mercoledì 25 novembre 2015

«Ridare la parola all'impossibile per ottenere il possibile» conversazione con Alfredo Reichlin

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di Gabriele Santoro

Il trenta settembre a Piazza Montecitorio, a pochi passi dal feretro di Pietro Ingrao, la voce di Alfredo Reichlin si è incrinata, rievocando la più grande passione laica, la politica come storia in atto. L’assillo del come non lasciare gli uomini soli davanti alla potenza inaudita del denaro condiviso con “la mente libera, cocciuta e assetata di conoscenza” dell’amico, che ora riposa nella sua Lenola.

La vita del novantunenne Reichlin è stata appassionata e piena. La passione per la vita sta ancora nel cucchiaino di zucchero per il caffè, che mi chiede di riempire per bene, non a metà, e nella pila di libri nuovi da leggere appoggiati sul divano. Qui ci interessa relativamente se è una storia di vinti o vincitori. Nato a Barletta nel 1925, si trasferì bambino a Roma, complice la crisi del ‘29 che aveva travolto la grande fabbrica chimica del nonno. Papà dannunziano, lui si scoprì l’eretico di famiglia. Al liceo divenne comunista. «Farai la fine di Cafiero mi diceva angosciata mia madre alludendo a quel suo parente anarchico, l’amico di Bakunin, di cui non sapeva niente, tranne che era morto pazzo, dopo aver regalato le sue terre ai contadini», ricorda. Non è andata così.


S’iscrisse al Pci dopo la liberazione. Nel 1945 iniziò a lavorare all’Unità, per poi diventarne direttore nel 1956, appena trentenne. Dissidi con Togliatti produssero il cambio alla direzione e il ritorno in Puglia quale segretario regionale. Eletto deputato nel 1968, dal 1973 fece parte della direzione del partito e della segreteria Berlinguer. Ha provato a dare il proprio contributo ideale, valoriale nella complessa mutazione Pci-Pds-Ds-Pd. «Non appartengo a quelli che si pentono del loro passato. Sì, sono stato comunista. Peggio, sono stato uno dei massimi dirigenti del Pci e non è che non veda errori e orrori e non li senta sulla mia pelle. Il fatto è che accanto a questi io ho la piena consapevolezza della parte che i comunisti hanno avuto nella lotta per la democrazia. Non era Stalin, ma la patria che ci chiamava. Lo stesso partito che però per il suo legame con l’Urss ha contribuito a rendere incompiuta la democrazia italiana», dice.

La necessità di mettere in campo una forte idea di ricostruzione del paese, ma inseparabile dalla lotta per il riscatto sociale. Questa è la storia di una democrazia difficile e di un’unità incompiuta. È il Pci che spiega la storia d’Italia oppure è la storia d’Italia che spiega il Pci? Si domanda e domanda Reichlin nella biografia, che si fa riflessione sull’oggi, La mia Italia (Donzelli, 149 pagine, 18 euro). Affiora l’irrequietezza per un lutto non elaborato, per la debolezza del modo in cui è stata gestita la crisi del Pci e la confluenza nel nuovo partito: «Chi come me viene dalla sinistra storica non può sentirsi innocente, se il nuovo soggetto politico in cui siamo approdati sembra così incerto, quasi senza un’anima e privo di un pensiero lungo sul futuro».

Reichlin pone al centro della sua analisi la potenza dell’economia che erode il potere della politica in quanto interesse generale. Denuncia quel che sappiamo, la concreta formazione di una plutocrazia mondiale mai vista prima. Livelli di concentrazione delle risorse paragonabili a prima della Rivoluzione francese. «L’egemonia della sinistra si ricostruisce mettendo al centro la persona umana e la sua liberazione», scrive. È vero quel che premette nella prima pagina: «Non è una predica, né un furbesco chiamarsi fuori». Ma è la nostalgia per la foto di gruppo di giovani intellettuali, che si mischiarono a tanti piccoli Di Vittorio, ad animare le pagine.

