novembre 2014

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

Il palermitano Giovanni Maria De Lisi ha quasi trent'anni. Formatosi nell'azienda di famiglia, è il socio fondatore di Greenrail. Una start-up sorta nel 2012 che attira molto interesse, e intende irrompere a breve nel mercato delle ferrovie grazie alla progettazione di una traversa ferroviaria, ottenuta da pneumatici e plastica riciclati. È composta da un guscio esterno, costituito dalla miscela dei due materiali, mentre la struttura interna è in calcestruzzo armato.

Un chilometro di linea prevede il riutilizzo di circa cento tonnellate di pneumatici e plastica. L’integrazione del sistema piezoelettrico Built-In nella traversa genera energia per effetto del naturale schiacciamento che subisce la sovrastruttura al passaggio dei convogli. Il brevetto Greenrail è stato già depositato e mira a divenire lo standard mondiale del settore.

In un quadro regionale di depressione economica, voi sembrate andare contro corrente. Indicate un'opzione alternativa all'industrializzazione anni Cinquanta-Sessanta delle cattedrali nel deserto al Sud?
«La desertificazione industriale in Italia dipende essenzialmente dal fatto che si è puntato pochissimo sull'innovazione. L'industria rimane molto legata alla tradizione, mentre andrebbero reinventate le aziende per immettere prodotti sempre più innovativi e adeguati ai tempi. Fino a quando gli industriali non cominceranno a capire che bisogna investire in ricerca, continueremo a essere scavalcati dalla concorrenza. Sì, la nostra iniziativa imprenditoriale rappresenta una rottura dinamica».

Incontrate difficoltà nell'accesso al credito? Avvertite la cappa delle mafie ben delineata dal governatore Visco? Fanno fuggire gli investitori internazionali: tra il 2006 e il 2012 l'Italia ha perso almeno 16 miliardi.
«Va molto di moda parlare di start-up, ma poi in concreto gli strumenti che agevolano l'intrapresa sono insufficienti. Abbiamo partecipato e vinto sette, otto, concorsi che mettevano in palio premi in denaro. Ma tutto si ferma all'aspetto mediatico. Avere fondi per start-up appare ancora molto difficile. Altro che Fondo di garanzia o banche che ti finanziano. Se non metti qualche garanzia a tua firma come socio non avviene niente. Senza contratti commerciali firmati che assicurano un rientro, non si attivano linee di credito. L'investimento spesso dipende dalla disponibilità del risparmio familiare. O se  sei in grado di convincere una persona illuminata. Rincorriamo la Silicon Valley, dimenticandoci la nostra potenziale eccellenza industriale».

Quanto incidono le prospettive di internazionalizzazione dell'attività?
«Oggi siamo nella fase prototipazione. La cosa bella è l'ampio riconoscimento della valenza internazionale del progetto. Esistono già contratti preliminari e sono in corso trattative con paesi esteri: dalla Gran Bretagna al Giappone. La produzione si realizzerà in ogni mercato dove noi penetriamo: in due anni dovremmo essere operativi. Avremo un'industria in ciascun paese, perché la logistica per questi prodotti sarebbe altamente dispendiosa».

È distante il sogno della prima linea ferroviaria eco-sostenibile in Italia?
«Non dipende da noi, e non saprei dare un parametro. Sicuramente la prima linea Greenrail verrà posata all'estero, perché altrove abbiamo già trovato interlocutori fattivi».

L'emergenza inquinamento invoca sempre più il modello di economia circolare del riuso e riciclo.
«Oggi i prodotti devono rispondere a criteri di sostenibilità ambientale. La nostra scommessa consiste nell'averne ideato uno che è anche economicamente competitivo. Da materie riciclate creiamo una traversa ferroviaria, che ha delle caratteristiche tecniche superiori all'attuale competitor che le fabbrica in calcestruzzo. Dopo cinquant'anni d'utilizzo è a sua volta riciclabile. Abbattiamo fino al 50% i costi di manutenzione della linea lungo la durata in opera».


