venerdì 27 giugno 2014

Allo studio il terzo manoscritto dell'Infinito ritrovato e sottratto all'asta di vendita

Il Messaggero, sezione Cultura pag. 22,
27 giugno 2014

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

IL RITIRO 
Il presunto terzo manoscritto de “L’Infinito” di Giacomo Leopardi, ritrovato fra le carte di una collezione privata, proveniente dall’archivio disperso dei conti Servanzi Collio di San Severino Marche, era l’oggetto più atteso all’asta tenutasi ieri presso la Minerva Auctions. Fabio Massimo Bertolo, direttore della casa d’asta romana, ha sciolto subito la tensione. Il proprietario, ancora anonimo, ha rinunciato alla vendita per aprire una trattativa privata con la Regione Marche. «Ci siamo resi conto - dice Bertolo - della rilevanza nazionale del bene culturale. Dunque l’intenzione è quella di renderlo patrimonio pubblico. D’altra parte, assicuriamo che non mancano i possibili acquirenti privati».

LE PERIZIE
Nelle scorse settimane, appresa la notizia dell’asta, la Regione Marche di concerto con la sovrintendenza ha mosso i primi passi per non rischiare di perdere la proprietà del possibile prezioso ritrovamento. I dubbi sull’autenticità del testo non sono infatti ancora svaniti, e l’assessore alla cultura Pietro Marcolini è cauto. «Ovviamente abbiamo interesse per qualsiasi opera riconducibile a Leopardi; è un dovere istituzionale ma condizionato - sottolinea -. Siamo ancora impegnati nell’approfondimento della documentazione che ci è stata presentata in modo inappuntabile. Esistono incongruità da contro dedurre. Non sarà un acquisto a occhi chiusi: vogliamo allargare la valutazione accademico scientifica dell’autografo. Il fatto positivo è che non l’abbiano venduto».

I tempi della trattativa appaiono comunque lunghi: «La prelazione statale scatterà solo in presenza effettiva di compratori. E ciò vogliamo saperlo dalla Minerva. Una volta appurata l’autenticità, c’è tutta la partita del valore. Non abbiamo risorse da disperdere. I prezzi annunciati (150mila euro la base d’asta) sono fuori mercato».

Marcello Andria, conservatore delle carte leopardiane alla Biblioteca Nazionale di Napoli, ha compiuto l’indagine grafologica sul reperto vergato su un supporto cartaceo di 277x199 mm. Afferma che al momento siano buone le probabilità che si tratti di una copia originale, presumibilmente databile tra il 1821 e il 1822. Il destinatario del testo sarebbe stato il priore comunale di Santa Vittoria, con allegata una raccomandazione per la carriera militare del nipote Luigi. Sul retro dell’autografo sono stati rinvenuti anche un piccolo quadrato verde sbiadito (bollo prefilatelico di Montefalcone Appennino) e la nota di assunzione al protocollo.

«Ho realizzato un confronto autoptico tra questo documento e il manoscritto napoletano, che è la redazione base dell’Idillio - spiega Andria -. Qui custodiamo gran parte degli autografi leopardiani più importanti. Tra i quali un quinterno che conserva tutte le redazioni autografe degli Idilli del 1819-’21. Il confronto scientifico effettuato con il manoscritto napoletano mi fa affermare che i due possano essere imparentati. C’è compatibilità con le abitudine grafiche leopardiane». Continuano però le verifiche: «Certo proseguiamo nei rilievi. Ognuno s’interessa del proprio ambito: esami inchiostri, bolli postali etc. In questa fase i dati in nostro possesso ci fanno propendere per l’originalità».


© RIPRODUZIONE RISERVATA  

domenica 22 giugno 2014

Arion, i quarant'anni della Libreria Eritrea e la sfida degli indipendenti

Il Messaggero, sezione Tutta Roma Agenda pag. 52,
22 giugno 2014

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

ROMA – Lo immaginò come uno spazio libero con le porte fisicamente aperte. Intese smitizzare un luogo, considerato elitario, parlando a tutte le anime del quartiere Africano e alla città di Roma. Marcello Ciccaglioni volge lo sguardo al 1974, per ritrovare il senso dell'impresa indie Arion, che nel tempo si è imposta su scala nazionale. «La libreria Eritrea festeggia i quarant'anni - dice -. Allora rompemmo gli schemi. In poco tempo quel posto divenne un punto di riferimento culturale, tanto per l'intellettuale quanto per l'operaio, con lo scopo di aggregare. La libreria, ancora oggi, vive quando interpreta e mantiene la propria funzione territoriale». 