L’autore argomenta la crisi di una costituzione materiale, del modo di stare insieme. Considera il “nuovismo” renziano l’immagine di un paese “senza”, un’immagine sospesa nel vuoto. Afferma che il significato etico della politica si può ritrovare non in astratto, ma nell’asprezza della lotta e del fare.

La mia Italia è la storia di una generazione che non si è tirata indietro. Ugo Stille scrisse in memoria di Giaime Pintor: «La nostra amicizia significò allora un “crescere assieme”. Era un legame che faceva di ciascuno di noi quasi una parte dell’altro». Allora viene alla mente l’immagine più bella del libro pubblicato da Donzelli. Piombiamo nella Roma dell’otto settembre 1943, il trauma e la vergogna di una intera classe dirigente in fuga, la scomparsa dello Stato, i bombardamenti e la lotta partigiana. Reichlin arriva in bicicletta dai Castelli romani e incontra solo macerie. Cerca l’amico e compagno di scuola Luigi Pintor. Giaime, il fratello più grande, che era ufficiale dello Stato maggiore, chiede loro di accompagnarlo da Leopoldo Piccardi, al ministero dell’industria in via Veneto. Piccardi era il solo membro del governo rimasto a Roma e il Palazzo era completamente deserto. Il Cln vuole aprire i depositi militari e distribuire le armi. Poi attraversano Piazza dei Cinquecento per giungere a una caserma. Qui, ricorda Reichlin, un tranviere scende dalla vettura e si unisce ai soldati italiani. Continua a sparare fin quando resta steso a terra per quel possibile che è la democrazia.

Reichlin, vorrei cominciare dalla Puglia, dall’Ilva a Taranto. Un’impresa in perdita dove si muore. Il 17 novembre è deceduto Cosimo Martucci, operaio 49enne. Lo scorso giugno il trentacinquenne Alessandro Morricella è stato travolto dalla ghisa fusa e vapore, mentre lavorava alla base dell’altoforno numero 2. Che cosa ha rappresentato nella sua vita il centro siderurgico?
«È stato un impegno grandissimo, perché è venuta a Taranto negli anni in cui ero lì. Non avevamo nessuna esperienza di che cos’è una fabbrica come l’Ilva. Il problema generale che ci investì era l’idea che fosse l’inizio di una vera e propria industrializzazione della Puglia. L’impianto era grandioso, uno dei maggiori centri siderurgici d’Europa. Non avevamo le idee chiare sull’impatto ambientale, poiché non avevamo nessuna esperienza precedente in questo senso. Ci battevamo molto per rendere democratiche le assunzioni. Allora furono assunti migliaia di operai attraverso canali clientelari. E cercavamo di fondare in mezzo a questa massa del tutto nuova il sindacato. Ho trascorso molte giornate davanti ai cancelli, perché era l’unico modo di parlare direttamente con gli operai. Arrivavano camion, pullman da varie parti della Puglia. Non era facile farsi ascoltare durante i cambi di turno, comizi di cinque, dieci minuti. Creammo un’organizzazione. Lo fece essenzialmente la Fiom, ma allora i rapporti tra sindacato e partito comunista erano strettissimi, eravamo la stessa cosa. Il centro si è anche molto – troppo – esteso, perché non era così all’inizio. Avevo già la preoccupazione, l’assillo degli effetti sul rione Tamburi esposto alle nocività della produzione. Ricordo riunioni su riunioni fatte con i compagni del luogo».