© RIPRODUZIONE RISERVATA  

sabato 1 novembre 2014

L'amore criminale

di Gabriele Santoro

Nella televisione, che spesso lucra sul dolore, Matilde D'Errico con la trasmissione Amore criminale ha saputo ritagliare, su Raitre, uno spazio di civiltà e reale servizio pubblico. Quell'esperienza di ascolto e denuncia sociale catodica, oggi è condensata nelle pagine di un libro, dall'omonimo titolo, pubblicato da Einaudi. Un'idea arcaica di possesso e controllo è il filo nero che unisce le storie di violenza sulle donne in quanto tali, narrate dall'autrice.

La scrittura mostra un profondo senso di rispetto per le vittime e soprattutto per le ferite non cicatrizzabili di chi resta, dei familiari che cercano di sopravvivere all'assenza. Il femminicidio, termine polisemico che esprime la forma estrema di violenza di genere, non viene derubricato a mero fatto di polizia e giustizia. Non è neppure solo questione di statistica, che comunque serve, perché nei grandi numeri e negli strepitii dell'emergenza scompaiono le individualità. Corriamo il rischio dell'assuefazione all'indicibile, ai silenzi che condannano.

Trascorrono le giornate, ma riecheggiano sempre vivide le parole rivolte alla madre dall'iraniana Reyhaneh Jabbari prima dell'impiccagione: «Ho capito che la bellezza non è fatta per questi tempi. La bellezza dell’aspetto, la bellezza dei pensieri e dei desideri, la bella calligrafia, la bellezza degli occhi e di una visione, e persino la bellezza di una voce piacevole». Maria Rosaria, Adriana, Sabrina, Beatrice, Veronica e Giulia hanno incontrato uomini incapaci di comprendere la bellezza propria della libertà, spingendosi fino all'assassinio dell'altrui individualità. D'Errico però saggiamente invita a non considerare il crimine un evento che riguarda solo il carnefice e la vittima. È una lotta dura e ancora lunga tra inconciliabili visioni culturali del mondo.

Due studi recenti e autorevoli, prodotti dall'Unione Europea e dal World Economic Forum, lo testimoniano, fotografando la preoccupante realtà del Vecchio Continente e focalizzando aspetti dirimenti del divario di genere in Italia. Il Global Gender Gap Index 2014, diffuso dall'Istituto ginevrino, allarga lo spettro d'analisi sul problema strutturale, e correlato, della discriminazione. L'Italia, ultimo tra i paesi industrializzati, si posiziona nella classifica delle disparità al 69° posto su 142 nazioni prese in esame. Non basterà forse un secolo per colmarlo. Piombiamo dal 97° al 114° per la presenza di donne in campo economico.

Il vasto rapporto Violence against women, curato dall'Agenzia per i Diritti Fondamentali di Vienna, stima che nei dodici mesi precedenti alle interviste, condotte ai fini della rilevazione, tredici milioni di donne in Europa abbiano subito violenze psicologiche, e circa quattro milioni fisiche. Del campione di 42mila intervistate, tra i 15 e i 70 anni, solo il 4% dichiara di aver sporto denuncia alle autorità competenti. Il 35% dichiara di aver patito abusi prima della maggiore età. D'Errico sottolinea la trasversalità sociale, professionale e culturale di un fenomeno ancora molto sommerso, e i dati confermano: il 75% delle top manager e il 74% delle professioniste interpellate dice di essere stata vessata da molestie.

