sabato 26 settembre 2015

Renzo Zanazzi, il partigiano della bicicletta tra Bartali e Coppi


di Gabriele Santoro

Era un giorno di quasi primavera. El Zanass indossava la dorsale settantasette per la prima corsa del dopoguerra. Correva l’anno 1946. C’era tanta gente a respirare la vita sulle strade dissestate e ferite della Milano-Sanremo. Il ponte sullo Scrivia bombardato non esisteva più. Le assi di legno, assemblate come una passerella, restituivano una funzionalità tutt’altro che rassicurante. Cielo terso, l’acqua alle caviglie. Guadarono il fiume spingendo la bicicletta a piedi.

Renzo Zanazzi, classe 1924, amava la spicciola, perché è giusto partire tutti insieme dalla stessa linea, non come nella vita. I figli dei ricchi davanti, i figli dei poveri dietro. Questa è la nostra falsa partenza, alla quale spesso non si rimedia neanche con una fuga generosa. Tre fratelli, tutti corridori, figli di un contadino, poi emigrato a Milano a fare la guardia giurata. In una cronaca fumosa di una tappa del Giro, Indro Montanelli sbagliò due volte il luogo di nascita di questo gregario di lusso. Zanazzi invece era preciso. Anarchico, ribelle, allegro. Celso era il primo nome registrato all’anagrafe. Nato in casa, nella corte Valle del fitto, località Campitello, comune di Marcaria, provincia di Mantova. Dunque mantovano di nascita, milanese d’adozione. La Milano che progettava, fabbricava e animava la cultura delle due ruote. La Milano dello sciur Vigorelli e della pista, da troppi anni segnata dall’incuria, che nel suo nome è culla di record e storie novecentesche.


Al Vigorelli Zanazzi ci andava fin da bambino. Lassù fra la rete e i cartelloni pubblicitari, dove la pista sembrava precipitare giù da un muro, studiava l’equilibrio degli idoli. Su Milano piovevano le bombe, ma nel novembre 1942 al Vigorelli, ideato dall’architetto tedesco Schumann, c’era Coppi con la sua Legnano, un gioiello del meccanico e telaista Ugo Bianchi, ad attaccare il record dell’ora, che batté: 45,798 chilometri. Trentuno metri in più di quelli percorsi cinque anni prima, sulla stessa pista, dal francese Archambaud. Lo sguardo del campionissimo restò quello malinconico di sempre, ma alla gente aveva regalato una tregua, che è lo spazio della felicità.

Zanazzi ha preso il diploma della strada, perché le gambe giravano forte e l’hanno aiutato a comprendere il mondo. Una questione di talento. Da adolescente ha scoperto la bicicletta, o qualcosa di molto pesante che aveva quella sembianza, da garzone per un fornaio. Trenta lire al mese, la prima paga da fame. A pedalare percepì quel fresco profumo della libertà. Come alla fine dei propri giorni, ceneri al vento, libero come se fossi in bici. Una maglia di lana con i buchi per l’aerazione, le braghe con fondello in pelle di daino per salvare i gioielli di famiglia, le scarpe con un rinforzo in ferro che quando piove si trasforma in una lama e il piede sanguina, una camera d’aria rattoppata.

S’iscrisse al Dopolavoro Corsico, poi al Gruppo sportivo Spallanzani. Debuttò alla Milano-Varese del 1939: centoventi chilometri di corsa, altrettanti per andare e tornare a casa. Spiccò fra gli allievi. In pianura andava forte, in salita non si staccava e in volata era da rispettare. Uno stradista che ben figurava anche sulla pista. Un giorno diverso dagli altri Fausto Coppi gli prestò per una riunione la propria maglia iridata. Con quella addosso in pista si volava. I campioni li riconosci dalla leggerezza della pedalata. Zanazzi lo riconoscevi dalla passione smisurata, dalle borracce trasportate e dalle poche, ma significative, vittorie, che trasmettono la gioia propria dell’insubordinazione.

Lui andava a pane e acqua. Dice di aver provato la simpamina una volta: «Ma dopo cinquanta chilometri invece della carica mi ha fatto venire i crampi. Si vede che il mio sistema nervoso non la tollera. Alla fine del 1952 mi ritiro. Oltre alle pillole iniziano a vedersi anche le iniezioni. Io, che se solo vedo una siringa svengo, non sono adatto».

C’è chi sostiene che per raccontare una storia sia necessaria una sorta di giusta distanza da essa. Marco Pastonesi in Diavolo di un corridore (Italica edizioni, 252 pagine, 15 euro) dona la misura di quanto possa essere prezioso un legame d’amicizia. Accoglie fra le pagine la forza dell’oralità di una vicenda, narrata in prima persona, che è un racconto corale di un’Italia sparita. L’autore non tradisce la propria ammirazione per la figura epica del gregario. Anche quando si è occupato di un fuoriclasse, Marco Pantani, Pastonesi è andato ad ascoltare le voci dei gregari del pirata, come il coro delle tragedie greche. Zanazzi appare un cantastorie che vorremo avere sempre al nostro fianco, quasi a infonderci coraggio.