La zuppa del demonio non bastava.
«A noi l’Ilva sembrò una svolta molto insufficiente. Quando si ruppe il triangolo industriale e venivano coinvolte Emilia, Marche e in parte Toscana, la nostra linea fondamentale era che lo sviluppo del Mezzogiorno sarebbe dovuto essere uno sviluppo basato su una trasformazione molecolare della società meridionale. Fondamentalmente creare capitale sociale. Non credevamo che potesse avvenire attraverso l’imposizione di industrie calate dall’alto. Io avevo chiarissimo in testa, credo di averlo anche molto scritto, che il modello di sviluppo sarebbe dovuto partire dalla massa reale dei lavoratori pugliesi che erano i contadini e quindi uscire prima di tutto dai patti colonici semi feudali. I socialisti mi accusarono di “agrarismo”, mentre invece ritenevo che questa fosse la linea più feconda, più avanzata, di suscitare dal basso come era avvenuto in Emilia. Pensavo, mi illudevo, che soprattutto in Puglia, dove era meno forte l’arretratezza (era primitiva: una cosa diversa), si potesse lavorare su un nuovo impasto tra la forza lavoro, erano lavoratori straordinari, e una piccola e media borghesia non di rendita ma attiva».

 Nel 1962 andò a Bari con il compito di dirigere il Pci regionale. Nella raccolta Dieci anni di politica meridionale ‘63-’73 si domandava retoricamente: «È stato industrializzato il Mezzogiorno?» Per poi rispondersi: «In realtà si è industrializzato ulteriormente il Nord». Che cosa è andato storto?
«Il problema fondamentale era quello di mutare la funzione del Mezzogiorno nella vita nazionale. La scelta dell’industrializzazione era stata fatta, avendo la Cassa abbandonato dall’inizio degli anni Sessanta gli investimenti massicci in agricoltura. Tutti gli incentivi erano stati dirottati nel finanziamento dei poli industriali. Parliamo di migliaia di miliardi tra pubblico e privato. Il Nord, grazie alla particolare condizione sociale e politica della realtà meridionale, ha potuto sfruttare le riserve della mano d’opera espulse dalla campagna, ha utilizzato le materie prime e i semilavorati dalle industrie di base e inoltre ha utilizzato la crescita del tessuto urbano meridionale per alimentare certi consumi. L’industrializzazione doveva essere in funzione dell’assetto civile e territoriale del Mezzogiorno e non del mercato. Ha dominato un feudalesimo moderno, espressione di un blocco di potere burocratico, speculativo, parassitario che è locale e nazionale insieme. La rapina delle risorse umane è ciò che mi ha più inquietato. Lo spostamento verso il Mezzogiorno dell’asse dello sviluppo industriale non poteva avvenire ottenendo qua e là qualche nuovo impianto, secondo la logica dei poli ma bloccando l’esodo».

I dati prodotti dal rapporto 2015 dello Svimez (desertificazione industriale, 576mila posti di lavoro persi e al Sud dal 2008 a oggi è raddoppiata la percentuale povertà assoluta) hanno riacceso, per qualche ora, una qualche forma di dibattito pubblico sulla questione meridionale. Lei nelle pagine de La mia Italia la mette al centro della crisi della nazione italiana.
«Nell’ultimo ventennio della questione meridionale non si è più parlato ed è una cosa vergognosa. Non ne ha parlato più neanche la sinistra. Come è noto, ero un dirigente del Pci e mi sono nutrito, ho profondamente condiviso, l’impianto gramsciano togliattiano della questione nazionale italiana. L’unità d’Italia è avvenuta attraverso una rivoluzione passiva, fondamentalmente una conquista regia.

La classe dirigente italiana, poi, compie al suo interno un patto scellerato. Io sono l’industria, produco e mi serve un mercato. Allora non c’era il mercato mondiale e il Mezzogiorno significava avere un mercato protetto. Venti milioni di abitanti totalmente dipendenti dall’ago all’automobile, dal prodotto del Nord e non arrivavano gli stranieri. È stato un enorme mercato che comportava – e questo era il patto – un sostegno alle capacità di consumo dei meridionali. E quindi trasferimenti: almeno un quinto del Pil meridionale è fatto di trasferimenti. Poi il sistema bancario non era in grado di svolgere nel Mezzogiorno la funzione di sostegno a uno sviluppo industriale omogeneo. Le risorse entravano nel circolo finanziario. Era un sistema insostenibile che bisognava cominciare a guardare apertamente in faccia. Non pensare che si trattasse di arretratezza o assenza di educazione. Negli ultimi venti anni, l’arresto dello sviluppo italiano è dovuto in buona parte al cambiamento del paradigma economico mondiale, la mondializzazione. I mercati sono diventati internazionali, il Mezzogiorno ha interessato ancora meno, perché si cercavano mercati ben più ampi».


