giovedì 16 aprile 2015

Tra le stanze del romanzo. Intervista a David Mitchell


di Gabriele Santoro


«La mia generazione è stata commensale senza senso al Ristorante dei ricchi del mondo sapendo, ma negando, che correvamo per lasciare ai nostri nipoti un tablet che mai potrà essere pagato», dice l'ormai sessantenne Holly Sykes. La protagonista del romanzo stratificato di David Mitchell Le ore invisibili (Frassinelli, 608 pagine, 19.50 euro, traduzione di Katia Bagnoli e Claudia Cavallaro) è spaesata ma lucida in un'immaginifica Irlanda, che tremendamente assomiglia all'Iraq odierno. La distopia dell'autore inglese disegna la parabola dell'Europa dalla Thatcher a un caos nefasto nel non lontanissimo 2043. Il libro si compone di sei parti, quanti i diversi capitoli nella vita di Holly che nel 1984 è una quindicenne dall'esistenza apparentemente normale. Ha però il dono della prescienza. È l’oggetto del desiderio, di amore e di morte, di due immortali che si combattono in questo mondo e in altre dimensioni. Holly vive l’adolescenza sregolata degli anni Ottanta. S'innamora perdutamente dell'uomo sbagliato, per poi sposarsi con un reporter di guerra, che non può fare a meno dei campi di battaglia iracheni. Raggiunge il successo editoriale grazie a un memoir “paranormale”, e infine piomba nella desolazione di una Terra semidistrutta dall'insensatezza degli uomini.

Mitchell, qual è stata la genesi del personaggio di Holly Sykes?
«Ricercavo una figura che rispondesse alla mia esigenza di raffigurare l'evoluzione di varie epoche. È una figlia modello della classe operaia. La scelta stessa del nome doveva restituire l'ambientazione di una Londra suburbana. Gli studenti come lei, con ai piedi gli stivaletti Doctor Martens, prendono a calci i dubbi e le debolezze del ceto a cui appartengo. Io, prodotto della middle class, ho provato a capire dal laboratorio sociale della scuola quella condizione affascinante e spaventosa».

A Paris Review dichiarò la curiosità propria del mescolare stili e generi: «È interessante scoprire che cosa accade, quando uno scrittore all'interno dello stesso libro si muove fra questa sorta di stanze». Le è successo anche con Le ore invisibili.
«Stanza è una bella parola, la parola giusta. I romanzi sono composti essenzialmente da cinque elementi. Gli ultimi due, la struttura e lo stile, attraggono il mio interesse. Sento che nella struttura è ancora possibile esprimere un potenziale di innovazione, sfuggendo al minimalismo. Mi intriga la domanda sulle molteplici opportunità con cui rimodellare una struttura senza perdere il lettore. Sullo stile mi chiedo se sia davvero utile una certa uniformità. Puoi trovare il percorso per cambiare stile nella stessa opera, preservandone comunque l'unità artistica? La stratificazione dei miei testi è dettata dal desiderio di sperimentare differenti stili nel medesimo romanzo. Gli elementi esistono come in un complesso composto chimico, non sono isolabili».

Nei suoi testi le singolari innovazioni sulla struttura, spesso stratificata, rappresentano una risorsa narrativa?
«Sì. La stratificazione osserva una necessità dei personaggi. Holly determina la struttura del lavoro. Voglio mostrare l'evoluzione di un essere umano dall'adolescenza alla tarda età, calandola nel proprio tempo. La stratificazione di cui parliamo è in primo piano, mi consente di non fare esplodere i generi che riunisco, dal fantasy alla politica. La struttura deve riuscire a reggere materiale infiammabile, sperando di non creare una catastrofe letteraria».

La gestazione è durata oltre quattro anni. Come si relaziona con il tempo nella scrittura?
«Gli Yes, un gruppo di rock progressive, tenevano insieme tempi, cambiamenti di dinamica di forte contrasto. Ritengo che la scrittura debba avere questa pretesa. A volte mi sollecita la sincronizzazione con il tempo del mondo, oppure lo slow motion. La scrittura può farmi saltare negli anni come fossi a bordo della fantascientifica USS Enterprise. La velocità del tempo è una variabile propria del romanzo, che mi affascina. Molti scrittori istintivamente non la considerano. Probabilmente Tolstoj non ci ha mai pensato. Soffermandosi sul tempo puoi innovarne l'utilizzo».