Per i giovani del vicino Liceo Giulio Cesare ha rappresentato una meta fondamentale. La stessa scuola frequentata da Vittorio Occorsio. Il magistrato romano, trucidato il 10 luglio 1976 dal terrorista fascista Concutelli, era solito rifornirsi al banco di Piazza Esedra dell'allora ventenne libraio di strada Ciccaglioni. Un'amicizia dalla quale prese corpo il sogno di vendere libri con un tetto sopra la testa. Mercoledì, dalle 19 alle 22, l'Eritrea (sita nell'omonima via al civico 72) accoglierà amici, clienti storici e la nuova generazione di lettori per un compleanno in grande stile. Nell'occasione si potranno trovare volumi, dischi e film usciti nel 1974.

Le difficoltà crescenti delle librerie indipendenti, molte sempre più spesso costrette ad abbassare la saracinesca, si leggono nel drastico calo dei consumi culturali. Più preoccupante per i librai dell'affermarsi del commercio elettronico o dell'e-book. «Non possiamo concepire, da qui a qualche anno, città prive di librerie - prosegue -. Sono luci che illuminano i quartieri. Il segreto del nostro mestiere consiste nel costruire una complicità con il lettore; un legame sociale che su Amazon non puoi acquistare. Negli Stati Uniti la fetta di mercato degli e-book si è ormai stabilizzata al 20%. Il cartaceo rimane essenziale: dall'Eritrea lanciamo un messaggio di fiducia e speranza».

Ciccaglioni è scettico anche sul modello della libreria bistrot: «Così viene a mancare la qualità. Voglio continuare a fare il mio lavoro, consapevole della necessità dell'ammodernamento del sistema. Piuttosto riportiamo i testi sulla strada con i banchi fuori dalle librerie come in Francia». La sfida nota è quella dell'ampliamento del cosiddetto zoccolo duro di lettori (6.3% della popolazione legge almeno dodici libri all'anno) che alimenta il mercato editoriale nostrano: «In questi anni abbiamo colpevolmente trascurato la scuola. Si riparte da lì: dobbiamo ricreare un rapporto con gli insegnanti e riportare i libri nelle aule».

venerdì 20 giugno 2014

Missione Futura, Samantha Cristoforetti: «Io nel laboratorio della vita»

Il Messaggero, sezione Cultura pag. 1-25,
20 giugno 2014

di Gabriele Santoro



di Gabriele Santoro

L’INTERVISTA
L'errore preliminare da non commettere con Samantha Cristoforetti è ricordarle che il 24 novembre sarà la prima donna italiana ad andare nello spazio. «I discorsi sul genere non mi appassionano - dice -. Sono una professionista, eguale ai miei colleghi, che sta raggiungendo un traguardo importante dopo un percorso impegnativo e avvincente». Verrà lanciata in orbita dal mitico Cosmodromo kazako di Baikonur, e a bordo della navetta russa Soyuz aggancerà la Stazione Spaziale Internazionale per la missione Futura, nata da un accordo bilaterale Nasa-Asi.

In Trentino, da ragazza classe 1977, sognava già le stelle. S'immergeva in letture di fantascienza. Poi, per dare forma alle idee, ha costruito un'ottima formazione (due lauree) e si è specializzata su scala internazionale. L'Accademia dell'Aeronautica di Pozzuoli; e oggi ha i gradi di capitano dell'Aeronautica militare. Nel 2009 compie il grande salto, selezionata insieme a Luca Parmitano dall'Agenzia Spaziale Europea. Nel 2012 arriva il passo decisivo con l'assegnazione della Futura. Quando non è in addestramento negli Stati Uniti, in Russia, in Canada o in Giappone, Cristoforetti è di base al Centro Astronautico Europeo di Colonia. Tra qualche mese sarà possibile seguirla dal diario di bordo e strumento di divulgazione web Avamposto42.

Una missione di sei mesi. Che cosa dobbiamo attenderci dai protocolli che l'impegneranno: nuovi scenari per la ricerca?
«La stazione spaziale internazionale è un grande laboratorio che offre alla comunità scientifica l'opportunità eccezionale di lavorare in una condizione di microgravità per un periodo prolungato. Così si possono osservare e studiare, per esempio nelle scienze fisiche, una serie di fenomeni che a terra restano mascherati. In campi come la meccanica dei fluidi, la combustione, le scienze dei materiali si ottengono risultati molto concreti. L'obiettivo è di acquisire una migliore comprensione, che si traduce in applicazioni tecnologiche innovative a terra».

Dallo studio della circolazione venosa cerebrale per ottenere nuovi mezzi diagnostici alle stampanti 3D, per giungere al caffè, si muoverà su molteplici fronti?

