domenica 25 gennaio 2015

«Guardatevi dalle certezze». Intervista a Simon Critchley

Il Messaggero, sezione Cultura pag. 23,
25 gennaio 2015

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

L’INTERVISTA
Il padre di Simon Critchley, un lattoniere, sognava per il figlio un posto di lavoro sicuro in fabbrica, in quella terra desolata che era il sobborgo proletario di Letchworth Garden City, trenta miglia a nord di Londra. Ha scoperto un filosofo, oggi docente presso la New School for Social Research di New York, che si è avvicinato alla materia a causa di un brutto incidente nell'azienda farmaceutica dove era impiegato. Tornato sui banchi di scuola ventenne, ha poi intrapreso una rapida e brillante carriera accademica dall'Università di Essex.

Mondadori pubblica ora Come smettere di vivere e iniziare a preoccuparsi (132 pagine, 12 euro). Un saggio intervista con il collega Carl Cederström, nel quale Critchley intreccia il vissuto personale con la propria riflessione filosofica. «Sì, non è possibile separare lo spirito della filosofia dal corpo del filosofo. La filosofia era un modo di vivere e i filosofi oggetti stessi di studio. Nel mio caso la vita si confonde completamente con l'opera. Per molti professori rappresenta invece una forma di protezione spesso fittizia. Io prediligo l'esposizione e il rischio che questo linguaggio mette a disposizione», dice. Ha tenuto una lectio magistralis, «Il pericolo delle certezze», nell'ambito del Festival delle scienze presso l'Auditorium Parco della musica. 

In un'epoca in cui anche la distinzione tra paura e angoscia sembra svanire e si coagula su scala globale in una grande inquietudine forse sarebbe utile recuperare una lezione dei filosofi antichi riassumibile nel smetti di preoccuparti e inizia a vivere. Lei invece, ribaltando il titolo di un manuale di auto-aiuto, indica la strada opposta?

«Nel 1948, quel primo libro del genere ebbe un successo incredibile: l'autore dava consigli per una vita felice. Oggi definirei quella del benessere una maschera ideologica. È vero siamo impauriti da moltissime minacce, ma evitiamo accuratamente di capire fino in fondo le cose. Sfuggiamo dall'analisi delle ragioni della paura».

L'attentato terroristico a Charlie Hebdo ha acceso un dibattito sull'eventuale limite della satira. Lei ha dedicato un ampio lavoro allo humour, asserendo che la cosa più difficile da comprendere in una società è la sua struttura umoristica. In quale delle categorie in cui articola lo humour rientra il giornale satirico parigino?
«È una domanda molto difficile. Parlerò della pericolosità delle certezze e della presunta superiorità di alcune verità, da quella religiosa a quella politica o razziale. Ciò può permettere di giustificare qualsiasi tipo di azione e d'intolleranza verso gli altri. La certezza di possedere la verità assoluta è spesso basata sull'ignoranza, che è un viatico alla manipolazione. Gli assassini di Charlie Hebdo probabilmente avevano una propria certezza, che li ha spinti a un'azione violenta intollerabile. Mi dispiace che la stampa anglosassone in larga parte non abbia ripreso quelle vignette. La satira non ha limiti e nel loro humour non ho mai intravisto cattiveria. Quando inizi a proibire qualcosa, poi non sai dove fermarti. E rilevo però una certa ipocrisia occidentale sulla promozione a cadenza alternata della libertà d'espressione».

Il mondo si caratterizza sempre più dalla disuguaglianza. Ritorna l'attualità di Rousseau, a cui lei sovente si rifà.

«Credo che il Discorso sull'ineguaglianza di Rousseau sia il più rilevante dell'era moderna. Racconta la storia dell'essere umano nei termini della crescita della disuguaglianza, che culmina in uno stato di guerra. Oggi la disparità fra ricchi e poveri sta aumentando. Il problema è capire quanta ne possiamo sopportare. Non vogliamo e sappiamo più rispondere a questa domanda: quanta disuguaglianza è legittima?»