«La violenza è una scelta, non impulso irrefrenabile che si manifesta all'improvviso. Gli uomini violenti demoliscono giorno dopo giorno la dignità e l'autostima delle donne che hanno accanto. La chiamata in causa è per tutti», conclude la regista.

giovedì 30 ottobre 2014

«Chi spezza er pane dell'istruzione». Intervista a Eraldo Affinati


di Gabriele Santoro


La scuola d'italiano per migranti Penny Wirton, che ha trovato la nuova sede romana presso l’Acrobax, è il luogo ideale dove incontrare Eraldo Affinati. I figli dell'emigrazione arrivano lì da tutta la città per prendere in mano libri e penna. Lo scrittore e i tanti volontari, che animano la struttura, riescono ad attirare l'attenzione di fanciulli esuberanti, fiori di campo sradicati dalla propria terra, e la lezione può cominciare.

Il vulcano interiore di questi adolescenti feriti costituisce il corpus della letteratura di Affinati. Nel romanzo Vita di Vita (Mondadori, 168 pagine, 16 euro) si spinge fino in Gambia per non tradire la necessità del proprio studente Khaliq, che intende ritrovare la relazione primigenia con la madre. «A professo', che cce vai a ffà! Lì so' tutti negri e so' pure poveracci!», incalza Kenan, alunno congolese di Acilia. 

Nel viaggio il professore mette in gioco anche il proprio vissuto, fa i conti con la memoria quale opportunità di conoscenza. Rivela nell'atto concreto e vitale della scrittura le motivazioni che l’hanno avvicinato al mestiere. Nel testo, come osserva l'autore, si rimescolano paternità, maternità, libero arbitrio, pedagogia, bene e male, i sogni perduti e rinati nella voglia di esistere e resistere di Khaliq. Il profugo, originario della Sierra Leone, oggi è diventato un eccellente barista. La strada polverosa non ha scalfito la sua innocenza. «Vita compra vita, vita costa troppo, vita bela, no devi butare via», dice il giovane.


Affinati, questo romanzo, che trae valore dall'essenzialità, è una promessa mantenuta. Ha portato a ulteriore maturazione la sua esigenza letteraria e sociale di autenticità, di ricerca delle radici. Ci presenta Khaliq?
«L'avevo incontrato sui banchi di scuola, alla Città dei Ragazzi. Quando leggevo Jack London in classe, lui alzava i suoi occhioni grandi, stupefatto nel sentire le avventure del cane Buck. A un certo punto mi disse: "Porof, quel cane sono io! Però non ho conosciuto i ghiacci dell’Alaska, ma la sabbia del deserto!" Siamo diventati amici, come può esserlo chi, come me, è figlio di due orfani e fa l’insegnante e chi, come lui, fu costretto ad abbandonare sua madre a soli sette anni e del padre conserva soltanto un debole ricordo. Veniva dalla Sierra Leone. Era sopravvissuto a esperienze estreme. Stava imparando l’italiano. Non sapeva se sua madre fosse ancora viva. Decidemmo insieme che, se lui l’avesse ritrovata, io sarei andato a conoscerla. E così è stato».

Lei stravolge le regole della scena dialettica. Reinventa la distanza pedagogica maestro-allievo. È un equilibrio che, tra successi e sconfitte, chiede di essere costruito e decostruito di volta in volta?
«Credo sia proprio così. Ogni rapporto umano è un evento nuovo, perché entrano in gioco le nostre sensibilità. Storie che non appartengono soltanto a noi stessi, ma di cui noi siamo il frutto. In particolare nell'incontro fra maestro e allievo viene chiamata in causa la tradizione culturale, il senso che dobbiamo attribuire al passato. È come se tutta la storia umana tornasse a rivivere ogni volta che un professore parla coi suoi scolari. Si attraversano mondi: prati fioriti e paludi infestate».

I registri linguistici adottati e la struttura del testo ci consentono di entrare con intimo rispetto nell'esistenza complessa dei suoi studenti.

«In questo romanzo ce ne sono tre: la lingua sporca di Khaliq, il dialetto romanesco dei miei alunni italiani che mi telefonavano durante il viaggio africano e la lingua, diciamo letteraria, alla quale affido il diario e la riflessione. Era una scelta obbligata, perché non avrei mai potuto trasformare la potenza del racconto orale di Khaliq in un belletto, in una cosmesi. Dovevo lasciare il suo resoconto così come lui me lo aveva consegnato: alla medesima stregua di un diamante grezzo».