El Zanass la guerra, che gli è toccata in sorte, l’ha combattuta dalla parte della resistenza all’oppressore. Tesserino finale numero 3590 del CLN rilasciato al patriota Zanazzi Renzo, corpo volontari della libertà, guardia partigiana. La Presidenza del Consiglio dei ministri e la Commissione riconoscimento qualifiche partigiane certificarono il grado di capo squadra dal primo maggio 1944 al trenta settembre ’44 e comandante distaccamento fino al trenta aprile 1945. Raul, il nome di battaglia. Dopo l’otto settembre lo disse al tenente Gatti, che per non fargli smarrire la sensazione della gamba gli prestava la sua Wolsit, una sottomarca della Legnano: «Con i tedeschi e i fascisti mai».

Lo chiamavano disertore. Era un combattente, che in clandestinità prese le armi. La bicicletta restò una compagna fedele: «Un’altra volta mi fanno: “Tu che vai in bicicletta, c’è un comunicato da portare a Moscatelli”, e Moscatelli è un capo comunista, nascosto in Val d’Ossola. Per me fare cento o centocinquanta chilometri è uno scherzo. Ricevo una lettera, chiusa sigillata, l’arrotolo e la inserisco nel canotto della sella, e sulla mia bici da corsa, vestito da corsa, con del pane – c’è solo quello – in tasca, non ricordo neanche se ho la borraccia, prendo e vado. A un certo punto incontro un posto di blocco dei tedeschi: mostro i documenti, lì ho ancora quelli falsi, mi chiedono che faccio, rispondo che vado ad allenarmi, e mi fanno passare». In quegli anni riuscì a correre e vincere una gara importante fra i dilettanti, la Targa d’oro di Legnano. Anche il ciclismo resiste. La giovinezza non sfiorì fra i boschi, ma sulla collinetta di Sant’Alosio, al funerale di Coppi, nella grigia mattinata del 4 gennaio 1960. «Qualche volta lo avremmo anche battuto Fausto. Ma mai più ripreso».

Le memorie asciutte affidate nel tempo da Zanazzi, scomparso il 28 gennaio 2014, a Pastonesi raffigurano un’epoca pionieristica piena di vita e costruiscono una galleria straordinaria di uomini, che hanno scritto la storia popolare del Paese e di una disciplina povera non nell’umanità. Qui non si celebrano né santi, né eroi. Giovannino Corrieri, siciliano di Toscana, era per Gino Bartali il gregario ideale. Sette anni insieme, fino a diventarne l’ombra. Poi però un giorno Giovannino a Renzo confessò che lui, in fondo al cuore, era sempre stato un coppiano.

Da sinistra a destra, Gino Bartali, Renzo Zanazzi in maglia rosa e Mario Ricci.
L’airone aveva due angeli custodi, ai quali affidare, per quel che è possibile, ciò che definiamo segreti. Ettore Milano, oltre al fratello Serse, era l’unico in grado di penetrare nei sentimenti, nelle paure e nelle emozioni del capitano. Sandrino Carrea dalla prigionia di Buchenwald tornò con quaranta chilogrammi in meno, e chissà quale peso sull’anima. Al Tour de France del 1952 indossò il colore giallo, ma «è così gregario che quasi si vergogna di avere sottratto, anche per un solo giorno, la gloria al suo capitano che l’indomani se ne impadronisce sull’Alpe d’Huez». Sandrino riposa nel cimitero di Cassano Spinola, coerente col suo destino, al fianco di un altro campione, Costante Girardengo.

Il talento senza testa di Meo Venturelli colpisce per come scelga di splendere solo nelle proprie giornate di sole. Sconfisse Rik Van Looy in volata, Anquetil a cronometro, Charly Gaul in salita, ma il nuovo Coppi, per sua stessa ammissione, non fu altro che una meteora. Non sapevi dove andare a trovarlo la notte, dopo aver conquistato la maglia rosa. La mattina non si reggeva in piedi. Beccato in flagrante dalla moglie si difese. Disse che l’aveva fatto per l’albergo: «Se le clienti si trovano bene, poi tornano». Luigi Casola, velocista di rango, euforico per un secondo posto al Giro di Lombardia del 1946, tornò a Busto Arsizio e si mise a lanciare dal balcone ai compaesani i bigliettoni guadagnati. Ci pensarono i genitori a correre per recuperarli.