«Le sperimentazioni dell'Agenzia spaziale italiana, di concerto con il mondo della ricerca universitaria ed enti privati, puntano forte sulla fisiologia umana. Esporre il corpo umano allo stress dell’astronauta, ma anche semplicemente mettere in coltura delle cellule in quell’ambiente, evidenzia fenomeni che sulla terra non abbiamo mai riscontrato. Capiamo meglio lo sviluppo di alcune patologie e le contromisure possibili, e in generale come funzionano i vari sistemi del nostro corpo. Le stampanti 3D rivoluzioneranno non solo la vita nelle astronavi. Il caffè? Non un fatto di costume, bensì saremo dotati di un gioiello ingegneristico in grado di erogare l'espresso a regola d'arte in assenza di peso».

Qual è la sfida culturale, che state interpretando, per l'essere umano?

«Credo che l'esplorazione spaziale rappresenti veramente un'avanguardia tanto per i fattori scientifici, tecnologici, quanto per la riflessione filosofica sul percorso dell’umanità. Nello spazio allarghiamo i limiti. Per tutta la storia dell’umanità abbiamo vissuto su questa superficie terrestre, non ci siamo mai mossi. Ora, un passo alla volta, entriamo in nuovi luoghi dove sappiamo muoverci, vivere, lavorare e potenzialmente in futuro sfruttarne le risorse. Considero ormai conquistata la distanza di quattrocento chilometri, dove ogni novanta minuti compie una rotazione del globo la stazione orbitante. Ciò ha una profonda valenza filosofica».

Immagina di avvertire un po’ di solitudine lassù?
«Purtroppo noi astronauti siamo tutti tecnici, piloti. Ci manca lo sguardo del poeta, dello scrittore o dell’artista. Mi auguro che in un futuro non lontano anche le persone con un'attitudine artistica riescano a raggiungerci, per narrare e raffigurare quella dimensione».

Il volo è la massima espressione della libertà?
«L'aspetto emotivo conta molto. Ritrovarsi in frazioni di tempo staccati dalla gravità terrestre è sconvolgente. Il viaggio sarà molto stancante. Già nel volo con gli aeroplani scoprii una dimensione in cui ti puoi muovere ad alta velocità: grandi accelerazioni nelle tre dimensioni; come se il tuo corpo si espandesse. Nello spazio addirittura galleggi: più libertà e leggerezza di così penso siano introvabili».

L'Europa investe un terzo delle risorse degli Stati Uniti per la Nasa. Nonostante ciò per astronauti e tecnologia siamo attori protagonisti della partita globale.

«In questo ambito la sinergia paga più della competizione. È facile sentirsi europei nei lunghi periodi di addestramento: facciamo squadra. Siamo eccellenza in tutti i settori dell’aerospaziale».


© RIPRODUZIONE RISERVATA  

lunedì 16 giugno 2014

Renato Natale, il primo giorno di primavera a Casal di Principe


di Gabriele Santoro

CASAL DI PRINCIPE - «Sindaco, mettiamo le piste ciclabili?» Gli occhi di Renato Natale s'illuminano, mentre si ristora con una granita al limone e schiarisce la voce. Indossa il vestito buono: «Questo lo comprai per il matrimonio di mia figlia», racconta. È una sera d'estate a Casal di Principe. In piazza Mercato si respira un'aria da 25 aprile. Sui volti di chi ha resistito e si è impegnato per vent'anni, nel disinteresse generale, leggi un barlume di serenità e l'orgoglio ritrovato di un popolo. Dopo la guerra, ora ci sono le condizioni per la ricostruzione. Il successo elettorale è il prodotto di molteplici fattori. Il vento qui ha cambiato direzione. «Questi bambini dovranno dimenticarsi della camorra. Lo stiamo facendo per loro», ti dicono.

«Ce l'abbiamo fatta». «Sono felice che sia salito lei». «Possiamo avere l'onore?» «No, l'onore è mio». Lo cercano, vogliono stringergli la mano; abbracciarlo. Vincenzo, ai piedi del palco, si commuove. Era con Renato accanto al corpo esanime di Don Peppe Diana. «Sono un sopravvissuto. Tre volte hanno tentato di ammazzarmi, ma evidentemente il Padre eterno vuole farmi la pelle in un'altra maniera. Non ho mai coltivato particolari ambizioni. Dalla prima, e breve, esperienza da sindaco nel 1993 ho conservato intatta la mia credibilità. Ora dobbiamo dare sostanza ai tantissimi sogni rimasti troppo a lungo chiusi nel cassetto». La prima rivoluzione culturale è quella dei diritti. Dovrà finire il tempo dei favori da dispensare agli amici. La strada rimane tuttavia in salita per la situazione finanziaria e delle risorse umane attualmente a disposizione. Natale invoca, con tutti i distinguo del caso, un Piano Marshall: servono mezzi e personale qualificato. Inutile nascondersi quanto la macchina comunale, dopo trent'anni di non governo, sia in affanno.