Già in passato si era preso la briga di narrare la spaventosa libertà degli orfani. In Vita di vita intravediamo un esplicito atto di denuncia della condizione dell'infanzia contemporanea, a cominciare da quella delle migliaia dei giovani migranti in fuga. L'indignazione consapevole per le iniquità non è dunque passata di moda?
«Hemingway diceva che la campana del morto suona sempre per tutti noi. Di fronte a quello che sta succedendo nel Mar Mediterraneo è difficile non sentirsi coinvolti. Per un Khaliq che è riuscito non solo a salvarsi, ma a capire il senso di quello che gli è accaduto, quanti ragazzi, morti lungo il cammino, distrattamente dimentichiamo?»
Via Tasso, le Fosse Ardeatine: la Roma resistente e il Novecento penetrano nella pelle di Khaliq e degli altri. Quale legame, tra il disagio dei ragazzi di allora e di oggi, saldano le lettere dal fronte e dalle prigioni nazifasciste che ha scelto di inserire nella narrazione?
«L’insegnante protagonista del romanzo, prima di partire per il viaggio in Gambia, insieme a lui e a Gerry, l’amico avvocato che si era prodigato per ritrovare la madre del ragazzo, aveva assegnato ai suoi scolari italiani una serie di letture sui giovani martiri della Prima e della Seconda guerra mondiale: adolescenti morti per la causa della democrazia. Queste lettere tornano come un refrain durante l’avventura africana: secoli di gioventù, per usare un altro mio titolo. Gli scolari, secondo le intenzioni del loro insegnante, sarebbero dovuti andare da soli alle Fosse Ardeatine (e a via Tasso, alla stazione Tiburtina). Ma loro aspettano che lui torni dall'Africa. E così ci vanno tutti insieme, compreso Khaliq. Come se il cielo sopra l’ingiustizia, la morte, ma anche la voglia di riscatto delle nuove generazioni, fosse sempre lo stesso».
Ha mai avvertito il rischio di raffigurare la consueta Africa con il cappello in mano?
«Ho cercato di superare gli stereotipi, concentrando lo sguardo sui dettagli, senza visioni precostituite».
La destinazione del viaggio per entrambi i protagonisti si vivifica nella scrittura?
«Sì, rappresenta la stazione finale di tutti i miei viaggi. Soltanto scrivendo si dà senso all'esperienza. E questa penso sia anche la ragione profonda per cui Khaliq ha voluto che andassi in Africa: per rendere vera la sua vita. Ai suoi occhi dovevo essere colui che ripristina la fede nella realtà nell'unico modo possibile: raccontando ad altri ciò che gli era capitato. Scrivere è certificare la verità. Apporre il timbro di conferma. I giovani, non è la prima volta che lo scopro, sono molto più tradizionalisti dei loro padri. Vogliono certezze. Hanno bisogno di punti saldi. Altrimenti non potrebbero andare avanti».
La bestemmia di Santino ricorda quelle di Peppino nella Città dei ragazzi. La potente drammaturgia della bocciatura manifesta un fallimento, che chiama in causa tutti a raccogliere i cocci con una visione più lungimirante.
«Quella bestemmia finale richiama il senso del prologo. Mia nonna Rosina diceva che bisogna vivere a fondo perduto. Così anche l’insegnante, ma riguarda tutti noi, deve riuscire a poter fare a meno del riscontro, perlomeno immediato, della sua azione. Lo so che è difficile, ma chi ce la fa alla fine vive meglio. Agire senza pensare al beneficio che potremmo ottenere. E soprattutto bisogna restare con le tasche vuote. Senza conservare neppure uno spicciolo».
Nelle scorse settimane le cronache giornalistiche, riguardanti l'ennesima riforma della scuola, hanno abusato spesso della parola rivoluzione, di carta almeno per il momento. Lei sostanzia una rifondazione possibile del patto educativo. «Chi spezza er pane dell'istruzione», per dirla alla Kenan?
«È vero: se riuscissimo a rifondare il patto educativo, avremmo fatto la vera rivoluzione. Cosa significa in concreto? Ci sono una serie di passaggi che, nell'Italia di oggi, assomigliano a cerchi di fuoco: ridare entusiasmo ai docenti, fiducia ai genitori, nuovi stimoli agli studenti. Si dice spesso che mancano i soldi. Ma per spezzare il pane dell’istruzione bisogna prima accendere le passioni».