Luigi Malabrocca, il Luisin, non è che andasse piano, ma sfumava dentro alle osterie. Non poteva vincere, allora voleva l’ultimo posto, la maglia nera per sconfiggere la miseria. Ci sono l’Alfonsina, prima e unica donna ad aver mai corso il Giro d’Italia ed Ernesto Colnago, un artigiano artista della bici, inventore nella sua bottega, officina, negozio, in via Garibaldi 10, a Cambiago. Hugo Koblet, il primo non italiano a vincere il Giro, era elegante su e giù dai pedali. Uomo affascinante che anche in corsa teneva un pettine in tasca e non si dimenticava dei gregari: «Grazie Renzo, senza di te avrei perso la maglia e il Giro». In fondo senza il gregario il capitano non sarebbe tale, una faccenda antica quanto il mondo.

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mercoledì 16 settembre 2015

Un patriota siciliano. Giovanni Falcone e gli Stati Uniti


di Gabriele Santoro

«(…) L’Ambasciatore ha chiamato il Segretario generale del Presidente Cossiga, Sergio Berlinguer, per manifestargli le proprie preoccupazioni. Berlinguer ha assicurato all’Ambasciatore che la questione sarà chiarita domani e che l’impegno antimafia sarà rafforzato. (…) Gli Stati Uniti hanno un forte interesse a preservare il pool e i magistrati che ne fanno parte. Le nostre agenzie di investigazione hanno una forte e attiva collaborazione con l’Ufficio Istruzione di Palermo.
Questa relazione, sia personale che professionale, è cresciuta negli ultimi otto anni e si è dimostrata indispensabile nel successo di indagini e di procedimenti svolti congiuntamente in Italia e negli Usa in casi di criminalità organizzata e traffico di stupefacenti. Nonostante che l’Ufficio Istruzione di Palermo sia piccolo, si occupa di molte delle più importanti inchieste di comune interesse tra i nostri Paesi. Ogni cambiamento significativo nel personale del pool, e particolarmente la perdita di Giovanni Falcone, danneggerebbe questi procedimenti».


Agli americani piaceva quel magistrato palermitano tenace. Lo consideravano insostituibile, alla stregua di un proprio eroe nazionale. Falcone era l’unico che potesse offrire una visione d’insieme, completa, del crimine transnazionale. Aveva fatto comprendere loro la proiezione internazionale del crimine organizzato. Per dirla con le parole di William Sessions, già direttore del Federal Bureau of investigations: «Ci aiutò a prendere consapevolezza del fatto che per sconfiggere le mafie era necessaria una più stretta collaborazione di tutte le agenzie di law enforcement». Ne ammiravano il coraggio, la coerenza dell’impegno, la capacità di soffrire, di sopportare molto più degli altri senza arrendersi mai. Aveva conquistato senza servilismi la fiducia necessaria a soddisfare interessi reciproci. Amavano la sua concretezza e le capacità di analisi. Gli americani non hanno dimenticato Falcone.

Le righe d’apertura rappresentano molto, ma non tutto, di una relazione speciale, che ha fatto esercitare i professionisti dell’italica arte del sospetto. È un estratto del cablogramma confidenziale E14, datato 3 agosto 1988, mittente l’Ambasciata statunitense a Roma, destinatario il Dipartimento di Stato. Lo possiamo leggere grazie al lavoro prezioso di Giannicola Sinisi, all’epoca giovane magistrato pugliese, appena giunto a Roma, che Falcone volle al suo fianco nel lavoro da Direttore degli affari penali del Ministero della Giustizia. Un patriota siciliano, così Rudolph Giuliani soprannominò il Giudice. A sicilian patriot (Cacucci editore, 134 pagine, 10 euro) è il titolo scelto da Sinisi per un contributo davvero originale, seppure parziale per sua stessa ammissione, a una storia ancora da scrivere.

Sinisi, magistrato della Corte di appello di Roma, con un’esperienza parlamentare e da sottosegretario al Ministero dell’Interno, è stato dal 2009 al 2013 consigliere giuridico presso l’Ambasciata italiana a Washington DC. Ha avuto la fortuna di chi sa dove cercare e quella delle coincidenze quando hanno un’anima. Una mail di Daniel Serwer, vice capo missione dell’Ambasciata statunitense a Roma dal 1989 al 1993, gli ha segnalato l’opportunità di chiedere al Dipartimento di Stato i cablogrammi, che a sua memoria contenevano elementi d’interesse, intercorsi tra le due capitali negli ultimi anni di vita di Falcone. Ma il tempo non tradisce ancora ragioni di riservatezza, motivi di classificazione, ostativi alla completa divulgazione. In un primo momento la richiesta di Sinisi, datata 26 ottobre 2010, s’inabissò nel polverone del caso Wikileaks.