Renato Natale (al centro) insieme ai familiari di Salvatore Nuvoletta, carabiniere e medaglia d'oro al merito civile, ucciso dai clan alla giovane età di ventuno anni.
La rinascita dell'intera area passa necessariamente dalla rielaborazione del senso di comunità. L'idea è particolarmente suggestiva, nonché ricca di insidie. Qui s'immagina una forma della Truth and Reconciliation Commission sudafricana post apartheid. «Per circa trent'anni abbiamo subito una dittatura militare - afferma Natale -. Un pezzo di popolazione vi ha opposto una resistenza attiva, piangendo sul campo amici, familiari e servitori dello Stato fedeli. Un altro pezzo invece ha pensato che fosse meglio cercare di rapportarsi con quel potere per sopravvivere o arricchirsi, soprattutto nel mondo imprenditoriale e dei professionisti. E i giovani venivano arruolati nell'apparato militare. Oggi quella stagione è tramontata. Chi ha vissuto in un'area grigia esprime il desiderio di uscirne. La razionalità mi dice che non dobbiamo chiudere la porta. Chi vuole convertirsi al bene comune non deve sentirsi escluso. Ce lo chiedono le future generazioni. Il passaggio è delicato, problematico, ma devo rivolgermi a tutti. Occorre fare molta attenzione con chi si vuole convertire, per poi continuare a essere uguale».

C'è una frattura profonda da ricomporre. Oltre al tessuto sociale, quello economico richiede nuova linfa. «Molti imprenditori hanno lasciato questa terra - continua -. Gli proponiamo di tornare. Abbiamo bisogno di investimenti e risorse, affinché l'emigrazione non rappresenti più l'unica via d'uscita». Al prefetto e al premier Renzi il messaggio è stato già mandato. Il modello, o metodo, Caserta coniato dall'allora capo della polizia Antonio Manganelli deve passare alla fase due. Dalla repressione, riuscita, del fenomeno mafioso all'alternativa sociale. 

L'esito del voto richiede un'analisi approfondita, che comincia da un dato essenziale: la riappropriazione della pratica democratica compiuta dal popolo. Una scelta di svolta critica, non l'espressione di una protesta. Lo schieramento trasversale, che ha sostenuto la candidatura, non ha nulla a che vedere con la classica forma partito. La figura di Natale è stata funzionale alla convergenza di storie e sensibilità politiche differenti. Senza dubbio ha inciso la qualità della campagna elettorale, ben articolata tra piazza e web. «Trasformeremo il comitato in un movimento aperto alla compartecipazione. Non andremo da nessuna parte senza il contributo della cittadinanza. Non mi interessa custodire un'enclave di novità». Natale sottolinea l'eredità della propria cultura politica: l'antimafia dei comunisti, della stagione preziosa di Pio La Torre. «Quelle radici sono fondamentali. Il mio segretario è morto trent'anni fa. Oggi sulla strada ho ritrovato molti compagni».

Le anime della vittoria sono tante. Mirella Letizia ha trentasei anni, una laurea in giurisprudenza ed è madre di due figli. In epoche oscure ha scelto di non andarsene. La neo-consigliera ha conquistato trecentoventinove preferenze. La gente conosce la sua storia d'impegno decennale nell'associazionismo e sui beni confiscati. La prima sfida sul territorio, lanciata dalla società civile alla camorra e alle istituzioni compromesse, si è giocata proprio sul loro riutilizzo con finalità sociali. «Abbiamo dimostrato con l'esempio una capacità amministrativa - spiega -. I casalesi hanno capito che era possibile cambiare. Abbiamo arato e seminato per dieci lunghi anni. E ora raccogliamo. Ho visto unirsi dal basso persone mosse dall'unico intento di rimboccarsi le maniche».