martedì 28 ottobre 2014

Lezioni di storia: nove viaggi che hanno rivoluzionato il mondo

Il Messaggero, sezione Tutta Roma Agenda pag. 46,
28 ottobre 2014

di Gabriele Santoro

di Gabriele Santoro

Il tema scelto per la nona edizione del ciclo Lezioni di Storia, ideato dall'editore Laterza, promette di attirare ancora il grande pubblico all'Auditorium Parco della Musica. Nel corso dei nove appuntamenti domenicali in cartellone, dal sedici novembre alla prossima primavera, storici di caratura internazionale racconteranno i viaggi che hanno lasciato una traccia indelebile. Città e civiltà del mondo sono madri e figlie degli scambi economici, culturali.

Eva Cantarella inaugurerà la rassegna, dedicando la mattinata a Ulisse. Il viaggio descritto nell'Odissea assumerà la prospettiva della presa di coscienza dell’umanità della propria autonomia rispetto alle forze esterne. L'avventura dell'eroe omerico segna un passaggio fondamentale per l’acquisizione del libero arbitrio. «Il poema, letto in quest’ottica, conduce alla nascita dell’etica della responsabilità», dice la storica. Il 30 novembre sarà la volta dell’Enea virgiliano, fondatore della civiltà romana, narrato da Andrea Carandini. Barbara Frale illustrerà le connessioni tra fede e conquista militare a partire dall’ordine dei Templari, nato a Gerusalemme come conseguenza della prima crociata.

Qualche giorno in anticipo sul Natale,
 Franco Farinelli affronterà questioni ancora centrali attorno alla scoperta del Nuovo Mondo, dirimente per la modernità. «Quello di Colombo fu davvero uno strano andare, di cui paradossalmente più tempo passa meno di certo si conosce. Una cosa è sicura: il viaggio di Colombo ha caratteristiche uniche. Nel corso del tempo ha animato più o meno in controluce l’intera riflessione filosofica occidentale e rimane ancora oggi l’evento da cui ripartire per orientarsi nell'avventura di comprendere il mondo e il suo funzionamento», spiega.
L'anno nuovo si aprirà con l'intervento di Luigi Mascilli Migliorini, che si soffermerà sulle impressioni del Viaggio in Italia di Goethe. Spazio poi alla rivoluzione interpretativa della natura propria del darwinismo. Il 15 febbraio Telmo Pievani parlerà dell'esperienza di navigazione e sperimentazione marittima di Charles Darwin, propedeutica all'elaborazione teorica.

Alessandro Portelli, muovendosi da Furore di Steinbeck, analizzerà il senso di alienazione e sradicamento insito nell'epoca della grande crisi: resistere per costruire una società più solidale. Lezioni di storia omaggerà Walter Bonatti e la squadra di scalatori da lui guidata, che rimase intrappolata nella bufera sul Frêney. Marco Albino Ferrari parte dal 14 luglio 1961, quando a Courmayeur scattò l’allarme. Sul Pilone Centrale del Frêney, la parete rocciosa più alta del Monte Bianco, la spedizione si trasforma in tragedia. Un’odissea moderna che condensa tutto il mistero dei viaggi in alta quota.