Se come sostiene la filosofia è una pratica finalizzata alla messa in discussione dell'attuale status-quo socio-politico, il filosofo mantiene il dovere di produrre crisi, intesa come una trasformazione decisiva della vita sociale?

«Per come intendo la filosofia, è un'attività che tenta di destabilizzare certezze acquisite. Socrate induceva alla crisi il proprio interlocutore, lo induceva a porsi delle domande. Ciò che pensavano fosse vero in realtà non lo era. La crisi propriamente intesa è un'esperienza di responsabilità, richiede di assumere una scelta. Il filosofo dovrebbe stimolare questa attitudine. L'effetto che la filosofia può produrre è emancipatorio a livello individuale ma anche collettivo. Nel mito della caverna di Platone l'uomo liberato dalla conoscenza torna nella grotta per liberare anche gli altri».

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mercoledì 14 gennaio 2015

L'America dei Maravich: non è facile essere Pistol Pete


di Gabriele Santoro

Sugli spalti della palestra della Daniel High School sedevano meno di novanta spettatori, quando il dodicenne Pete Maravich iniziò a mettere in scena il proprio destino. Non fu un contropiede banale. In campo aperto la palla viaggiò al ritmo di una vita che avrebbe riscritto le regole del gioco. Calcolò l'infinitesimale frazione di tempo esatta per scagliare un passaggio da dietro la schiena che, dopo aver beffato la fessura fra le gambe del difensore, si concretizzò in un appoggio morbido al tabellone del compagno.

Toni Kukoc si domandava se non fosse meglio ammirare da fuori Dražen Petrović, anziché distrarsi dallo spettacolo correndo al suo fianco. Donna Sibenka, che generò il Mozart di Sebenico, si emoziona, mentre ricorda i risvegli all'alba del figlio per lunghissime, solitarie sedute di allenamento. Danny Ainge, che l'affrontò nell'esibizione di lusso Jugoslavia - Boston Celtics (torneo targato McDonald's, dicembre 1988), ha ragione: «È un atleta esaltante. Posso compararlo soltanto al mio idolo Pistol Pete. Ho incrociato la mia strada con quella di Larry Bird. Conosciamo Michael Jordan. Ma nessuno è stato in grado di concepire le magie del giocatore più puro, Maravich». Il Muro di Berlino doveva ancora crollare, portando con sé la disgregazione balcanica. Era quasi estate a Zagabria. Le individualità della generazione d'oro dell'ultima Jugo, forgiata da Dušan Ivković, divennero corpo e anima della squadra campione d'Europa, e poi mondiale. Lo showtime non era una prerogativa americana. Vlade Divac, Dino Radja e Dražen Petrović lo illustrarono al mondo.

L'altra sponda dell'Atlantico non era mai stata così vicina. «È lunga la strada da Belgrado a Hollywood. L'America è la terra delle opportunità anche per questo pivot jugoslavo», disse il giornalista Craig Sager, qualche settimana dopo la consacrazione continentale a proposito dell'approdo di Divac ai Lakers. Agli albori del Novecento Vajo Maravich e Sarah Radulovich coprirono invece, come milioni di altri europei, la medesima distanza per la sopravvivenza. Partirono dal villaggio serbo di Drežnica direzione Pennsylvania, dove la vorace industria dell'acciaio e le miniere richiedevano masse di lavoratori instancabili.

Abitarono in una baracca ad Aliquippa, sobborgo industriale di Pittsburgh, che dalla collina s'affacciava sull'acciaieria. Il cielo, color arancio, dipinto dalle polveri sbuffate dalle ciminiere. Vajo non ancora quarantenne morì sulla via del loro progresso, vittima di un terribile incidente in fabbrica. A causa di un'epidemia influenzale devastante, dei dieci figli dati alla luce ne sopravvisse uno. Chiamarono Press l'energico Petar Maravich: un visionario, fra i padri rivoluzionari della meraviglia ideata da James Naismith. Non ne voleva sapere di suonare il banjo. Sbarcava il lunario come strillone: «Pittsburgh Press, Pittsburgh Press!», urlava. Convinse il presbitero ortodosso ad appendere un canestro sull'albero antistante la chiesa di riferimento dell'enclave di migranti. Fu nient'altro che il prologo della storia di una passione infantile, che si trasformò in emancipazione.