Le esperienze, tra le altre, della Nuova Cucina Organizzata, le Terre di Don Peppe Diana e la Cooperativa Al di là dei sogni hanno gettato le fondamenta della svolta. Alla logica del profitto a qualsiasi costo, del business senza scrupoli, sono stati contrapposti i princìpi di un'economia sociale che tutela l'ambiente. Gli ultimi hanno trovato, mediante un'occupazione, un posto nel mondo. «Il Pacco alla camorra è l'affermazione di una filiera produttiva virtuosa - prosegue -. Siamo consapevoli che per far ripartire l'economia non può bastare esclusivamente il frutto del lavoro sui beni confiscati. Ma intendiamo contaminare il profit con il nostro modo di concepire l'economia. Vogliamo per esempio far capire agli agricoltori che la riconversione al biologico è l'unica luce in questo tunnel in cui siamo precipitati. Attiviamo un'economia sana».

Il volume della musica in piazza è alto: la festa è un atto indispensabile. I bambini scorrazzano felici. La scuola è in cima alle urgenze dell'amministrazione appena insediata. «La condizione dell'edilizia scolastica è inaccettabile. I bambini hanno diritto a una scuola di qualità. Renzi ha preso degli impegni quando è venuto qui. Vogliamo instaurare un dialogo proficuo affinché vengano mantenuti», conclude Letizia. Sappiamo quanto crudelmente la primavera spesso sia vicina all'autunno. C'è tanto da fare. Ma questa, oggi più di ieri, non è la terra di Schiavone e Bidognetti. È la terra della speranza dei casalesi perbene, che onorano i troppi caduti dalla parte giusta.

Eraldo Affinati, lo scrivere a scuola

Il Messaggero, sezione Cronache pag. 1-12,
16 giugno 2014

di Gabriele Santoro



di Gabriele Santoro

ROMA – Gli studenti dello scrittore Eraldo Affinati hanno l'opportunità straordinaria di un accesso diretto alla letteratura; di comprenderne l'importanza da un testimone eccellente. L'oggetto libro è al centro del suo modo d'insegnare. Porta fuori dalle aule gli adolescenti, spesso provenienti dalle periferie del mondo, orientandoli nello spazio di una libreria o biblioteca.

Qual è oggi il valore della prova tema?
«Un tempo il tema era la punta di diamante dei licei. La prova d'orgoglio degli introversi. Il riscatto delle generazioni perdute. Adesso invece è costretto a navigare nelle acque basse che i sapientoni gli hanno riservato: quelle della Tipologia D. Si preferiscono spesso il saggio, l'articolo e l'analisi del testo anche perché queste forme hanno materiali già pronti da assemblare. Ma io credo che il tema resti la chiave per scoprire il cuore dei giovani. Però bisognerebbe uscire dalla finzione pedagogica».

Ha notato un aumento della difficoltà degli alunni nel rapportarsi con la scrittura?
«I nativi digitali hanno una testa molto diversa rispetto a quella dei loro coetanei di dieci anni fa. Scrivono in modo frammentario con associazioni e passaggi a volte imprevedibili. Non è vero che non leggano, ma lo fanno in modo rapsodico. Magari, cliccando su Apple Store, si sono scaricati gratis la 'Divina Commedia' sull'iPhone e ogni tanto scorrono anche qualche canto, mischiandolo ai versi di musica rap, alle massime di Gandhi, al Game Center e alla foto degli schemi sulle guerre greco-persiane. Restare concentrati sulla pagina per più di dieci minuti è una conquista».

L'anno scorso la scelta da parte del Ministero di Magris per la traccia di letteratura spiazzò gli studenti, impreparati sull'autore. I programmi ministeriali consentono d'insegnare la letteratura del Novecento fino alla contemporaneità?
«Le tracce sono spunti da cui partire. I programmi andrebbero, non alleggeriti, ma ricalibrati rispetto al nuovo mondo che stiamo vivendo».

La narrativa contemporanea è in grado di rivolgersi ai giovani?
«Certo che lo è. Ma quali sono i libri da far leggere ai giovani? Ogni ragazzo è diverso da un altro. L'insegnante dovrebbe accendere il fuoco della passione. Può farlo soltanto se anche lui si entusiasma. Altrimenti rischia di consegnare una sapienza cifrata che non serve a nessuno».

Nel toto tema i maturandi sembrerebbero prediligere il decennale di Facebook. Però molti vorrebbero scrivere di Nelson Mandela, non pare una sorpresa.
«Penso che il contenuto tematico sia tutto sommato abbastanza ininfluente. Conta la chiave di accesso a questo o a quello. Ognuno può scrivere ciò che gli sta più a cuore. Senza andare fuori tema. Se ci riesce è pronto per accedere all'università».

Come vivono gli studenti di origine straniera la scoperta della scrittura in italiano?
«Per loro scrivere il tema significa diventare veramente italiani, più di quanto possano esserlo acquisendo la cittadinanza, perché la lingua non è solo un mezzo di comunicazione, ma la casa del pensiero».