Il 19 aprile calerà il sipario con Corrado Augias,
 che si metterà sulle orme di Stravinskij, illustrando il suo viaggio intellettuale nella cultura cosmopolita di San Pietroburgo, Parigi, Venezia, Berlino, Londra e New York.


© RIPRODUZIONE RISERVATA  



domenica 26 ottobre 2014

Wasp, stampante 3D e il progetto diventa casa

Il Messaggero, sezione Macro pag. 18,
26 ottobre 2014

di Gabriele Santoro



di Gabriele Santoro

Al Salone dell'industrializzazione edilizia, conclusosi ieri a Bologna, gli innovatori hanno preso la scena. Tra loro spicca il Centro sviluppo progetti di Massa Lombarda. Il sogno che coltivano è ambizioso, ma lo stanno tramutando in realtà con una visione tenace e lungimirante. Sappiamo quanto i processi di urbanizzazione portino con sé l'incontrollata esplosione e deformazione delle aree periferiche. Dunque perché non immaginare una soluzione abitativa, vivibile per tutti, autoprodotta con una stampante 3D?

L'azienda, nata vent'anni fa da un'intuizione di Massimo Moretti, ha meno di quindici dipendenti e valorizza il capitale umano. Producono, vendono ed esportano stampanti 3D, tra le più veloci e precise al mondo, su misura dell'esigenza del cliente, reinvestendo poi gli utili in ricerca. La tecnologia è una risorsa aperta, nel senso che il prodotto risponde al criterio ecologico della circolarità: viene implementato, affinato a ciclo continuo. Tra un anno sarà pronta e commerciabile una mega stampante 3D, alta una decina di metri, in grado di creare una casa con materiali adatti ai luoghi di destinazione determinati.

«Il World Advanced Saving Project s'ispira al modello costruttivo del nido dell'ape vasaia. Ogni quattro mesi raddoppiamo la dimensione della stampa, e il prossimo anno riusciremo a ottenere la prima casa di dimensioni reali. Abbiamo già sondato l'interesse per lo strumento. Per esempio in Marocco, dove siamo stati invitati, con l'argilla, materiale povero ma ricco di proprietà come l'isolamento termico, possiamo già erigere prototipi. Immaginiamo un mercato per realtà come l'India e il Brasile, afflitte dall'abnorme crescita di bidonville», dice Marco Turci della Csp. 

Marco Savoia, direttore scientifico del Saie, invita a non pensare al rampante e affannato costruttore Caisotti, che Italo Calvino magistralmente cesellò a tutto tondo. «Nell'edilizia, a differenza di altri settori, ancora non è così ampio l'impiego della ricerca avanzata, ma il numero delle imprese aperte al cambiamento cresce esponenzialmente. L'innovazione indica la strada per il rilancio del comparto, a partire dalla sinergia con l'università», sottolinea Savoia. 

Alla fiera bolognese hanno partecipato venti atenei, mostrando esperienze d'interazione. Il target a cui si mira è la piccola e media impresa: «Spesso sono quelle con il maggior deficit d'innovazione, in assenza di figure preposte alla ricerca. La nostra missione è di colmare questa lacuna con risorse umane pronte a sperimentare», prosegue. Un esempio è un brevetto italiano, appena acquisito, per il monitoraggio in tempo reale della sicurezza e del comportamento sotto stress degli edifici e di altre infrastrutture. Nasce dalla collaborazione tra il Centro Interdipartimentale per la Ricerca Industriale dell'Università di Bologna e un'azienda locale, ed è stato testato con successo sul Manhattan Bridge nelle ore di picco del traffico.