In che modo armonizza il realismo con la visione distopica dell'Europa nel 2043, inabissata in un'apocalisse ambientale e nella disintegrazione di un qualunque ordine socioeconomico globale?
«Con la matematica. Il realismo è un segmento di una curva, che anno dopo anno, impariamo a conoscere. La nostra civiltà si è caratterizzata dalla dipendenza petrolifera e dall'impatto disequilibrante sull'ambiente. I futurologi argomentano la possibile direzione di quel segmento con tutta l'imprecisione del caso. Nessuno può sapere cosa riservi il futuro: la distopia che prefiguro o un manipolo di esseri umani saggi, compassionevoli che salvano il pianeta, o forse una via di mezzo. Ovviamente spero di sbagliarmi. Assumendo i molteplici limiti della mia persona, tutte le sue domande spiegano quanto sia fittizio e stravagante il mio mestiere. Il libro è il mio capo, può capitare che mi chieda di essere anche un futurologo».

La narrazione prende il via dalla primavera del 1984, segnata dalla lotta dei minatori, in piena atmosfera thatcheriana. Qual è la traccia più profonda lasciata dalla Lady di ferro?
«In ciascuna sezione del libro cerco di trasmettere lo spirito del tempo. Negli Ottanta era ancora viva la lotta per il futuro tra socialismo e capitalismo. E quest'ultimo ha vinto, fino a quello che ritengo il collasso del principio liberale con l'ultima guerra irachena. Thatcher, sciagura o benedizione? Incarno il dubbio su questo personaggio, senza il quale la storia sarebbe stata comunque meno appassionante. Il funerale ne è stato l'emblema. Celebrato con i massimi onori a Westminster, mentre nelle classifiche inglesi dei download musicali schizzava al primo posto Ding-Dong! The Witch Is Dead. Ha distrutto l'idea continentale di Welfare State, ma non si può ridurre tutto a questo. Fra cent'anni, forse, avremo una risposta adeguata alla domanda».

È convinto dalla fiducia riposta nel futuro di una civiltà high-tech, del modello economico Silicon Valley?

«L'interrogazione credo contenga un'opinione, con la quale concordo pienamente. La Silicon Valley non è il cancello che schiude l'Utopia».

Che cosa l'attrae, tanto da farne un libro di prossima uscita, dello storytelling su Twitter?
«Twitter è un vestito che sta molto stretto. Generalmente il punto di vista narrativo sulla pagina contempla passato, presente e futuro. Su Twitter la panoramica corrisponde a quella del treno proiettile giapponese Shinkansen, un'occhiata sfuggente. Mi piace la sfida di una narrativa focalizzata sul momento di uno sguardo».

Affrontando da vicino l'autismo, che ha colpito suo figlio, ne riesce a dare una definizione?
«È difficile immaginarsi senza bocca, lingua, privati della capacità di gestire la massa di informazioni immesse dai cinque sensi. Soprattutto in questo mondo che fa equivalere le relazioni interpersonali alle capacità comunicative. Ogni giorno, incontrando una persona autistica, dovremmo donargli passione, tempo, buon umore e soprattutto rispetto per una vita dove anche il riposo esige una fatica. Non esiste cura, se non quella di rendere loro la terra un posto più amichevole. Ho cominciato da mio figlio».

mercoledì 15 aprile 2015

Caravaggio nella matita di Milo Manara

Il Messaggero, sezione Cultura pag. 23,
15 aprile 2015

di Gabriele Santoro




di Gabriele Santoro

La passione di Milo Manara per l'arte vitale di Michelangelo Merisi ha preso forma nella prima parte di una biografia a fumetti. Caravaggio, la tavolozza e la spada (Panini Comics, 64 pagine, 16.90 euro nella versione standard) è un racconto filologicamente rigoroso che ha impegnato quattro anni dell'esistenza del disegnatore, il quale cominciò la propria carriera proprio dalla pittura. Un'opera, in uscita a maggio, dall'alto coefficiente artigianale: tutti i disegni sono stati realizzati a mano, finanche le tele riprodotte. «Era la maniera indispensabile per rapportarmi a lui ed entrare nel suo mondo», spiega Manara. Per la seconda parte i testi sono già pronti e dovrebbe arrivare in libreria nel 2017.