© RIPRODUZIONE RISERVATA  


domenica 15 giugno 2014

Peter Cameron: «Il dolore ci salverà»

Il Messaggero, sezione Cultura pag. 21,
15 giugno 2014

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

L’INTERVISTA
Il weekend (177 pagine, 16 euro, traduzione di Giuseppina Oneto) è il penultimo titolo di Peter Cameron pubblicato in Italia da Adelphi. Attualmente l'autore statunitense sta lavorando a un nuovo romanzo: «Ha come protagonisti due individui antitetici - dice - che s’incontreranno solo alla fine, scoprendo in modo inaspettato di avere in realtà molto in comune. La struttura del romanzo sarà differente dal passato: uno stimolo per me, quanto spero lo sia per i lettori».

Cameron si trova in Italia per il Premio Bottari Lattes Grinzane. Il libro che era in concorso ha una trama minima che esplora in profondità un intreccio complesso di sentimenti, speranze, paure e sofferenze. Nel primo anniversario della morte del compagno Tony, Lyle trascorre due giornate nella villa di Marian e John; fratello apparentemente così diverso dell’uomo scomparso a causa dell'Aids. La presenza di Robert, nuovo partner di Lyle, rompe gli schemi e le finzioni relazionali.

In che modo affronta il rapporto con i libri, quando escono dal suo controllo e prendono vita autonoma?
«Ogni autore credo intrattenga una relazione interessante e complicata con i propri libri. Per me, una volta pubblicato, è che come se ne perdessi la proprietà. Appartiene al lettore. La lettura esprime il valore più alto quando è intesa come atto di condivisione, perché ciascuno rielabora nei testi il proprio vissuto. Considero la lettura alla stregua della creazione».


Quali sensazioni le suscita riprendere in mano “Il weekend”, uscito nella prima edizione vent'anni fa?
«Concludere la stesura di un libro equivale alla fine di un rapporto. Sfogliando e rileggendo romanzi come “Il weekend”, posso ritrovare la persona che ero all'epoca, che cosa pensassi. Ma non è il tempo la variabile determinante della relazione. Essi per me esistono sempre nel presente».

La narrativa contemporanea è in grado di essere un luogo dove i problemi trovano la loro soluzione ideale?

«L'intenzione di questo romanzo era anche di far dialogare personaggi, con punti di vista differenti, sulle possibilità dell’arte nella contemporaneità. È un argomento che mi appassiona. Devo crederci. La letteratura, seguendo una strada strana e meravigliosa, cattura la complessità della vita come nessuna altra forma espressiva. Fino a quando l'arte scaverà nelle relazioni che segnano l'essere umano, manterrà una centralità nelle nostre esistenze».

Che cos'è la creatività?

«Da scrittore sono terrorizzato dall’idea di fare il mestiere nella stessa maniera di Jane Austen, o di autori di trecento anni fa. L'influenza di ciò che leggo è potente. Pittori e musicisti hanno sempre dovuto preoccuparsi di inventare, di innovare. Avverti l'urgenza di creare qualcosa di nuovo, per non assopirti nella nostalgia».

Caratteristica delle sue opere è la stratificazione interiore dei personaggi. Si sentono a disagio, lottano per un posto nel mondo. Elaborano l'assenza. Lei va in direzione contraria alla società che consuma voracemente anche il dolore.
«L'esperienza del dolore è quella che realmente ci trasforma. Il cuore della mia ricerca letteraria è narrare come cambiano le persone. La stabilità ci sottrae dalla sfida straordinaria del conoscersi sotto pelle».

Nel romanzo descrive l'intensità emotiva e raffigura la corporeità di un amore omosessuale. A eccezione di un passaggio, sembra evitare qualsiasi implicazione politica sulle questioni di genere e dell'orientamento sessuale.
«È limitativo occuparsi di ciò. Voglio entrare nel merito di quello che smuove i personaggi. Poi da cittadino ovviamente ho le mie convinzioni, a cominciare dalla battaglia contro le discriminazioni, ma le lascio da una parte».


© RIPRODUZIONE RISERVATA  

sabato 14 giugno 2014

Urban Legends, la street art irrompe in galleria

Il Messaggero, sezione Tutta Roma Agenda pag. 64,
14 giugno 2014

di Gabriele Santoro

di Gabriele Santoro
LA MOSTRA
Dalla strada un inedito gemellaggio italo-francese irrompe dentro a una galleria d'arte contemporanea. Urban Legends, organizzata dalla gallerista Francesca Mezzano per 999contemporary e inaugurata al Macro di Testaccio, è un'esposizione sperimentale che accoglie alcuni dei protagonisti europei, e dunque mondiali, della street art. Non c'è la dimensione politica propria di Banksy o Blu, ma nelle sale si ammira il melting pot di linguaggi e stili, assecondando la filosofia fondante dello scambio culturale. Racchiudere il dinamismo, e la necessità di rimodellare ampi spazi urbani, su tavole appare una dissonanza, che però funziona.