Il basket gli avrebbe consentito l'accesso altrimenti precluso al college. La guerra, servendo da aviatore l'esercito americano sullo scenario del Pacifico, gli sottrasse però gli anni della vigoria fisica. S'aprì un varco da maestro - allenatore innovativo. Teorizzò il moderno sistema di scouting dei cestisti con una pubblicazione scientifica sul tema. Il suo staff per il reclutamento contava già su uno psicologo e sul dietologo. «La componente decisiva del talento è il desiderio. Sono l'uomo del contropiede. Mi aspetto che Clemson mostri una pallacanestro interessante, capace di attirare la gente», spiegò. Quelle idee si sarebbero dovute incarnare nel figlio maschio, Pete Maravich.

Il 22 giugno 1947, in una stanza del Jewickley Valley Hospital, la giovane moglie Helena, sulla quale torneremo più avanti, partorì un essere speciale, che per tutta l'esistenza ricercò la felicità. «Milioni di persone s'interrogano sul senso profondo di un obiettivo. Sono fra loro. Con i trofei, i soldi e la fama non ho mai trovato la pace con la mia essenza». Un po' come quella volta a Houston quando, dopo aver messo a referto 35 punti all'intervallo, Pete mandò in subbuglio tutti con la minaccia di non rientrare sul parquet. «Che cosa sto facendo qui?», arringò sovente davanti alle ipocrisie del gran carrozzone che lo stressava. È l'amata Jackie a riportarlo con i piedi sulla terra. Jackie che a notte fonda lo recuperava nei bar, dove con il fratello Ronnie scolavano bottiglie fino all'ultima goccia. Uno per distrarre l'ombra dei vuoti, l'altro, un reduce, per esteriorizzare l'orrore del Vietnam.

Dopo un dissidio in culla (lui voleva la trombetta, il padre gli diede un pallone) le due vite corsero in parallelo con frizioni fisiologiche per quell'ossessione. In età prescolare gli fece respirare l'aria dello spogliatoio e della palestra, dove palleggiare e dribblare ostacoli per giornate intere. La fantasia caratterizzò il metodo di allenamento dell'anticonformista Press. Il quaderno Homework Basketball conteneva quarantaquattro esercizi, quarantaquattro figure da creare con l'arancia in mano: ogni particella del talento di Pete andava coltivata con un'estenuante applicazione quotidiana.
Al più vincente dei coach della vecchia scuola, e non solo, non piacevano le invenzioni del ragazzino. «Qualunque fra i miei giocatori si azzarda a pensare un passaggio dietro la schiena, o immagini di schiacciare, si accomoda in panchina. Non intendo vedere quella roba», ammoniva John Wooden. «Lo sai, insegnandogli queste stravaganze, lo rovinerai. Sono principi contrari alla disciplina», così Wooden criticava l'ambizione dell'amico Press, verso cui però nutriva stima sincera. «Aspetta e vedrai. Sarà un professionista milionario», la risposta. Qualche anno dopo Red Auerbach sentenzierà: «Molti atleti sovvertono le leggi della gravità. Pete ruppe quelle della fisica».

L'America della segregazione razziale non contagiò Press, che mai deviò dai propri obiettivi. Negli anni Cinquanta, quando allenò all'High school (Aliquippa, Baldwin) la maggioranza degli atleti a cui impartire i fondamentali aveva la pelle nera. Li preferiva, poiché interpretavano l'utopia di una pallacanestro intensa che abbandonava la staticità. Il 28 agosto 1963 il reverendo King pronunciò la frase I have a dream. Giù, al Sud, nel 1966 si accese un bagliore di luce alla prestigiosa università di Vanderbilt. Immatricolarono Perry Wallace: il primo cestista afroamericano nella Southeastern Conference. Sfidò l'ostilità nei ginnasi del profondo sud per un trattamento egualitario nel campus, fino all'elezione quale studente più rappresentativo.