Nel giorno dell'inaugurazione della cinquantesima edizione della manifestazione, che ha registrato il record di visitatori dall'estero, le associazioni di categoria hanno elencato le cifre della crisi che investe la filiera delle costruzioni. Un colosso, il cui valore della produzione tocca i 400,8 miliardi di euro, rappresentando il 13% della produzione nazionale di beni e servizi e l’11% dell’occupazione totale. In sette anni di contrazione sono venuti a mancare ottocentomila posti di lavoro, indotto compreso, con una conseguente ricaduta sociale pesantissima. Il rapporto 2014 di Federcostruzioni recita: dal 2008 al 2013 meno 26% per l'attività produttiva, nel 2013 la flessione è pari al 5,5% rispetto all'anno precedente, per la fine del 2014 la perdita sembra destinata ad aumentare.

Un tema chiave, tornato di stringente attualità con il dramma dell'alluvione a Genova, trattato nel corso dell'evento è la tutela e manutenzione del territorio, piuttosto che l'ulteriore consumo di suolo, individuato dagli addetti ai lavori come una delle priorità d'investimento. Nella logica della Smart City sono auspicabili azioni in favore di programmi di rigenerazione urbana. Nonché la necessaria lotta per l'emersione del sommerso, infezione viva che offusca le prospettive di progresso del settore. 

Una sfida, e al contempo opportunità, è rappresentata dalla riqualificazione energetica degli edifici e delle aree industriali. Maria Anna Segreto, responsabile del Laboratorio Laerte presso il Centro Enea e dell'Unità tecnica efficienza energetica che opera su scala nazionale, introduce uno strumento utile al fine delle strategie di risparmio energetico. «Abbiamo progettato e utilizziamo droni, attrezzati con termo camera per le misurazioni. In un periodo di crisi le imprese possono rilanciarsi anche mediante piani di riduzione dei consumi energetici. Il telerilevamento attuato dai droni, in moltissimi campi a partire dalla tutela del patrimonio culturale, ci restituisce dati che adeguano le soluzioni tecniche. Ripartiamo dall'efficienza vera».


© RIPRODUZIONE RISERVATA  

lunedì 29 settembre 2014

La guerra non finisce mai


di Gabriele Santoro

«Libertà! Quale parola gloriosa per cominciare! Non sono mai stato uno schiavo, solo l'immaginazione mi restituisce quella condizione inumana. Non spero nulla, se non di respirare con i miei compagni in questa terra l'aria di libertà. Coltivo l'unica ambizione di rompere le catene per esclamare: libertà per tutti! Gli occhi del mondo convergono su di noi, e dagli esiti della lotta dipende la nostra felicità». La lettera è datata 18 settembre 1864, e porta in calce la firma del sergente afroamericano Charles W. Singer, impegnato sul fronte della guerra civile americana.

Una preziosa e rara raccolta critica di centoventinove lettere (Cambridge University Press, 1992, a cura di Edwin S. Redkey) di soldati ci fornisce la testimonianza di un dato a lungo negato: l'impegno in battaglia dei neri per la conquista dei propri diritti. Ritroviamo così i pionieri del sogno americano di giustizia ed eguaglianza, poi declamato da Martin Luther King. Senza il lavoro di ricerca storiografica su queste fonti documentali personali, quanto sarebbe più povero il dibattito culturale e sociale sulla guerra, schiacciato sull'approccio quantitativo della massa grigia dei numeri.

Scrivere è resistere, significa non rinunciare alla soggettività quando l'identità rischia di essere frantumata dall'evento bellico. Durante la Grande Guerra solo in Italia, passando tra le maglie della censura, vennero movimentate quattro miliardi di lettere. Oggi ne abbiamo catalogate e sono a disposizione per la consultazione, negli archivi di Genova, Trento e Pieve Santo Stefano, diverse migliaia. C'è ancora molto da scandagliare, ma agli storici la contemporaneità pone anche una nuova frontiera. Al tempo dei social network e della comunicazione istantanea come si trasforma la corrispondenza e dunque la narrazione intima delle guerre? Che cosa ne sarà di quella straordinaria forma di espressione interclassista, propria della scrittura popolare, nata in trincea?