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martedì 10 novembre 2015

Prima che cali il sipario. In ricordo di Ken Saro-Wiwa

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Il dieci novembre 1995 Ken Saro-Wiwa, scrittore, intellettuale e attivista politico nigeriano, un uomo di pace, venne impiccato nel carcere di Port Harcourt assieme ad altri 8 compagni del Movimento per la sopravvivenza del popolo Ogoni, da lui fondato. Lo ricordiamo con un ritratto di Gabriele Santoro che parte da In cerca di Transwonderland, libro di Noo Saro-Wiwa, figlia di Ken, pubblicato in Italia da 66thand2nd.

Uno scrittore è la sua causa. A cinquant’anni può ancora sognare e avere visioni, ma può anche appassire nella verità. Per questo oggi torno a dedicarmi a quella che è sempre stata la mia preoccupazione principale di uomo e scrittore: lo sviluppo di una Nigeria stabile e moderna, capace di abbracciare valori avanzati, dove nessun gruppo etnico e nessun individuo sia oppresso; una nazione democratica dove i diritti delle minoranze siano protetti, la scolarizzazione sia un diritto, la libertà di parola e associazione sia garantita e dove il merito e la competenza siano considerati prioritari.

Un mese e un giorno, Ken Saro-Wiwa

di Gabriele Santoro

Si può cominciare a scrivere una storia sbagliata da una fotografia felice, da un sorriso che arriva sulla casella di posta e sovverte l’ordine delle priorità, come un atto di resistenza. «Hai bisogno del tempo, della sua cura. La rabbia? È utile solo se si è disposti a rischiare la propria vita per cambiare il sistema. Avevo diciannove anni, quando uccisero mio padre, scomodo per le sue campagne contro la corruzione del governo e il degrado ambientale di una fertile regione agricola provocato da Shell. Del mondo non avevo visto molto. Ho sempre amato viaggiare. Chiedevo spesso a mio padre di andare in vacanza insieme: “Viaggiamo qui, viaggiamo lì”, gli dicevo. “Quando sarai grande”, mi rispondeva. Ed era una frustrazione. Allora ammiravo le mappe, i libri per l’infanzia che ritraevano la varietà delle specie animali. La notte uscivo, oltre la staccionata, per mettermi sotto la luce, continuando così a guardare la mappa del mondo. Sì, fin da piccola volevo viaggiare», racconta Noo Saro-Wiwa.



Dopo un lungo, necessario, volontario esilio è tornata a casa. Si aggira nel piccolo studio di Ken Saro-Wiwa, assassinato a causa dei suoi molteplici talenti, e annota i ricordi, le sensazioni: «Lì dove batteva a macchina i suoi testi e si infuriava al telefono per le ingiustizie subite dagli Ogoni, una rabbia intervallata da fragorose risate di pancia. Negli scaffali dei libri ho trovato un terreno comune con lui e per la prima volta ho immaginato con rammarico il tipo di rapporto che avremmo potuto avere da adulti. Era bravo a raccontare le favole e a intavolare una conversazione, ma non se la cavava bene con gli anni intermedi dell’adolescenza, quando non sei più così malleabile e ti allontani dal cammino di grandezza che aveva tracciato per te. A vent’anni notai che i nostri interessi convergevano soprattutto riguardo ai viaggi. Una volta frugai fra i suoi vecchi passaporti e restai sorpresa nel vedere timbri di paesi come il Suriname. Non lo saprò mai».