Un incontro fortuito, una svolta, in qualche modo ha sbloccato poi la pratica. Dopo una lezione tenuta al Foreign Service Institute, dove vengono addestrati i diplomatici statunitensi e funzionari delle agenzie federali, una studentessa riconobbe nel docente il mittente dell’istanza depositata al Dipartimento di Stato. Una pratica che la stava occupando. Non toccarono l’argomento, ma a un mese di distanza, nel mese di marzo 2011, il magistrato pugliese ha ricevuto il plico con parte dei documenti richiesti. Ventisette cablogrammi rilasciati integralmente, quattro con degli omissis, uno non rilasciato, ancora disposto il mantenimento della classificazione di segreto, nove da rintracciare e richiedere ad altre agenzie originatrici, che avrebbero dovuto autorizzare la declassificazione. Nell’aprile 2012, disattendendo abbondantemente i tempi tecnici, il Fbi consentì l’accesso a solo uno di quei nove documenti.

«Così moriva la mia fiducia nel sistema amministrativo statunitense, il mio apprezzamento per l’intuizione democratica di Lyndon Johnson del Freedom of information act e del tempo trascorso per cui un’indagine del 1989 non avrebbe potuto essere considerata ancora soggetta a segreto», ha scritto l’autore.

Il materiale ottenuto tuttavia riesce a ritrarre un punto di vista compiuto, le reazioni del partner atlantico nel susseguirsi degli eventi di una storia italiana cruciale. A sicilian patriot sembra quasi assolvere a una necessità espressa limpidamente anni fa da Maria Falcone, sorella del giudice.
«Molti lo ricordano ancora oggi per il rigore delle sue indagini, riconoscendogli, anche a livello internazionale, la grande professionalità e il merito di avere scoperto cosa significasse Cosa Nostra. Pochi ricordano i momenti più tragici della sua vita e gli attacchi subiti anche da chi riteneva amico e il grande isolamento in cui fu costretto a vivere, rendendo ancora più pericolosa la sua vita».
Queste parole sono tratte dalla prefazione di una raccolta di testi (Falcone e Borsellino, la calunnia, il tradimento, la tragedia) altrettanto interessante, curata da Giommaria Monti e venduta insieme alla vecchia L’Unità, metà anni Novanta. Le numerose battaglie perdute, lo sconforto, l’amarezza mitigata dalla fermezza paradossalmente accrebbero la sua figura e la stima delle autorità d’oltreoceano.

A tal proposito Sinisi ha affermato: «La sensazione che ho ricavato è che negli Stati Uniti la considerazione di chi lo ha incontrato è persino maggiore che in Italia; e ho fatto una grande fatica, anche morale, a darmene una spiegazione. Negli Usa ho constatato un’ammirazione pura, senza riserve e senza interessi. Ho cercato di immaginare un Giovanni Falcone nato e vissuto negli Usa». Per poi aggiungere: «La prima statua di Falcone è stata eretta a Quantico nell’accademia del Fbi, nel 1994, mentre per avere una lapide commemorativa al Ministero della Giustizia si dovette aspettare fino al 2002, e a Capaci anche di più». I colleghi americani non hanno mai mancato una commemorazione, qui e là.

Dopo Capaci l’ambasciatore Peter Secchia organizzò un incontro privato con i familiari di Falcone, accompagnati in quell’occasione da Sinisi. Fa una certa impressione leggere alcune dichiarazioni dello stesso Secchia riguardanti il rapporto con la famiglia: «“L’ambasciatore è l’unica persona di cui ci fidavamo, il nostro Stato non è stato in grado di proteggere mio zio”. Dagli effetti personali del giudice mi spedirono una penna. Ciò mi commosse profondamente», ha rievocato in un’intervista del giugno 1993 per The Association for Diplomatic Studies and training. Due giorni prima dell’attentatuni Falcone consumò un’ultima cena a Villa Taverna.

I cablogrammi rappresentano la soddisfazione americana per l’opera compiuta con la costruzione del valido impianto accusatorio del Maxiprocesso, accolto dalla corte di Palermo, e dell’esito delle sentenze. A fronte del risultato ottenuto non riuscirono a capire gli attacchi, le polemiche, le campagne degli ipergarantisti avversi alla cultura dei maxiprocessi, “tomba del diritto”, quando la creatura processuale di Falcone era un’esigenza dettata dalla struttura e dalla storia di Cosa Nostra.
L’Ambasciata seguì con la massima attenzione la fase di passaggio confusa dopo l’addio del consigliere istruttore Antonino Caponnetto. L’uomo, tornato in Sicilia per proseguire il lavoro intrapreso da Rocco Chinnici, quando lasciò aveva una certezza. Falcone avrebbe dovuto guidare l’Ufficio Istruzione di Palermo, invece dopo un decennio di lotta l’anomalia palermitana stava per essere accantonata dalla stagione della restaurazione, della normalizzazione giudiziaria. «Ho avanzato la mia candidatura ritenendo che questa fosse l’unica maniera per evitare la dispersione di un patrimonio prezioso di conoscenze e di professionalità che l’ufficio a cui appartengo aveva globalmente acquisito», scrisse Falcone.