«Sì, questa è una chiave di lettura della mostra che abbiamo allestito - spiega il curatore Stefano Antonelli -. La street art in un decennio dall'underground si è affermata come fenomeno di massa. Ora da una parte si rischia un'inflazione del genere con molti cloni. Dall'altra per la sopravvivenza stessa di questa forma espressiva è necessario l'ingresso nel collezionismo; ovvero la creazione di un mercato».

Senza smarrire l'originaria concezione democratica e accessibile (l’ingresso alla mostra, da lunedì a giovedì nella fascia oraria 16-22, è gratuito) di un'arte figlia del processo di urbanizzazione. Un’appendice del progetto Tandem è visibile nel tunnel della metro di Piazza di Spagna e della Ferrovia Roma Lido, con il patrocinio delle municipalità di Roma e Parigi, nonché dell’Ambasciata di Francia.

I PROTAGONISTI
Antonelli ha coinvolto dodici artisti, che per l’occasione hanno realizzato un’opera: 108, Moneyless, Tellas, Popay, C215, Alexone, Andreco, Lucamaleonte, Eron, Seth, Beaudelocque ed Epsilonpoint. I cugini d’Oltralpe si distinguono per l’esplosione di colori e una certa dose di ironia, come negli omaggi all’icona nazionalpopolare Raffaella Carrà e alla rivalità calcistica propria del derby romano. Gli italiani invece si riconoscono con lavori dalla maggiore introspezione, caratterizzata dall'utilizzo del bianco e nero. La scelta del luogo in cui è situata Urban Legends non è casuale, e quanto mai appropriata. Le mura del quartiere, quanto l’Ostiense, sono state già ridisegnate da firme prestigiose, interpreti di uno spirito di rinnovamento e della volontà di comunicare contenuti sociali.

«Lo sviluppo della street art in Italia è stato policentrico dalla provincia alla metropoli; non confinato come in Francia a Parigi. Se nel 2000, in Inghilterra, Banksy è stato il padre del movimento, i transalpini hanno saputo interpretarlo al meglio. Nelle loro opere c’è una grande influenza pop, che gli ha consentito di conquistare un immaginario collettivo. I nostri migliori talenti italiani invece si sono mossi da un percorso di ricerca puramente artistico, consapevoli delle proprie radici: così la street art si fonde con l’incisione quattrocentesca, con le ricerche spazialiste del modernismo italiano. Due scuole che raccontano il contemporaneo al di fuori del sistema», conclude Antonelli.


© RIPRODUZIONE RISERVATA  

sabato 7 giugno 2014

Il buon ladro e la storia della migrazione italiana nelle Americhe

La recensione del libro Il buon ladro di Andrea Schiavon in uscita per Add editore