Al Civil Rights Act del 1964, l'NCAA reagì con la messa al bando delle schiacciate. Un tentativo vano di arginare il fiume in piena: l'epoca della modestia atletica di Bill Bradley della bianca Princeton era al tramonto. L'ultimo canestro della carriera al college del pioniere Wallace fu proprio una schiacciata liberatoria. Nel 1966 coach Don Haskins con un quintetto di afroamericani trascinò Texas Western Miners al trionfo nella finale NCAA contro i quotati “Wildcats” di Kentucky. Imporranno la rotta: «Eravamo la miglior difesa opposta all'attacco più prolifico. E prevalemmo. Il successo contribuì a velocizzare i tempi dell'integrazione scolastica senza barriere. Ciò mi inorgoglisce», dice Haskins. Press, durante la presentazione alla stampa in veste di capo allenatore, annunciò la volontà di arruolare, per gettare le fondamenta del nuovo progetto di Louisiana State University, diversi prospetti senza badare alla pelle. A stretto giro giunse la smentita del rettore: «È stato evidentemente frainteso».

Louisiana State University vendeva non più di quaranta abbonamenti per la stagione dei canestri. L'intuizione di Jim Corbett, direttore della divisione sportiva universitaria, fu lungimirante. Press Maravich, che a Clemson pur di compiere un salto di qualità professionale accettò un ingaggio da 96 dollari al mese, era intenzionato a monetizzare l'esperienza a North Carolina State nell'ACC, dove raccolse il testimone dall'icona Everett Case. Ma soprattutto intendeva riunire la famiglia, allenando direttamente il figlio ormai maggiorenne. LSU, monopolizzata dalla passione per il football, aveva già pianificato la costruzione di una nuova arena. Corbett accontentò le richieste esose (quinquennale al doppio dell'ingaggio di NC) a una condizione: Pete, di cui si parlava già molto, sarebbe dovuto divenire il perno del progetto. All'esordio Pete portò gli abbonamenti a quota quattromila.

Nell'estate del 1966 i Maravich si stabilirono dunque a Baton Rouge. Dopo una stagione interlocutoria per questioni d'anagrafe, nel 1967-'68 Pete si presentò con 48 punti nella retina di Tampa. «Lasciatelo tirare», ripeteva Press. Nei tre anni a Louisiana State combinerà ciò che su un campo di basket non si era mai visto. Era veloce. Fosse mano destra o sinistra maneggiava con assoluta padronanza la palla. L'impatto più eclatante che si ricordi in questo sport. Fece registrare il tutto esaurito in qualunque campo, mille autografi a sera da evadere. Dalle sneakers ai floppy socks si distingueva nell'abbigliamento. Un pomeriggio sprovvisto dei calzettoni, che diverranno una moda, li rubò dall'armadietto del compagno Bob Sandorf. Erano ampi, tanto da mitigare l'aspetto di quei piedi così lunghi, e poi divennero un fattore psicologico.

Resiste il suo record di 3667 punti (44.2 la media a serata nel triennio LSU); 28 partite oltre i 50. Solo Oscar Robertson e Larry Bird segneranno almeno 900 punti in ciascuna delle tre annate NCAA. Curiosità: l'8% dei tiri sarebbero stati da 3 punti (l'arco non era stato delineato). Quando gli avversari frustrati passavano alle cattive maniere, come nella caccia all'uomo di Oregon State, lui era perfetto dalla lunetta: 30 su 31 nell'occasione. Il 21 febbraio 1970, contro Kentucky, lo showtime penetrò nell'immaginario collettivo grazie alla trasmissione televisiva.

Per capire qualcosa di Maravich forse dobbiamo partire dalla fine. Dall'autopsia effettuata in seguito all'infarto che lo uccise a Pasadena nel 1988, all'età di quaranta anni. Il dottor Joseph H. Choi rivelò che l'arteria sinistra di un cuore apparentemente sano non si era mai formata, per colpa di una rarissima malformazione congenita complessa da diagnosticare. Nel dna dei Maravich è inscritto il dolore, quanto la capacità di reazione. L'organismo di Pete rispose alla malformazione vascolare, costituendo dall'arteria coronarica destra dei circoli collaterali particolarmente resistenti per il nutrimento e l'ossigenazione dell'area. Una neoangiogenesi in grado di sostenere incredibilmente vent'anni di sforzo fisico al livello massimo. In due occasioni gli riscontrarono delle anomalie cardiache. Evitò ulteriori indagini strumentali: lui e il gioco erano indivisibili.