«Lo storico non potrà fare a meno della documentazione elettronica: è la fonte del futuro. L'attuale sistema di comunicazioni consente un controllo ancora più pervasivo di quello messo in opera dagli ufficiali di censura nei due conflitti mondiali. Servirà una ricerca approfondita. Paradossalmente i social network, che poco hanno a che fare con i codici della scrittura tradizionale, spingono a un ritorno all'oralità. Al variare delle tecnologie, la guerra riporta comunque alla luce le medesime esigenze fondamentali dell'uomo. Guai a perdere lo sguardo soggettivo», spiega Fabio Caffarena, direttore dell’Archivio ligure di scrittura popolare e docente dell’Università di Genova.

Se il Regio decreto del 23 maggio 1915 impose la censura postale, oggi l'esercito statunitense con il Social Media Considerations for deployed Soldiers and their families fissa forti limitazioni agli scambi epistolari.

Da oltreoceano arriva, pubblicato da Nottetempo con la traduzione di Silvia Bre, un testo di particolare interesse. Siobhan Fallon, figlia di un reduce del Vietnam e moglie di un marines, condensa in otto racconti di struggente sincerità e feroce umanità tracce della propria biografia. Quando gli uomini sono via (260 pagine, 16.50 euro) illumina il fronte privato delle guerre contemporanee, sempre più asimmetriche e di comprensione labile. Tra e-mail, conversazioni via Skype e messaggi Facebook le donne a Fort Hood, in attesa dei compagni in Iraq, vivono sospese, prefigurano un futuro senza alcun presente a cui appigliarsi.

«La linea di demarcazione tra Fort Hood e il mondo civile è chiaramente segnata da una rete metallica sormontata dal filo spinato. Ho tentato di aprire una finestra su questo mondo. Ho cominciato a scrivere nel periodo in cui mio marito era appena tornato dal suo secondo dispiegamento e si preparava ancora una volta a partire. Il pensiero delle missioni pervade ogni aspetto della vita del coniuge di un militare. Il padre dei nostri figli d'un tratto è a dodicimila chilometri da casa. Così con le altre coniugi creiamo le nostre nuove ed esili famiglie», dice l'autrice.


I rumori del campo militare che le accoglie sono asettici e intimi, come i tacchi di Natalya che non resiste all'ansia di un marito assente. La coraggiosa Kailani ricompone i frammenti dell'esistenza di Manny sepolti a Baghdad, nella consapevolezza che la distanza di quell'anno di missione non sarà mai colmabile. Il libretto d'istruzioni per la reintegrazione nella vita civile suggerisce ai marines di essere seducenti e soprattutto: «Gli psicologi consigliano di non avere rapporti sessuali con vostra moglie subito dopo il ritorno, aspettate qualche giorno fino a quando non sarà lei a mandarvi segnali di risposta. SIATE PAZIENTI!!!» Helena prova a riconquistare la propria giovinezza lontano da Fort Hood. Josie a causa di un attentato ha perso il sergente Schieffel. E cerca l'odore del marito sulla divisa del ventunenne sopravvissuto Kit. 

Colpisce il personaggio complesso di David Mogeson, recluta volontaria all'indomani dell'11 settembre. Trapelano l'entusiasmo, il senso del dovere, il dolore fino alla presa di coscienza e alla conseguente disillusione. Sembra di rileggere passi delle Lettere dalla trincea dell'ufficiale Filippo Guerrieri, che il 3 luglio 1916 si rivolse così al fratello: «In complesso è una vitaccia la nostra e ci aiuta a sopportarla il senso del dovere, la forza di volontà, la speranza di finirla. Carissimo Renato, anche tu vestirai la divisa, farai il soldato ma non la guerra. Un giorno mi darai ragione piena, gli impulsi e gli entusiasmi cose d'altri tempi, ora non siamo nella poesia, ma nella prosa e ognuno al suo posto sì, ognuno compia il suo dovere sì, ma...nient'altro. A venticinque anni si comincia a ripensare e meditare».