Perché ha scelto di raffigurare Caravaggio col corpo di Andrea Pazienza?«Riscontro molte affinità fra di loro, intanto quella fisica. Andrea ha avuto una vita molto avventurosa. Non era un sedentario, bensì un disegnatore da battaglia. Due persone che emanavano una luce esplosiva, destinata a illuminare molto più a lungo dello spazio della vita».

Immagina Michelangelo Merisi come un fumettista contemporaneo?
«Il fumetto ormai ha raggiunto una propria dignità narrativa. È diventato adulto e può permettersi di raccontare qualsiasi cosa. Il progressivo allontanarsi degli artisti figurativi, dei pittori dalla società è un dato di fatto. Non mi pare che la pittura abbia più un suo ruolo effettivo nella società. Non ha più l'importanza di un tempo nell'elaborazione della cultura di un popolo».

Lo vedrebbe anche come regista cinematografico?
«Con i suoi modelli, che poi in realtà diventavano attori, organizzava la scena. Organizzava le composizioni e poi le riproduceva a mano, dotato di un miracoloso talento pittorico. Ma se avesse potuto, credo avrebbe preferito un ciak. Il lavoro consisteva nell'allestire la scena. La sua parte inventiva, creativa si esauriva nel comporre la scena. Lo cercherei anche nell'ambito del cinema».

Nella prefazione Claudio Strinati ha ragione nel definire Roma come la prima protagonista della sua narrazione?
«Credo di sì. Ricordo passeggiate notturne con Fellini, il quale considerava i ruderi della Roma antica alla stregua dei dinosauri. In quei ruderi c'è qualcosa di biologico, di vivente. L'effetto, che forse ai romani sfugge, è impressionante. Confermo anche l'ispirazione alle incisioni della magnificenza romana di Piranesi. Appare la bellezza della Roma seicentesca che ingloba i destini di tutti, dai cardinali alle prostitute».

Andrew Graham-Dixon scrive in un'accurata biografia dell'artista: «L'arte di Caravaggio è fatta di buio e di luce. Le sue immagini presentano momenti di esperienza umana spesso estremi e tormentati. La vita di Caravaggio è come la sua arte, una serie di lampi nella più buia delle notti». Un uomo in fuga, come lei lo restituisce.
«Non saprei dire se l'abbiano nutrito di più le tenebre o la luce. Dipingeva per un paio di settimane e poi per qualche mese frequentava solo i bordelli. Era dotato di un talento tale che gli consentiva di dedicare meno tempo alla pittura che al resto della vita. La vita di strada di Caravaggio era proprio la sua ispirazione. Molto di quel che sappiamo di Caravaggio lo dobbiamo ai verbali di polizia. Caravaggio ha fatto ricorso alla verità più cruda ma ricca di compassione. Ho usato gli stilemi caravaggeschi e i chiaroscuri che d'abitudine non appartengono alla mia cifra artistica».

Lei ricostruisce con verosimiglianza gli amori e gli incontri con le donne predilette, dedicando una striscia bellissima alla genesi della Morte della Vergine.
«Una sua modella, piccola prostituta di strada, sottratta a un cliente per posare, appare come la Madonna raffigurata come una donna morta gonfia, un’annegata ripescata. È il farsi presente di Dio nei fatti della vita quotidiana, nell'umanità della povera gente».

Nelle fonti documentali studiate per le sue tavole quale percezione aveva il pittore del proprio talento?
«Teneva particolarmente al riconoscimento dello status di pittore. Con l'ambizione non rinnegava quel popolo in mezzo al quale amava vivere. Mostrava insofferenza per la vita a palazzo. Penso che a Roma non stimasse nessun pittore all'infuori di sé stesso. In un periodo in cui la pittura oleografica, costruita, falsa era imperante, ha portato la verità nella pittura».

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giovedì 2 aprile 2015

Globalizzazione, sfruttamento, alienazione, pace rispettosa e partecipazione. Intervista a Pietro Ingrao (Roma, 10 maggio 2002)

Con tutta l'ingenuità e la spensieratezza dei miei diciassette anni.