L’uomo deve vivere. Mi piace ‘sta storia. L’uomo deve vivere, ripete nel fosso il giovane soldato Mene, protagonista di Sozaboy (Baldini & Castoldi, 275 pagine, 15 euro), capolavoro della letteratura postcoloniale che spicca fra le opere di Ken Saro-Wiwa. In trincea non sai più neanche quale sia il nemico. Puoi solo chiederti: allora per che cosa sto combattendo? Sai che la guerra iniziata non può finire e tu perderai, il tuo villaggio perderà la propria anima.

There’s something happening somewhere. Una strofa che racchiude l’angoscia di una distanza incolmabile, di un’ingiustizia senza rimedio. I vent’anni trascorsi dal 10 novembre 1995 non leniscono la solitudine della forca nel cortile del carcere di Port Harcourt, che Saro-Wiwa condivise con altri otto compagni di lotta contro quello che non esitava a catalogare come un genocidio culturale, ambientale, sociale provocato dall’irresponsabile sfruttamento della risorsa petrolio all’interno del Delta del Niger. Con lui sul patibolo furono condotti gli attivisti Ogoni Saturday Dobee, Nordu Eawo, Daniel Gbooko, Paul Levera, Felix Nuate, Baribor Bera, Barinem Kiobel e John Kpuine.

Nello splendido reportage letterario In cerca di Transwonderland – Il mio viaggio in Nigeria (66thand2nd, 328 pagine, 18 euro) Noo mantiene sempre elevato il tono della narrazione, la densità delle pagine, non concedendo terreno al risentimento. Le descrizioni sono vivide, la scrittura è composta. In poche righe riesce a raffigurare che cos’è oggi la natia Port Harcourt, la distopia di un ambiente alle prese con un’urbanizzazione rapace, legata al giogo petrolifero. Il denaro, il potere nella peggiore accezione familistica, l’intricata rete della corruzione che sconvolge qualunque norma sociale: «Dopo l’assassinio di mio padre ho capito che la corruzione è un mostro in grado di sconfiggere anche i più agguerriti difensori della morale», afferma.

Noo sogna di trovarsi in un posto in cui il divario fra aspettative e realtà non sia così alienante. Si sente piombare nella distanza fra il patrimonio di tradizioni, così ricco e controverso, e una società moderna. Questo abisso è in fondo il cuore della sua ricerca, delle domande che non hanno una risposta semplice. Sembra di rileggere la ragazza di una splendida raccolta di racconti di Ken Saro-Wiwa. In Casa dolce casa, il primo racconto di Foresta di fiori (Edizioni Socrates, 170 pagine, 10 euro), una studentessa prova sentimenti laceranti, sospesa fra tradizione e modernità urbana, nel ritornare al proprio villaggio di Dukana per trascorrere le vacanze con la madre:

«(…) Attraversammo piccoli villaggi sonnolenti ritagliati nella foresta, che abbracciavano amorevolmente la terra e il fogliame. Vedevamo spesso in lontananza una fiammata di gas, che ci rammentava che questo era un paese ricco di petrolio e che proprio dalle viscere di questa terra proveniva il liquido tanto ambito, che alimentava gli ingranaggi della civiltà moderna. Provai allora quello straziante dolore che la conoscenza riserva a coloro che riescono a distinguere l’abisso tra ciò che è e ciò che potrebbe essere. E il mio pensiero andò agli uomini e alle donne di Dukana, che recitavano la propria vita sullo sfondo di quelle grandi forze che non avrebbero mai capito».

Talvolta anche gli oggetti hanno un’anima. Nella seconda foto che mi manda Noo, un ritratto di famiglia domenicale, Ken è illuminato da un sorriso con la pipa inseparabile. Sono serviti anni per recuperare e identificare la materia che di lui restava. A cercare dentro la fossa comune una qualche forma di umanità. Il gesto della ricomposizione scheletrica, a dieci anni dall’esecuzione della condanna, commuove. Anche la pipa è tornata a posto: «Zio Owens, medico, ci aiutò a ricomporre ogni femore, perone, metacarpo e costola, calmando le nostre menti con l’operosità. Invano cercai il viso nel teschio. Mancavano i due incisivi. Ma quando Junior posizionò una pipa tra le mascelle, i denti si trasformarono in quel suo sorriso familiare».