Non sappiamo quanta gioia animasse la rincorsa alla perfezione tecnica ed estetica del gesto. La pallacanestro era un atto di esistenza e resistenza: «Smettere è stato come disintossicarsi dall'eroina». Il manifesto politico del ragazzo era chiaro: osare per inventare ciò che l'establishment politico sportivo allora temeva. Gliela fecero pagare con un'ingenerosa esclusione dalla squadra olimpica. I puristi impazzivano fin dal riscaldamento, quando li scherniva con gli appunti dello showtime. L'altra politica, i palazzinari e le televisioni fiutarono l'affare della prima rock star in canotta e calzoncini. Il presidente Nixon, in piena crisi di consenso soprattutto fra i giovani, si sperticò in elogi per la Great Hope bianca. Il governatore della Louisiana John McKeithen si scoprì tifoso fervente. E le pratiche burocratiche per la costruzione di un impianto in grado di soddisfare la Maravich mania viaggiarono su corsie preferenziali.

«Nei quattro anni trascorsi all'Università della Georgia ho assistito a una partita. Non ne capisco nulla, ma se c'è un'opportunità, voglio quel Pete», disse il proprietario Tom Cousins al management degli Atlanta Hawks. Per l'immobiliarista l'auditorium municipale, classe 1906, era un reperto archeologico, quanto insoddisfacenti gli ottomila posti a sedere del Georgia Tech's Alexander Memorial Coliseum. Acquistò la squadra con un cantiere pronto a brulicare. Alla Cousins Properties Inc. l'amministrazione cittadina assegnò l'appalto da diciassette milioni di dollari per un'arena da oltre sedicimila posti. Come per l'Assembly Center di LSU e l'immenso Superdome di New Orleans, dove ritroveremo l'autostrada politica McKeithen, a riempirli di tifosi ci avrebbe pensato la star.

Ad Atlanta, terza scelta nel Draft Nba 1970, spiegò a coach Richie Guerin che era qualcosa di più di un «good business». Guerin avrebbe voluto piuttosto un centro dominante, di quelli che non vendono i biglietti, ma vincono i campionati. Appena ventitreenne si avverò la profezia di Press. Pete firmò il contratto (quinquennale da 1.5 milioni di dollari complessivi) sportivo professionistico più ricco dell'epoca. Dai produttori di calzini a quelli di gelati se lo contesero per gli spot pubblicitari. Pete rappresentò un investimento a lungo e breve termine: nell'anno da rookie i ricavi della franchigia schizzarono del 50%. L'emittente ABC, che nel 1971 quadruplicò il valore dell'accordo (17 milioni di dollari) sui diritti di trasmissione dell'Nba, si fiondò sul giovane fenomeno con un assegno da 75mila dollari per l'esclusiva del debutto con gli Hawks. La crescita del movimento era ormai intrinsecamente dipendente dall'evento televisivo. Dal 1965 al 1970, mentre l'Aba indebitata affogava, le squadre Nba aumentarono da 9 a 17.

Alla Daniel High School i compagni di tre, quattro anni più grandi lo tenevano ai margini. Quando gli regalò due vittorie con altrettanti canestri allo scadere, cambiarono opinione. Agli Hawks la situazione si ripropose. Stavolta il problema era razziale: come inserirlo, con uno stile così fuori regime, negli equilibri di una squadra all black con due stelle già rodate? Assaggiò tanta panchina: «Senza la palla le mani si raffreddano». Archiviò comunque l'annata da debuttante con 23 punti di media, 33 nell'ultimo mese.