A cura di Gabriele Santoro

Roma, 10 maggio 2002

Quale pensa sia la definizione più appropriata della parola globalizzazione?
Il significato più proprio della parola “globalizzazione” mi sembra quello che si riferisce ad una forte mutazione avvenuta nell’ultimo trentennio del Novecento, nelle forme del capitalismo mondiale.
Il secolo che è appena finito già si era aperto con una profonda innovazione nel sistema di produzione capitalistico: fu il “fordismo”, e prese questo nome dal ruolo grande che un grande industriale americano, Ford, ebbe nell’introdurre, nei sistemi industriali, i metodi di produzione tayloristici che qui possiamo richiamare ricordando ciò che è nell’industria fordista la catena di montaggio, quel metodo di lavoro in cui gli operai “montano” insieme, ciascuno un pezzo sulla catena che scorre, l’oggetto da produrre, per esempio (com’era per Ford) l’automobile. E ciò secondo ritmi rigorosi. Per dare un’idea di ciò che era il taylorismo-fordismo, e i metodi che usava nella costruzione di un oggetto si potrebbe proiettare lo splendido film di Charlie Chaplin “Tempi moderni”, che appunto evocava, in termini acuti ed esilaranti i modi in cui il fordismo usava plasmare gli operai e le operaie nella produzione di un bene, secondo calcoli e sistemi di lavoro frantumati e al tempo stesso connessi rigorosamente.

Il fordismo dette luogo -con le sue concentrazioni produttive- alle grandi città industriali del Novecento: ad esempio Chicago e Detroit, o, in Italia, Torino con la FIAT. Queste città e queste industrie concentrate divennero una specie di bandiere per le nazioni, e anche luogo e simbolo di grandi conflitti sociali e lotte di classe. Verso la fine del Novecento invece i metodi di produzione cambiano radicalmente, prima di tutto a seguito della nuova trasformazione che nei sistemi produttivi introduce la trama dei computer, e le rivoluzioni produttive che essa reca con sé. Si frantumano e si disseminano quelle che erano state grandi concentrazioni industriali. L’oggetto di consumo adesso sgorga dall’assemblaggio di prodotti (più esattamente: pezzi di prodotti) costruiti anche a grande distanza l’uno dall’altro, laddove la produzione di quello specifico pezzo appare più conveniente e meno costoso. E quindi, nel giro di alcuni decenni, le grandi città “cattedrali” industriali del Novecento hanno vissuto un gigantesco processo di “decentramento”, mediante il quale l’imprenditore capitalista frantumava e rimodellava, secondo i suoi bisogni e le sue convenienze, organizzazione del lavoro e figure produttive. Si realizzava spesso, così, un trascinante processo di precarizzazione della mano d’opera di dimensioni mondiali.

E’ stato così possibile al padrone capitalista di indebolire la forza collettiva di contrattazione che faticosamente sindacati e altre organizzazioni di classe avevano costruito nelle varie nazioni durante il secolo fordista, ed anche dislocare momenti e parti della produzione in luoghi e terre in cui la mano d’opera era a costo più basso e spesso era priva di organizzazione e di strumenti e tradizioni di difesa sociale. Inoltre da contratti a tempo pieno e di lunga durata si è passati a contratti di breve durata, diversi nei modi e nei luoghi, e si è potentemente allargata la massa di mano d’opera priva di certezza del proprio lavoro, con i deboli strumenti di tutela. La parola “globalizzazione”, a mio avviso evoca prima di tutto a queste straordinarie modificazioni che si sono compiute nella dislocazione e nei modi di lavoro, e quindi nelle retribuzioni e nei sistemi di vita di milioni e milioni di esseri umani.
Di fronte a queste sconvolgenti mutazioni dell’agire lavorativo un aspetto della nostra vita -la formazione- è diventato ancor più importante, perché dai saperi (e dei saperi in continua mutazione) vengono, ancora più di prima, dipendere le possibilità di trovare lavoro e di evitare che si aggravi drammaticamente lo sfruttamento prima di tutto del mondo proletario.

E’ da sottolineare che la nuova dimensione globale di cui stiamo parlando rende ancor più acuto e manifesto il problema della sorte di miliardi esseri umani, che oggi nascono e vivono in quelli che chiamiamo i continenti della fame, in quel “Sud del mondo”, da cui così spesso partono verso le coste d’Europa, nelle mani di negrieri, quei battelli disperati, carichi di esseri umani che fanno la fame nei loro paesi d’origine e sperano di trovare un lavoro e un tozzo di pane nell’Occidente euro-americano. E’ da aggiungere però che la parola “globalizzazione” è anche termine che allude in generale alle innovazioni grandiose che ci consentano di giungere rapidamente, nei più lontani angoli della terra, e anche di incontrare nella via prossima alla nostra casa gente di continenti estremi: e così in un certo modo ci fanno sentire ormai cittadini del mondo. A dilatare questo significato della parola “globalizzazione” contribuisce l’espansione nel mondo di una lingua: l’inglese, che è diventata così una sorta di Koinè, e in ogni caso lo strumento di comunicazione adottato nella stragrande maggioranza degli incontri e convegni di ricerca scientifica, e di confronto dei saperi.