Il Nobel per la letteratura Wole Soyinka sapeva che le rassicurazioni sulla sorte dell’amico Ken Saro-Wiwa, fornite dal generale golpista Sani Abacha a Nelson Mandela, erano del tutto destituite di credibilità. Avrebbero impiccato un uomo di pace, un intellettuale, dopo un processo sommario, illegale, costruito attorno a un’accusa infondata, di essere cioè responsabile della morte di altri attivisti Ogoni col movente di contrasti interni al movimento. Saro-Wiwa dichiarò Shell persona non grata, pretendeva che dopo la riparazione dei danni, si mettesse al tavolo per dialogare, per una differente politica industriale. Accusava l’esercito di eseguire gli ordini della multinazionale. A partire dal 1980 i ricavi della produzione lasciati dal governo federale per la popolazione locale erano pari all’1.5% del totale.

Il territorio Ogoni erano oltre 400 miglia quadrate di terrazze costiere a nordest del Delta del fiume Niger, con un’altissima densità abitativa, che a inizio Novecento patirono lo stravolgimento dell’invasione colonialista britannica. «Gli Ogoni erano sonnambuli in marcia verso l’estinzione, verso uno sterminio di natura politica, del tutto inconsapevoli dei danni presenti e futuri del colonialismo interno. Avevo accettato la responsabilità di svegliarli dal loro sonno secolare», scrive Saro-Wiwa. È conscio della necessità della costruzione di un’organizzazione di massa, di una fabbrica del dissenso. Gli Ogoni non erano abituati all’attivismo politico. Nel 1990 formarono il Mosop e concepirono la Ogoni Bill for Rights per il controllo e l’utilizzo delle risorse ai fini dello sviluppo indigeno. Il 4 gennaio 1993 avvenne l’impensabile. Trecentomila Ogoni manifestarono senza disordini per il riconoscimento dei propri diritti. Tra aprile e giugno 1993 Saro-Wiwa fu arrestato quattro volte senza diritti di difesa.

Nella plurisecolare cultura Ogoni il carcere non esisteva, si scontavano altre pene, dalla multa economica alla condanna capitale. Nessuno era mai stato incarcerato o punito per reati di opinione. Dunque una novità colonialista: «Una novità che mal si adattò alla nostra psiche. La prigione divenne un luogo da evitare a tutti i costi. Se eri lì dentro vuol dire che eri un reietto della società».
Soyinka ha dedicato un capitolo di Sul fare del giorno (Frassinelli, 707 pagine, 18.50 euro) al compagno con cui condivise un tratto di strada. Citiamo da Requiem per un ecoguerriero:

«(…) Sulle strade di Auckland mi si accostò un’auto su cui erano il giovane Ken, figlio del condannato, alcuni membri di Body Shop e di altre Ong. Ken balzò fuori dalla macchina con una dichiarazione ciclostilata della Shell. Se Ponzio Pilato prima di consegnare Cristo ai suoi aguzzini avesse mai scritto una lettera, sicuramente sarebbe stata simile a quella che mi trovai a leggere. Se fosse accaduto qualcosa di imprevisto ai nove Ogoni – recitava la dichiarazione – i responsabili andavano cercati tra gli agitatori la cui tattica aggressiva non aveva fatto altro che inasprire l’atteggiamento del regime militare vanificando l’attento lavoro di diplomazia silenziosa intrapreso dalla compagnia.