Il 19 gennaio 1988 il Csm per quella carica indicò Antonino Meli. Questione d’anzianità, dissero.
«L’efficienza della giustizia, nel settore fondamentale, anzi vitale per il paese, della repressione della criminalità organizzata, deve alimentarsi della forza della intera compagine giudiziaria, vista come attivazione diffusa, volontà diffusa di impegno, responsabile potere diffuso, ai vari livelli. Accentrare il tutto in figure emblematiche, pur nobilissime, è di certo fuorviante e pericoloso. Ciò è titolo per alimentare un distorto protagonismo giudiziario, incentivare una non genuina gara per incarichi giudiziari di ribalta, degradare un così ampio impegno in una cultura da personaggio», dalle parole di Umberto Marconi, relatore in commissione, durante il Plenum del Csm nella seduta per la nomina di Meli.

Come si evince dal cablogramma del 3 agosto 1988, sopracitato, l’ambasciatore Maxwell Raab la pensava diversamente e vedeva mettere a rischio l’attività del pool: «Se il Comitato antimafia del Csm ha sostenuto Meli nel tentativo essenzialmente di abbandonare il metodo del pool per combattere la mafia, lo sforzo antimafia italiano potrebbe essere severamente danneggiato e gli interessi degli Stati Uniti potrebbero essere messi in pericolo». Sinisi sottolinea come l’Ambasciata avesse piena consapevolezza della necessità del pool: «Ha dimostrato di essere uno strumento di successo sia a fine di sicurezza dei magistrati sia come mezzo per una maggiore efficacia delle indagini. È difficile immaginare che i casi portati alla loro attenzione avrebbero potuto essere perseguiti».

Sette mesi dopo l’insediamento di Meli, Paolo Borsellino lanciò il classico macigno nello stagno con due interviste detonanti: «Ci sono seri tentativi per smantellare definitivamente il pool antimafia. Stiamo tornando indietro come dieci, vent’anni fa. Adesso la filosofia è che tutti si devono occupare di tutto. Si perde inevitabilmente la visione del fenomeno spezzando in tronconi le inchieste. Dalle uccisioni di Cassarà e Montana non esiste una sola struttura di polizia in grado di consegnare ai giudici un rapporto sulla mafia degno di questo nome». L’azione investigativa di Cassarà fu fondamento del Maxiprocesso. Con Falcone condivise la premessa dell’organizzazione unitaria e segreta di Cosa Nostra e che gli avvenimenti che ne segnavano la vita fossero rispondenti a una strategia unica.


Il 30 luglio 1988 giunsero le dimissioni, poi respinte, di Giovanni Falcone dall’Ufficio Istruzione. Ruppe il riserbo per reagire a quelle che definì “infami calunnie e una campagna denigratoria di inaudita bassezza”. A distinguersi sulla stampa Il Giornale di Sicilia e Il Giornale di Indro Montanelli. «Quel delicatissimo congegno che è costituito dal gruppo cosiddetto antimafia è ormai in stato di stallo. Paolo Borsellino, della cui amicizia mi onoro, ha dimostrato ancora una volta il suo senso dello Stato e il suo coraggio denunciando pubblicamente omissioni e inerzie nella repressione del fenomeno mafioso sotto gli occhi di tutti», scrisse Falcone al Csm nella lettera di dimissioni.

L’Ambasciata preoccupata dal possibile venir meno di una collaborazione strategica sollecitò energicamente il Quirinale sulla questione, che aveva ormai invaso le sedi politiche e istituzionali. Il Presidente Cossiga chiese l’intervento del Csm ed esercitò una pressione irrituale sull’organo di autogoverno della magistratura, assumendo l’iniziativa di trasmissione alle Camere degli atti e della decisione del Comitato antimafia del Csm. Fra il 30 e il 31 luglio Meli, Borsellino e Falcone vennero ascoltati dal Csm e una trattativa serrata produsse il 2 agosto 1988 un documento del Comitato antimafia, in cui si raccolse l’input del Colle con un’inversione di marcia che ribadì i meriti e la centralità dell’esperienza del pool antimafia. Tuttavia il Csm lasciò irrisolti i nodi delle “disarmonie” riscontrate, “che debbono ritenersi certamente superabili nello spirito di fiduciosa collaborazione”, inviando a Palermo Vincenzo Rovello, capo degli ispettori del Ministero di Grazia e Giustizia. In realtà non era un bisticcio togato. La parcellizzazione delle inchieste, la conseguente frantumazione dei processi, il criterio della competenza territoriale, negava il principio dell’unicità di Cosa Nostra. E a Washington non convinse la presunta pacificazione del Csm.