Quattro anni dopo fu oggetto di uno scambio con New Orleans, landa inospitale per lo sport business: pochi spettatori e non appetibile per il mercato televisivo. Lì anche Pistol Pete suonò il jazz. Tanto quanto Petrović il suo movimento era musicale. Come al college eseguì uno spartito sconosciuto ai più: il faro in formazioni prive dell'adeguato cast di supporto. «Datemi Jabbar o Baylor. Qua manca la materia umana per vincere. Mi ferisce stare dal lato scuro della storia», incalzò il front office Jazz. «Onestamente, ora, che cosa importa in quale squadra militi o se vinca o perda Maravich? Lui si esibisce. È la ventunesima franchigia dell'Nba», chiosò il giornalista Curry Kirkpatrick.

Lo definirono un talento perdente e individualista. Oppure Peter Pan. Pat Riley e Jerry Colangelo, personaggi tutt'oggi influenti, lo bocciarono senza appello. L'ex Lakers: «Lo considero la star più sopravvalutata. Qualsiasi guardia dell'Nba lo manderebbe a prendere con una limousine all'aeroporto per affrontare la sua difesa morbida». Il secondo: «L'eccentricità nella gestione della palla distrae i compagni. È un attentato all'unità della squadra». Ci vengono in soccorso le statistiche Nba del perdente: 15.948 punti (24.2 di media), miglior marcatore nel 1976-'77 (31.1 a uscita, i Knicks rammentano i 68 del 25 febbraio 1977), davanti a Michael Jordan e Allen Iverson nella percentuale di vittorie consegnate alla propria squadra mettendo nel cesto più di 40 punti.

«Julius Erving è il più creativo. Con lui tutto è semplice. Devo disegnare un piccolo arcobaleno, e lo intuisce». Erving contraccambia: «Pete? Genius». Agli Hawks dialogarono col linguaggio comune ai fuoriclasse solo qualche settimana per beghe contrattuali e pastoie burocratiche avverse. Con Doctor J avrebbe zittito le penne avvelenate? Ai Jazz diede in solitudine il secondo miglior record vittorie/sconfitte per una franchigia esordiente, sopportando il macigno della morte della madre. Helena Gavor si sparò in testa. Da anni il sorriso della bella cheerleader, figlia di operai serbi, che nella primavera del 1946 ad Aliquippa incontrò Press al Bill Green's Nightclub per poi sposarlo, era sfumato nella depressione e nell'alcool.

Il nome Maravich di per sé nobilitava l'impresa del padrone dei New Orleans Sam Battistone, titolare di una catena di fast food. I tifosi ululavano “French fries, French fries” al Superdome. Qualora i Jazz avessero raggiunto i 100 punti, il tagliando d'ingresso si sarebbe tramutato in uno sconto valido per il burger king. Immaginiamo lo sguardo e il conflitto interiore del vegetariano e poi vegano Pete, che accusò l'industria alimentare statunitense di essere la principale causa di malattia della popolazione. Sul web si può leggere la copia del contratto siglato il 19 dicembre 1975 con la Pepsi-Cola (Gulf South Beverages, Inc). Diecimila dollari per associare quella capigliatura rassicurante, da Beatles, al soft drink. Poi non lo rinnovò: «Le bevande gassate e zuccherate sono dannose per i bambini».

Sports Illustrated, che il 4 marzo 1968 lo promosse in copertina (Lsu's Pistol Pete – The Hottest shot), dieci anni dopo (4 dicembre 1978) intonò il de profundis: «Per coloro che misurano il trascorrere del tempo con le icone della cultura pop, è difficile realizzare che Pete Maravich, quello dei floppy socks, dei tiri e dei passaggi oltraggiosi, l'uomo dei record, della gioia, colui che ha reso il basket divertentissimo per molti di noi, ha ormai compiuto trent'anni. E non si diverte più». Un grave incidente al ginocchio destro, per uno con quel primo passo e con quei cambi direzione, fa la differenza. Come nei bilanci dei Jazz che per l'infortunio registrarono un calo drastico dell'affluenza di tifosi.