Certo eravamo noi i colpevoli, non la Shell! Non le compagnie petrolifere. Non il regime militare, le aziende sue alleate, le sue corti illegali, ma noi! Gli restituii quel trattato di untuosità aziendale che aveva il solo scopo di affrancarsi da ogni responsabilità. (…) La dichiarazione della Shell poteva anche non essere una condanna formale, ma era un certificato di morte così chiaro che non riuscii più a pensare a Ken come una persona ancora nel mondo dei vivi e persi qualunque desiderio di incontrare politici e uomini di Stato». Dopo l’esecuzione la Nigeria fu espulsa dal Commonwealth.

Ken Saro-Wiwa nutriva una certezza. Un giorno non lontano le compagnie sarebbero state chiamate a rispondere di quella che definiva i crimini di una guerra ecologica e della sporca guerra contro la minoranza etnica Ogoni. Perseguì due linee guida: animare una resistenza popolare appassionata e non violenta; internazionalizzare grazie al proprio cosmopolitismo il dramma di un’etnia che contava non più di 500mila persone. Questa attività di sensibilizzazione incontrò non pochi ostacoli. All’inizio degli anni Novanta, come scrive in Un mese e in un giorno, non ricevette perfino da Greenpeace  e Amnesty l’attenzione necessaria. Centrò entrambi gli obiettivi. Il mondo conobbe il rischio di estinzione di una popolazione che dell’agricoltura, della pesca, faceva il proprio sostentamento. Saro-Wiwa rifuggiva la “larva distruttiva del tribalismo”, dunque la sua lotta democratica aveva una visione complessiva dell’incidenza del petrolio sulla costruzione dell’identità nazionale e mirava alla caduta di una brutale dittatura militare.

Nel 1996 Jenny Green, avvocato del Center for Constitutional Rights di New York e rappresentante legale della famiglia, avviò la causa contro la Shell, accusata di corresponsabilità nella tragica fine di un simbolo e nella generale repressione violenta del Movimento per la sopravvivenza del popolo Ogoni. Nel 2009 Shell, professando la propria estraneità ai fatti addebitati, ha versato 15 milioni e mezzo di dollari per evitare un processo mediaticamente ingombrante.

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martedì 3 novembre 2015

L'America nelle canzoni di Springsteen

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di Gabriele Santoro

«Guidavo da solo sull’autostrada fra Ferentino e Frosinone, non esattamente la Route 66; avevo i finestrini aperti, Thunder Road sul riproduttore di cd, mi pareva come se Springsteen e la E Street Band stessero suonando espressamente per me, e mi sono dovuto fermare alla prima piazzola per buttare giù questi appunti», ricorda Alessandro Portelli. Badlands (Donzelli, 218 pagine, 25 euro) è uno studio pregevole, denso, che rivela la passione del professore di letteratura angloamericana, e molto più, per gli universi di riferimento e di senso springsteeniani. Portelli conosce la storia, ma soprattutto sa raccontare le storie. È un viaggiatore instancabile nell’America che più ama, quella fondata sul lavoro.


Questo libro nasce a Princeton, dove la scorsa primavera l’autore ha tenuto un corso su Springsteen. Non l’ha mai incontrato personalmente, però condivide, quando possibile, l’energia, la cerimonia e lo spazio comune dei suoi concerti: «Ma come faccio ad andarmene se questo non smette? Lui ritorna ancora e ci regala (Roma, 2013) un Thunder Road acustico, che ti fa venire voglia di ricominciare. Un paio di chilometri a piedi fino alla macchina e poi un’ora nell’ingolfato traffico notturno dei reduci. A casa mia moglie mi fa: in queste condizioni, mai più. Io invece sto bene. Se avessi un altro biglietto, sarei pronto a rifare tutto da capo», dice.

Badlands è un testo vitale, appassionante e agile per la sua capacità divulgativa di creare ponti. Portelli ben ricostruisce le influenze di Bob Dylan, Woody Guthrie e Pete Seeger sul rocker del New Jersey. Mette al centro della sua analisi il lavoro e il sogno Americano, lacerato ma tuttora evocativo, dirimenti nell’opera di Springsteen, cantore delle speranze, delle sconfitte e della realtà tutt’altro che monolitica d’oltreoceano.