Qual è la genesi dell’interesse americano? Ce la racconta Carmine Russo, un superpoliziotto, un agente del Fbi. Nel giugno 1982 viaggiò per la prima volta direzione Palermo, per portare e scambiare personalmente informazioni con il giudice. Qualche mese più tardi a ottobre, presso l’accademia Fbi di Quantico, il secondo incontro, che Russo non esita a definire storico. Falcone e Chinnici volarono negli States per un summit lungo una settimana: «Falcone incitò tutti noi a una cooperazione diretta. C’erano fiducia reciproca e un comune modo di sentire». Rimasero colpiti dal carisma naturale che Giovanni esercitava e dai successi delle operazioni Pizza connection e Iron Tower. Judge Falcone had been our best contact with the italian relationship on prosecutorial and anti-mafia activities, sintetizzò nel 1993 Secchia.

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martedì 8 settembre 2015

Iraq, la pace è sempre possibile. Intervista al patriarca Louis Raphaël I Sako

di Gabriele Santoro

Il nostro Gabriele Santoro è a Tirana, dove ha seguito il convegno interreligioso La pace è sempre possibile organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio. In questa occasione ha incontrato il patriarca di Babilonia dei Caldei, in Iraq, Louis Raphaël I Sako. E lo ha intervistato per minima&moralia. (Nell’immagine, la piana di Navkur durante la primavera – dal sito del progetto Terra di Ninive, che vi invitiamo a visitare)

«Non possiamo arrivare all’altra riva, se non dopo aver affrontato le tempeste e le onde. La pace viene dopo due passi, la guerra, il combattimento, e la seconda fase, il caos. Oggi viviamo in questo stato di caos, ma il passo successivo è la pace e la convivenza, la prosperità». Jawad Al-Khoei Segretario generale dell’Al-Khoei Institute, istituzione sciita di Najaf, vicina all’imam al-Sistani, parla per immagini. Scatta con il proprio iPhone fotografie durante un incontro rilevante, che ha caratterizzato il convegno interreligioso La pace è sempre possibile, conclusosi oggi.

A Tirana, ex capitale comunista dell’ateismo, la Comunità di Sant’Egidio ha riunito oltre trecento personalità fra leader religiosi, politici ed esponenti del mondo della cultura. «L’incontro è stato fruttuoso. Ripartiamo da Tirana con l’idea di essere più incisivi sugli scenari di guerra, che è la madre di tutte le povertà. Qui è cominciato un processo di guarigione. Tutte le religioni devono uscire dal proprio guscio e andare incontro alle urgenze del mondo. Per i rifugiati è necessario sottrarre definitivamente la questione alla speculazione politica. Ci sono segnali incoraggianti dai cittadini europei nella direzione dell’accoglienza», afferma Marco Impagliazzo, presidente della Comunità di Sant’Egidio.

Sponsorship. Da qui è partita anche la proposta di introdurre nei sistemi legislativi europei uno strumento che consenta a singoli, associazioni, parrocchie e organizzazioni della società civile, di farsi garanti dell’accoglienza, ospitando subito coloro che sono arrivati con l’opportunità anche di far arrivare famiglie direttamente dalla zone a rischio. «Ogni parrocchia accolga una famiglia di rifugiati», aveva esortato il Papa.

Per utilizzare le parole del rappresentante del Patriarcato di Mosca, Ignatij, Metropolita di Vologda e Kirillov, per la prima volta in visita in Albania, il luogo scelto, un tempo segnato dalla negazione di qualsiasi forma di vita religiosa, raffigura di per sé una piattaforma di dialogo. Un concetto ribadito nel messaggio inaugurale da Papa Francesco, che proprio in Albania ha compiuto il primo viaggio apostolico in Europa: «Quest’anno avete scelto di fare tappa a Tirana, capitale di un Paese diventato simbolo della convivenza pacifica tra religioni diverse, dopo una lunga storia di sofferenza».

Sono state dunque tre le linee guida, gli obiettivi dell’evento: la non rassegnazione alla guerra, la sollecitazione di una diversa politica dell’accoglienza e rispondere all’esigenza di mettere attorno allo stesso tavolo chi fatica a trovare parole comuni. All’Auditorium dell’Universiteti Politeknik Sant’Egidio ha fatto dialogare, a tratti in modo vivace, esponenti autorevoli delle componenti religiose irachene e il ministro curdo Kamal Muslim.

Louis Raphaël I Sako, già protagonista della giornata d’apertura, anche qui ha indossato i panni del mediatore. Più volte ha richiamato gli interlocutori convenuti a non rimanere imprigionati nel passato, invocando la fine della stagione delle accuse reciproche. Sako, Patriarca di Babilonia dei Caldei, già rettore del seminario di Baghdad, perno del dialogo interreligioso iracheno, è un baluardo della permanenza cristiana in Medio Oriente.