Cosa si può fare per bloccare il meccanismo perverso che lega guerra ed economia?
Che le industrie di guerra, sorte in Europa e in America negli ultimi due secoli, siano state spesso dei focolai di conflitto e sostenitori diretti e riconosciuti di avventure belliche è fenomeno clamoroso e ricostruito scientificamente nella storia del Novecento (ci sono persino nomi che in questo senso sono diventati un simbolo mondiale: Krupp, per esempio). Ma io metterei in guardia da una lettura troppo meccanica delle cose. Certo: ci sono i mercanti di cannoni e quanto hanno pesato negli urti che hanno insanguinato la storia degli ultimi due secoli. Ma la guerra è fenomeno complesso: chiama in causa chiaramente gli Stati, e quindi la politica, i rapporti fra le classi, e anche – e molto- i sistemi di pensiero, le ideologie socio-politiche e le strutture cresciute negli ultimi due secoli, come i partiti e i sindacati. E hanno pesato tragicamente le convinzioni religiose e i conflitti tra i credi: quanti conflitti armati furono chiamati “guerra santa”, e combattute in nome di Dio (ricordate la frase famosa: “Dio lo vuole…”)!

E veniamo all’oggi. Io ho espresso critiche aspre alle guerre che hanno insanguinato l’ultimo decennio del Novecento. E ho molte riserve anche nei confronti della guerra recente condotta sotto la guida degli Stati Uniti, in Afganistan, anche se ho un’idea pessima di Bin Laden e dei talebani. Ma non credo a una lettura degli Stati Uniti come “l’impero del male” (per usare una frase che un presidente americano usò per qualificare il nemico sovietico). C’è un imperialismo americano che di certo è duramente presente oggi nella politica di Bush e nella strategia dei suoi più stretti collaboratori (da Cheney a Condoleezza Rice). E senza alcun dubbio gli USA sono alla testa nella produzione degli strumenti di guerra e i capofila nelle guerre che hanno segnato sanguinosamente l’ultimo decennio del Novecento. Questa supremazia americana ha trovato nuovi sviluppi, dopo il clamoroso attacco terroristico che ha frantumato quei grattacieli di New York, e secondo strategie non ancora del tutto chiare ed univoche.

Per fare solo un esempio: quando è diventato presidente George junior Bush è parso che egli volesse mettere da canto la NATO, l’alleanza con gli Stati europei, che l’ex-presidente Clinton invece aveva rilanciato. Almeno io, ma non solo, ebbi l’impressione che in politica estera la nuova presidenza americana volesse mantenere una alleanza stretta solo con il governo inglese guidato da Blair.
Successivamente invece Bush ha rimesso in campo la NATO: per usarla -mi sembra- come attore del nuovo patto con il russo Putin, sancito settimane or sono in terra italiana a Pratica di Mare. Quindi anche il sistema di relazioni mondiali a direzione americana, è più complicato di quanto possa sembrare a una prima analisi sommaria. Se posso dirlo con una frase breve, la politica mondiale e anche quella del gigante americano è più complessa di quello che può apparire ad un esame sommario. E’ un consiglio che mi permetto di dare ai miei giovani interlocutori io che pure in qualche modo ho lottato nella parte avversa al capitalismo euro-americano.

Quanto ai modi con cui misurarsi con il possente imperialismo americano, ho cercato di ragionare a lungo su questo tema arduo e delicato in una intervista uscita ai primi di giugno sul quotidiano “Liberazione”, ed ad essa rimando. In quell’intervista sostengo che le azioni bellissime di minoranze pacifiste generose non possono bastare a fermare il ritorno terribile della guerra nella vita degli esseri umani. Anzi -questo sostengo io- oggi siamo di fronte a una cupa e grave “normalizzazione” della guerra, e alla triste scomparsa della parola “disarmo” dal vocabolario delle élites politiche dell’Occidente. Se può interessare, in quella intervista cerco di ragionare sulla portata delle innovazioni drammatiche che stanno avvenendo in questo pianeta, e sottolineo la necessità di uno schieramento pacifista che costruisca una lotta di massa di forze politiche e di Stati contro questa normalizzazione dell’uccidere di massa.