Red Auerbach, che il senso per la vittoria lo ebbe sempre ben presente, lo volle ai Celtics per la coppia da sogno con l'astro nascente Larry Bird. Il 22 gennaio 1980 Pete ammise: «Da dieci anni provavo ad arrivare qui». Coach Fitch in quintetto gli preferì però Chris Ford. Maravich non può partire dalla panchina. Dopo i playoff le scarpette rimasero nello spogliatoio. Rinunciò all'agognato titolo e si congedò laconicamente dalla compagnia per telefono: «Ho tirato una volta di troppo a canestro, Red». Ritiratosi dall'agonismo si affidò alla fede, svelando a Jackie di aver udito la voce di Gesù Cristo: «Sii forte e innalza il tuo cuore». Numerose biografie (la prima addirittura stampata nel 1969) si sono soffermate sulla depressione, tradita dagli occhi, e sull'abuso di alcool. In campo, la sua patria vera, era il sole e obbediva a un istinto vitale. Lontano da esso spesso prevalse il buio. Dall'High School all'Nba l'amarono per la sfrontata coerenza di essere con il proprio stile la voce contro, dentro al sistema.

Press, stroncato dal cancro, non riuscì per poche settimane ad assistere all'ingresso del figlio nella Basketball Hall of Fame. Correva l'anno 1987. “Sweet-Lou” Hudson, a chi vinceva i campionati, sussurrava: «Tranquillo, non sarai mai abbastanza bravo quanto me». Da star designata degli Hawks convisse con lo scomodo ragazzo prodigio. Poi nella vita, oltre al jump shot, è riuscito anche in altro: nel 1993 è il primo afroamericano eletto nello Stato di Utah. Attingendo alla propria profonda umanità, forse è lui ad aver trovato le parole giuste: «Non è mai sembrato facile essere Pete Maravich».

                                

Dedicato a Piero Santonastaso e a Joe Ryan.

lunedì 5 gennaio 2015

Fantasy, la risposta italiana

Il Messaggero, sezione Cultura pag. 18,
5 gennaio 2015

di Gabriele Santoro



di Gabriele Santoro

«La fantasia è un ponte che riesce a collegare l'irrealtà con la realtà. Ti consente di esteriorizzare sentimenti e idee. È una visione del mondo, che sfugge all'osservatore che vi è troppo immerso per riuscire a percepirne le sfumature. Ricordo di aver iniziato a intuire le infinite possibilità della scrittura fantastica dalle prime pagine de Le notti bianche di Dostoevskij», dice il giovanissimo Filippo Torrini.

All'età di otto anni si è cimentato con racconti brevi. A dodici ha mandato un manoscritto all'editore Polistampa, che decise di investire sul primo episodio del fantasy La Porta dei misteri - La Leggenda. Con oltre cinquemila copie vendute è divenuto un piccolo caso editoriale. Da qualche giorno, il quindicenne fiorentino è di nuovo in libreria con un volume (La Porta dei Misteri - I colori della Magia e Ai confini del bene, Polistampa, 360 pagine, 18 euro) che completa la trilogia.

Torrini evade mediante la scrittura dalle sicurezze della bellissima casa in cui abita, immersa nel verde, che mira dall'alto la cattedrale Santa Maria del Fiore. Nell'avventura di un gruppo di amici, che devono salvare la Terra da un disastro incombente, riconsidera la plastica contrapposizione bene/male. «La storia è un'occasione per costruire e raccontare il mio punto di vista adolescenziale sulla vita - spiega -. Frey con i propri compagni propone un'idea di futuro del mondo, le cui sorti dipendono dalla capacità della mia generazione di prendersene cura».

Si misura con l'ombra della solitudine,
immedesimandosi nel personaggio principale, Frey (diminutivo di Ferrante, secondo nome dell'autore). «La solitudine è il suo grande nemico - sottolinea -. Uno stato d'animo che avverto molto diffuso tra i miei coetanei. Alimentiamo l'illusione di essere uniti tramite i mezzi di comunicazione e socializzazione, per renderci poi conto che non è così vero. La condizione della solitudine è connaturata all'essere umano, ma non l'individualismo imperante». Riscopre il valore dell'amicizia e della solidarietà, che da piccoli gesti origina orizzonti di senso con una potenza fuori dalle norme.