Dal confronto sono emerse due priorità irrinunciabili: l’affermarsi di una maggioranza politica, e non numerica, etnica, per costruire un governo autorevole, e del principio di cittadinanza e l’uguaglianza dei diritti fra gli iracheni. Giustizia è la parola che più ricorre, tutti la nominano dal rispettivo punto d’osservazione della realtà. Jawad Al-Khoei lo sottolinea esplicitamente: «La palla è nel nostro campo. Siamo uomini di religione, non politici. Mai chiesto uno stato religioso. Noi vogliamo uno stato civile, una separazione tra la religione e lo Stato. La lotta alla corruzione e all’ingiustizia ci accomuna».

Sua Beatitudine Louis Raphaël I Sako, i numeri dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati danno una misura dell’ultimo decennio. Nel 2005 i rifugiati erano 19.4 milioni, oggi sono oltre 52 milioni. Mai così tanti da sessant’anni. Una crescita esponenziale, conseguenza diretta dei 14 conflitti in corso da almeno cinque anni. Il mondo ha consapevolezza di questo movimento epocale? È possibile valutare l’impatto a medio, lungo termine di questo sradicamento?
«Da troppi anni in Iraq non facciamo altro che contare i morti. Il protrarsi del conflitto potrà produrre lo smembramento del Paese. È un esodo triste e terribile. Dove vanno, che futuro avranno?
Questo è un dramma per il mondo intero. L’Iraq rimane unito? Sarà diviso? Unicamente se supereremo le discriminazioni settarie i nostri Stati potranno rimanere uniti. È grande la responsabilità dei musulmani per ciò che avverrà. Chi parte non ritorna, è finita. Non c’è speranza, coloro che partono non ritornano. Chi parte cerca la sicurezza, un rifugio. Ma come saranno integrati nella nuova società? Un’altra cultura, un’altra mentalità, un’altra religione, altre tradizioni. Non basta dare loro da mangiare».

Nove rifugiati su dieci si ritrovano nei paesi definiti economicamente meno sviluppati. Il podio delle nazioni da cui si scappa è speculare a quello dell’accoglienza (Siria, Colombia, Iraq). I rifugiati interni iracheni su un totale di oltre quattro milioni sono un milione e mezzo. Lei ha qualcosa da chiedere all’Occidente?
«Invece di assumersi il carico dello svuotamento della popolazione di questi paesi, c’è il dovere del consesso internazionale di costruire la pace in questa regione. E trovare la soluzione adatta perché la gente rimanga lì. I risultati degli interventi, delle guerre in Medio Oriente, sono ben evidenti. Dov’è la tutela dei diritti? Abbiamo il diritto di essere difesi e protetti. La solidarietà è un’esigenza, tuttavia qui ci vuole una soluzione duratura. Come ho già avuto modo di affermare la comunità internazionale, a causa della sua responsabilità morale e storica verso l’Iraq, non può restare indifferente».

Che cosa hanno da chiedere gli iracheni ai propri sogni? Hanno una visione, che la politica non ha?
«Intanto di non dover più combattere, subire, i conflitti degli altri. L’affrancamento dalla logica del nemico del mio nemico è mio amico. I sogni ci sono, perché l’Iraq è un paese ricco. Il nostro popolo ha un cuore e una resistenza grandi, nonostante tutto riesce a sorridere. Le racconto un episodio che mi ha colpito. Un anziano musulmano è venuto in chiesa a donare cinquemila dollari per i profughi. Ha detto che doveva ringraziare una scuola cristiana per la sua istruzione. Ripeto l’Iraq è un paese potenzialmente molto ricco. Può dotarsi delle infrastrutture, creare lavoro, ricostruire scuole, ospedali. Questa lotta non è giustificata. Occorre trovare un sistema per la convivenza. La religione deve essere distinta dalla politica, dallo Stato. Una cittadinanza incarnata politicamente, concreta, implica una separazione della religione e dello Stato. Un principio da affermare nelle Costituzioni. Una vera cittadinanza, una cittadinanza reale per tutti in Medio Oriente, può essere la soluzione. La pace implica una riforma della Costituzione irachena».

Il rapporto dell’Unicef Education under fire impressiona. Quattordici milioni di bambini in Medio Oriente e Nord Africa senza scuola. Il sistema scolastico è collassato in nove paesi. Novemila scuole inutilizzabili in Siria, Iraq, Yemen e Libia. Gli insegnanti sono fuggiti. Le scuole di Giordania, Turchia e Libano scoppiano, non possono provvedere all’istruzione di 700mila bambini rifugiati. La strategia dell’IS stanzia risorse e dedica la propria retorica al sistema educativo con l’obiettivo di addestrare una nuova generazione. Chi rimedierà a questo abisso?
«Senza i muri visibili e invisibili che dividono i nostri paesi in funzione della religione, della lingua e dell’etnia, senza parlare della corruzione, dell’ingiustizia, della disoccupazione, della povertà, senza tutto ciò l’ideologia jihadista, che non nasce dalla fantasia, non avrebbe potuto diffondersi. La comunità internazionale dovrebbe investire qui in progetti educativi. Mi preoccupa moltissimo la massa di studenti che non vanno a scuola o che sono rifugiati. Quando si nasce e ci si ritrova senza alternative, possono uscire da loro altri jihadisti. Solo l’educazione può avviare la trasformazione di una società fondata sull’uguaglianza fra i cittadini. Ciò può essere realizzato in primo luogo operando una opportuna revisione del curriculum di tutti i centri di insegnamento, specialmente dei centri di formazione religiosa».