E’ da dire che il tema della guerra non riparte soltanto dalle sponde euroatlantiche. Sono in atto due eventi tragici che si svolgono ai bordi dell’Europa: la guerra fra Israele e il disperso e disperato popolo palestinese, da cui sgorga ormai da anni sangue e devastazione umana, e c’è il timore che un conflitto possa scoppiare anche tra Pakistan e India sulla questione del Kashmir. E India e Pakistan sono ambedue potenze atomiche. Questo è il quadro drammatico che si presenta oggi nel globo. Sono in campo temi ardenti e questioni che riguardano la vita di milioni di esseri umani. Ciò che accadrà in questa era della “globalizzazione” dipende per tanta parte da ciò che faranno e vorranno i giovani che adesso si aprono alla storia del mondo, e dal modo con cui nelle aule di scuola ragionano sull’oggi e su ciò che accadde nel cuore del Novecento alla mia generazione.

Che cosa resta del pacifismo?
La mia critica al capitalismo non è solo fondata sulla questione bellica. A me premeva ribadire che la critica al capitalismo non stesse solo in questo, che cioè la critica al capitalismo sia fondata solo sulla questione bellica e cioè sulle catastrofi provocate dalla guerra,che però questo sia un punto di critica del capitalismo è fondamentale. Gli eventi più grandi che si sono compiuti nell’ultimo quarto di secolo e nell’ultimo decennio riguardano secondo me lo sviluppo terribile che ha avuto l’azione armata. C’è stato un ritorno sul campo della guerra e della valorizzazione persino della guerra nella forma della “guerra giusta” che secondo me è impressionante, la parola che invece nella mia generazione ha avuto un ruolo importante cioè la parola disarmo, è completamente scomparsa. Della parola disarmo non si parla più e si è arrivati ormai a una moltiplicazione delle forme di armi e a sviluppi che dovrebbero essere fermati. La parola “meccanismo” a me non piace perché può dare una idea secca, schematica, io insisto nella convinzione che il capitalismo è molto più complicato, astuto, più complesso, ad ogni modo questa è una mia osservazione.

Certo parlare di questo significa sottolineare che il problema della pace, la questione della lotta per la pace, prende un'urgenza che forse non ha mai avuto come oggi la terza guerra mondiale è una cosa che spaventa, io mi ricordo come abbiamo vissuto la seconda guerra mondiale, quanto ci ha fatto paura, e quante lacrime e quanto sangue, eppure noi uscimmo da quella esperienza la lotta antifascista e la guerra contro Hitler e Mussolini, con una forte sensazione che fosse avvenuto qualcosa che doveva cambiare le nostre vite. C’è un libro che per la mia generazione è stato molto importante “Lettere dei condannati a morte per la resistenza”, sono lettere di persone che vanno a morire, non solo c’è tutto il pathos di che cosa vuol dire la lotta, la morte, in molti casi la tortura, le cose terribili che abbiamo vissuto, i campi di sterminio, la morte di massa. Noi avevamo l’impressione che era accaduto qualcosa che non si poteva più ripetere, che il mondo aveva capito o che avrebbe dovuto capire.

Come io vedo l’oggi è impressionante, quella questione che dentro la mia generazione c’è stata in quegli anni, oggi se io guardo Giuliano mio nipote, probabilmente non c’è come noi l’abbiamo sentita allora e come poi è venuta fuori centuplicata con la questione dell’atomica e il livello delle armi che è stato raggiunto. Io mi ricordo nel ’38 che maturai prima che scoppiasse la guerra come antifascista e la vedevo come un modo per ritrovare la libertà, poi non ho esitato a dirmi pacifista, il pacifismo come convinzione e opposizione alle armi. Nei prossimi giorni ci sarà ancora una marcia per la pace ad Assisi, evento importante per uomini della mia generazione, ho di la le foto, ci ho portato i miei figli, poteva sembrare una cosa patetica, però veniva da questo problema, cosa erano diventate le armi e che cosa si poteva fare.