di Gabriele Santoro

ROMA - Albert Camus, incuriosito dalle cronache giornalistiche, volle incontrare quel recidivo irrecuperabile in carcere. Il tempo di un'intervista che narrò per prima la vicenda di un emigrante italiano, figlio di una miseria antica. Gino Amleto Meneghetti, classe 1878, si congedò dall'ospite inatteso con una richiesta: «Un buon sigarillo sarebbe sufficiente. Nient'altro, grazie». Beppe, il nonno pescatore, con la dignità propria dei poveri provò fin dall'infanzia a tirarlo fuori dai guai. «All'ingiustizia sociale non si reagisce rubando», gli diceva. Il nipote cercava la giustizia, ma trovò sempre la legge. 
Nel decennio successivo all'unificazione due italiani su tre non disponevano della quantità di calorie necessarie a vivere in salute. Solo il 26% era alfabetizzato. Tra il 1861 e il 1915 trentanove milioni di europei, un quinto del totale era italiano, raggiunsero le Americhe, sognando le terre dell'abbondanza. Il governo italiano riconobbe ufficialmente l'emigrazione solo il 28 aprile del 1876, sottraendo il fenomeno alla clandestinità. La prima globalizzazione, quanto il precario equilibrio nel Vecchio continente tra economia e demografia, pose le fondamenta di un'emigrazione proletaria di massa. Se nel 1867 occorrevano in media quarantaquattro giorni per raggiungere gli Stati Uniti, nel 1880 ne bastavano dieci. La navigazione a vapore: una rivoluzione per la mobilità intercontinentale; ma in terza classe si viaggiava parecchio stretti. E all'arrivo sovente si piangevano figli, mogli o amici morti durante la traversata oceanica. «Noi lavoratori/Allegri andiamo nel Brasile/E voialtri d'Italia signori/Lavorate il vostro badile»; cantavano i braccianti veneti, benedetti dai preti di paese, prima di raggiungere il porto di Genova e smarrirsi nei numeri della massa.
La vita di Gino fu una fuga costante, come racconta Andrea Schiavon ne Il buon ladro (Add editore, 14 euro, 160 pagine). Schedato appena adolescente. Dopo lo svezzamento in riformatorio, la scelta di cercare migliore fortuna altrove. Nel giugno del 1913 dal porto della città ligure salpò a bordo del piroscafo Tomaso di Savoia destinazione Santos. In realtà stava tramontando un'epoca: con la deflagrazione della prima Guerra Mondiale si arrestò un immane flusso di esseri umani. Dal 1900 al 1913 circa tre milioni di cittadini italiani entrarono negli States; un milione tra il 1887 e il 1907 in Brasile, senza dimenticare l'Argentina. Meneghetti aveva una morale tutta sua; un po' alla Robin Hood: «Tolgo ai ricchi il superfluo; ciò che soddisfa solo la vanità». Niente pistole, niente droga. Accusato di ricettazione. Impiegò relativamente poco ad ambientarsi in Brasile. Il debutto con una rissa da bar, per vendicare le contumelie degli indigeni: «Sporco italiano». Soprattutto nel periodo a cavallo tra fine Ottocento e l'inizio del Novecento, le condizioni di vita di chi immaginava di giungere nell'eldorado furono difficilissime.
Foto segnaletica di Gino Amleto Meneghetti
I preziosi resoconti, consultabili presso la biblioteca romana della Società Geografica, datati 1922, dell'inviato governativo Filippo Peviani ne offrono una lucida testimonianza: «(...) Cacciati fuor d'Italia dalla fame e dalla disperazione a turbe innumerevoli i nostri emigranti si riversavano nelle Americhe, coperti di cenci e abbandonati a tutte le ingiurie del tempo e degli uomini. Scesi nei porti brasiliani essi venivano intruppati, come pietose mandrie, fra gli scherni degli indigeni. Essi venivano poi caricati sui vagoni bestiame e scaricati, secondo il bisogno, senza garanzie contrattuali, fino a che gli avidi mercanti se ne impadronivano per aggiogarli al loro crudo lavoro sotto l'incontrollata prepotenza dei fazendieros (...)». Intonavano litanie per ottenere l'acqua borica, lenitiva per le irritazioni da campo. La Locaçao dos servicos poneva il destino del colono straniero nelle mani del padrone: una servitù della gleba legalizzata nelle piantagioni di caffè, dalla quale poi si emanciparono.
Gino non ne voleva sapere di sottostare agli ordini, tanto più ai soprusi. Con fughe spettacolari divenne l'incubo della polizia brasiliana, collezionando diciassette evasioni. Spodestò Pelé dalle prime pagine dei giornali. Conobbe la durezza della galera. Quanto la violenza della tortura dietro le sbarre di Avenida Tiradentes, dove poi toccò la medesima sorte all'attuale presidenta Dilma Roussef, allora ventiduenne oppositrice alla dittatura. «Sarò sempre un uomo libero», urlava. Nella biblioteca carceraria si appassionò alla lettura. L'amata Concetta, anch'ella migrante, onesta tessitrice, morì di crepacuore per quell'antieroe osannato dal popolo dei sobborghi, soggiogato dalla schiavitù fino al 1888 e poi relegato nelle favelas. Le sue ceneri furono sparse nel vento. Dove venne arrestato per l'ultima volta una targa ricorda "O bom ladrão".
Il libro di Schiavon rappresenta l'occasione per riscoprire la storia, il dolore e il coraggio di generazioni migranti. Cambiarono il destino personale e quello economico-sociale del Brasile. Affrontarono la solitudine e l'alienazione: le statistiche ci dicono che tra il 1903 e il 1923 oltre duemila connazionali vennero rimpatriati affetti da malattie mentali. Costruirono comunità tenute insieme da un forte sentimento religioso. Si affermarono i self-made men, protagonisti del processo di industrializzazione brasiliano. Gli operai d'origine italiana furono al contempo l'anima delle lotte sindacali. Come disse un'ignota bracciante veneta al Peviani: «Manco mal che finalmente i scominsia a ricordarse anco de noaltri».