Lei insiste molto su questo punto.
«Un aggiornamento del vocabolario religioso e una riforma dei programmi di insegnamenti religiosi sono dirimenti. Le religioni dovrebbero ricercare un nuovo linguaggio umano e teologico, che parli e tocchi i cuori delle persone, dando un orientamento e una speranza alla loro vita invece di essere strumenti di violenza a beneficio di pochi. Dovrebbe essere realizzata una carta con parole comuni per i manuali di educazione religiosa, accettata e applicata da tutti. I programmi di educazione attuali contengono purtroppo idee estremiste. Tanto quanto il linguaggio mediatico dei format televisivi religiosi. A questo si deve aggiungere una interpretazione dei testi sacri “appropriata”, che metta al bando la logica della violenza. Liberare il paese dai falsi profeti per un’autentica coscienza religiosa».

Che cosa non è la fede?
«Non è né una questione ideologica, né un’utopia, ma un legame personale, a volte esistenziale con la persona di Cristo. Il rapporto è tra me e Dio. La gente deve essere libera di credere o non credere. Cionondimeno sono cristiano, nato qui, e ho il diritto anche di vivere qui la mia vita e la mia fede. Nessuno può eliminarmi. Abbiamo sofferto abbastanza, dovremmo perdonarci a vicenda».

Per uscire dal caos principi di reciproca tolleranza, che spesso altrove sono sinonimi di indifferenza, sono sufficienti?
«La tolleranza non è la libertà. La tolleranza di cui si parla, non significa per nulla libertà e uguaglianza. Noi aspettiamo l’uguaglianza. Tolleranza e pace sono diverse. Noi abbiamo bisogno della pace. Vivere insieme richiede che ci sia un’amministrazione della giustizia credibile.
Il dialogo è uno stile di vita, è uno sforzo autentico intellettuale nel pensare e analizzare la propria fede, vita e cultura, mentre facciamo spazio alla comprensione della fede, della vita e della cultura degli altri».

Nei giorni scorsi le agenzie di stampa hanno battuto la notizia dell’istituzione da parte del governo di Baghdad di un comitato, incaricato di accertare le violazioni, gli espropri e assumere misure di protezione verso i cristiani. È un sostegno? Si fida?
«No, no. Il governo non ha soldi, niente. La Chiesa, aiutata anche da Roma, dalle Chiese cristiane in Occidente, da organizzazioni terze, si fa carico delle famiglie sfollate. Al momento la situazione è peggiorata. Il governo centrale non controlla più della metà del paese, poi con tutta questa corruzione. Il governo non sa. Quando la visione è assente non ci sono piani possibili».

Il patriarca melchita di Damasco, Gregorios III Laham, ha esortato i giovani cristiani a non abbandonare la Siria e in generale il Medio Oriente. Qual è la situazione in Iraq? La fuoriuscita è inarrestabile?
«I cristiani vanno via, perché non ci sono prospettive. Pensano che non ci sia futuro. La stessa sorte che tocca a moltissimi musulmani. L’intellighenzia è già andata via. I ricchi sono andati via, comprando i visti. La povera gente dove va? Io dico che i cristiani non devono pensare a scappare in Occidente, perché se qui abbiamo difficoltà immense, il Paradiso non è certo da voi. Immaginate centoventimila cristiani che hanno dovuto abbandonare in una notte le proprie case, con qualche vestito dentro a una borsa».

L’Iraq è uno Stato impossibile?
«C’è una barriera psicologica adesso. Oggi l’Iraq è già diviso, crollato. Dunque forse è meglio accettare il dato di realtà. La realizzazione di un vero sistema federalista con una capitale è la strada da percorrere. La federazione curda, sunnita, sciita, un cantone, una zona sicura per i cristiani, riprogettando l’unità formale del paese. Ci vuole una cultura della pace, una formazione alla pace che avversi la cultura tribale, settaria e la mentalità della vendetta. Ciò che possiamo dire è che siamo in una situazione prima della formazione di uno Stato. Educarci nella pace, nella confidenza, non abbiamo altro futuro».

Che cosa la preoccupa maggiormente della strategia del Daesh?
«L’Isis progredisce con la sua guerra totalitaria feroce contro la cultura e la diversità. Qui si sta minacciando la costruzione intellettuale e sociale dell’intera società. Non possiamo accettare un’altra, presunta, teocrazia. Daesh non è una possibilità».

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