Pensa che allo stato attuale delle cose si possa raggiungere, oltre a una pace possibile, una pace giusta tra Israele e il popolo palestinese?
Questo è un conflitto terribile, perché io non posso scordarmi quello che hanno passato gli ebrei cosa è stato la loro sorte sotto il nazi-fascismo, ho anche familiari che si sono trovati a vivere questo problema in modo molto duro e quindi insomma comprendo la passione con cui si difendono dopo quello che hanno patito nella vita dei secoli, però contemporaneamente i palestinesi sono un popolo, io ho fatto la lotta perché l’Italia fosse padrona nel suo territorio. Stiamo vivendo una cosa terribile da cui si esce solo con un riconoscimento reciproco, la questione ebraica è stata una questione costituente nella vita delle persone e contemporaneamente i palestinesi per quello che sono come popolo ma anche come simbolo di tutto un mondo che oggi sta in ginocchio, perché quando parliamo dei palestinesi parliamo anche di tutta la popolazione del mondo arabo, l’Africa, zone dell’Asia, parti dell’America Latina cioè di miliardi di persone che sono un gradino sotto rispetto a noi.

Una osservazione la vorrei fare su questa espressione; tu parli di una pace giusta, ho un dubbio sulla parola giusto, giustizia, non ti vede sembrare strano è una parola su cui ho dei dubbi: esiste davvero giustizia? E’ molto relativo il concetto di giustizia, io non lo farei mai il giudice, perché al momento in cui dovrei dare la condanna mi verrebbe in mente: quello che io sto condannando, che guai ha passato, io da fuori riesco a vedere quello che è giusto o non è giusto per lui. Non saprei fare il giudice, per dire come è difficile dire cose giuste, figurati la pace giusta, chi la sa trovare? In alcune cose che ho scritto faccio riferimento alla Cappella Sistina, Michelangelo e la rappresentazione che fa del Cristo che con la mano alzata manda all’inferno o al paradiso, è un Cristo terribile, grande opera d’arte, quel Cristo lì non mi piace, ma che sappiamo quando condanniamo un assassino, quindi credo che la pace giusta sia difficile mentre è possibile una pace rispettosa.

In conclusione può dare un consiglio a quei ragazzi che non credono che il mondo che ci stanno vendendo sia così perfetto e cercano di costruire un'alternativa possibile?
Che consiglio dare? Ma io sono in una età in cui uno dovrebbe smettere di dare consigli, voi siete un'altra storia e di conseguenza molto diversi da noi. Avete già tanti maestri in cattedra, che vi danno consigli, per cui mettermi anch’io, in ogni modo se proprio un consiglio lo vogliamo dare io direi uno, partecipare, stare in campo non stare alla finestra, questo mi sento di consigliarlo a voi con l’esperienza di tutta una vita. Quella di attendere lo svolgimento degli avvenimenti senza partecipare è un' illusione poiché i problemi sono talmente invasivi e siete tutti talmente nelle cose che come vi salvate stando alla finestra, quindi il consiglio è partecipare e partecipare in tempo.

Attenti che io mi sono trovato di fronte a una situazione, quando avevo venti anni, in cui eravamo già molto in ritardo, abbiamo dovuto correre in fretta per rimediare. Adesso faccio l’esempio della Francia chi avrebbe mai pensato, che uno come Le Pen avrebbe raggiunto quei risultati, state attenti a non accorgervi troppo tardi che bisogna partecipare. Certo poi i livelli possono essere molto diversi, quelli che ho vissuto io sono stati ossessivi, la politica prendeva tutta la giornata veniva prima di tutto e facevamo politica in ogni momento forse commettevamo degli sbagli. Non si può dimenticare che a questa attività politica hanno partecipato milioni e milioni di persone e non era vero che eravamo servi di Mosca, fossimo stati servi la spiegazione sarebbe stata molto più semplice, fu tutto un errore? Ma no, facevamo delle cose importanti per il paese, certo molti errori di valutazione furono fatti sull’Unione Sovietica, ma io ho visto tante persone, che si alzavano la mattina per andare sul posto di lavoro e dopo andavano in sezione e stavano lì fino alle nove, dieci di sera e poi c’era la riunione della cellula e si finiva a mezzanotte, guadagnavano quattro soldi, ne ho conosciuti tanti uomini e donne.

Insomma però nonostante tutti gli errori, siamo stati dentro la lotta, state attenti voi della vostra generazione, perché adesso è ancora più difficile la politica, noi agivamo su scala della nazione e poi su scala europea, ora l’arena s’è allargata; dovessi dirla semplicemente con un’espressione: non ti salvi, non ti fare illusioni o stai dentro alla lotta politica oppure alla fine la paghi anche tu.