Tenendo presente l'età, la scrittura è audace, onesta e mostra un bagaglio di creatività ricco. Nel testo rintracciamo molteplici riferimenti (da Platone ai 25 lettori di Manzoni con atmosfere del Piccolo Principe), che testimoniano letture importanti già sedimentate. È interessante il legame di un nativo digitale, consumatore accanito di videogames, con l'oggetto libro cartaceo e la scuola novecentesca, lavagna e gessetto. «Il libro mantiene un fascino incredibile - aggiunge -. L'aspetto ha qualcosa di magico: soltanto a vederlo sembra già un'avventura. Colpisce una persona nel profondo come poche altre cose. Siamo sempre più proiettati verso l'immagine. La rappresentazione del reale si ferma però alla superficie. Il libro riesce ad arrivare dove le immagini non possono. La scuola? Ci lascia troppo poco tempo, però schiude universi inesplorati e segna l'evoluzione del linguaggio».

La novità e promessa Torrini s'inserisce in un quadro di interesse crescente verso il fantasy. Benché nella storia della letteratura italiana si rinvengano tracce caratteristiche del genere (pensiamo a come Rustichello da Pisa ne Il Milione adattò le narrazioni di Marco Polo, all'Orlando innamorato e all'Orlando furioso, alla fiaba barocca, al Pinocchio di Collodi fino alla trilogia I nostri antenati di Calvino), non si è mai radicato nella nostra matrice culturale. Il successo è dovuto all'importazione, anche tardiva, e ai vasi comunicanti con cinema (le trasposizioni di Peter Jackson, Harry Potter, Hunger Games), televisione (Il trono di spade) e del ludico. Solo nel 1970 il fantasy moderno irruppe in Italia con l'editore Rusconi, che pubblicò il primo romanzo della trilogia Il signore degli anelli.

«È indubbio che i lettori preferiscano gli autori stranieri - spiegano dalla casa editrice specializzata Asengard -. Ciò rende ancora più difficile promuovere nel panorama editoriale autori del nostro Paese. Questo spiega anche lo squilibrio tra titoli italiani e tradotti. Ma i nostri lettori sanno riconoscere un talento. La difficoltà sta nel trovarlo». La romana Licia Troisi, classe 1980, regina del fantasy nostrano nella scuderia Mondadori, è l'eccezione. Con le avventure dell'eroina Nihal ha venduto tre milioni di copie in venti Paesi.

Il saggio Difendere la Terra di Mezzo
(Odoya, 275 pagine, 18 euro), niente a che spartire con il Mondo di mezzo fasciomafioso emerso dalle intercettazioni di Carminati, suggerisce spunti significativi di riflessione sullo stato dell'arte e sull'eredità tolkieniana. «Molto del fantasy che vende, anche in Italia, è fatto di narrazioni abbastanza convenzionali - evidenzia l'autore Wu Ming 4 (all'anagrafe Federico Guglielmi) -. Gli editori e gli autori non si pongono il problema di fare uscire il fantasy dalla nicchia e trattarlo per quello che è o dovrebbe essere, cioè letteratura. Tendono piuttosto a dare a un certo tipo di lettori quello che vogliono. Di conseguenza lo standard tende a livellarsi verso il basso e a dare ragione ai critici snob».

Il fantasy in Italia sconta anche l'appropriazione simbolica e la strumentalizzazione politica dell'opera di Tolkien, cominciata nel cuore degli anni Settanta. «L'estrema destra italiana prese a leggere Tolkien in chiave ideologica, mentre i critici letterari e gli studiosi rimanevano a guardare perché non consideravano Tolkien degno di nota. La verità è che Tolkien è sempre stato letto da milioni di persone, dei più svariati orientamenti politico-culturali. Il racconto tolkieniano affronta alcuni temi universali, come fa la grande letteratura: la morte, la scoperta di sé, il coraggio, l'amicizia, il potere. Declina quei temi all'interno del proprio tempo, confrontandoli con le grandi questioni etiche ed estetiche della contemporaneità», conclude.

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