Come sottolinea Portelli, il “Boss” non è un poeta, non è un profeta politico, ma si prende la responsabilità di rammentare le promesse non mantenute, il diritto alla ricerca della felicità. Dà una dimensione narrativa, attingendo alla migliore tradizione della musica popolare, al proprio rock adulto e lo ancora tanto alle sue origini, quanto al tempo che vive. Le note, le strofe dolorose e i ritornelli entusiasmanti non svaniscono come un effimero oggetto di consumo, perché hanno lo spessore di una memoria culturale, affrontando temi fondativi della stessa cultura nordamericana.

Professore, vorrei cominciare da una curiosità. Perché ha ripescato dall’album The Ghost of Tom Joad una canzone come The Line, trattandola così approfonditamente?
«Per questo libro ho riascoltato l’intero canone di Springsteen. Da ogni ascolto possono affiorare nuove idee da contestualizzare. Non avevo mai pensato a questa canzone. In quel disco inizia a esplorare il sogno americano degli emigranti. È il sogno della terra americana dell’abbondanza. Come per le vite dei proletari americani, che canta, si spalanca l’abisso tra mito e realtà. Nello stesso album in Sinaloa Cowboys assume il punto di vista dei giovanissimi migranti messicani dell’industria della droga. In Balboa Park raffigura la violenza fisica sul corpo di chi cerca una vita migliore oltre il confine. Il titolo The Line è in realtà una linea di frontiera sfumata, ambigua. La necessità del migrante non si può respingere: We send ’em home and they come right back again/Carl hunger is a powerful thing. Il confine è il luogo dove i mondi, che tendiamo a separare, si toccano, mescolano e sovrappongono. Poi è stato importante il lavoro di analisi dei video, che in precedenza facevo poco».

Che cosa aggiungono i video all’ascolto, all’analisi dei testi e all’amplissima bibliografia?
«Illustrano la rilevanza della dimensione rituale nei concerti, dove nulla è lasciato al caso. Quello che fanno Springsteen e la E Street Band sul palco è lavoro, nel senso più pieno del termine. Sudore e fatica costruiscono un rapporto, una visione collettiva. In numerosi video l’occhio non può non accorgersi del sudore, che progressivamente si allarga sulle spalle e le ascelle di Springsteen. Questo è il mio mestiere, dice. Per esempio la lettura di We are alive, che propongo, si è rafforzata, guardando un’esecuzione live a Londra nel 2012. Il palco è buio, Springsteen è da solo con la chitarra. Mentre canta l’ultimo verso della strofa, col suo annuncio di unità e lotta (Our spirits rise/to carry the fire and light the spark/To stand shoulder to shoulder and heart to heart), di colpo si accendono le luci e la banda entra marciando a pieno volume. Avevo intuito poi una citazione (Il corpo marcisce nella tomba, ma lo spirito risorge) da una grande canzone della Guerra Civile: “John Brown’s body is a-mouldering in his grave, but his soul is marching on”. Il video mi ha confortato. Jake Clemons, il nipote di Clarence, ha confermato la mia intuizione vibrando forte un tamburo militare della Guerra Civile».

Nell’introduzione cita un altro pezzo, Sherry Darling, che propose agli ascoltatori italiani nel corso della trasmissione anni Ottanta, di Radio 3,  Ascolta Mister President sulla canzone politica dei Settanta. Che cosa la colpì?
«Sì, in quell’occasione la preferii a The River. È una canzoncina allegra, rock and roll adolescenziale. A prima vista sembra quanto di più leggero si possa immaginare. La ragazza, la macchina, il sole, la spiaggia. Però sul sedile posteriore della macchina c’è la madre della ragazza, che deve essere accompagnata all’ufficio di collocamento: Your Mama’s yappin’ in the back seat/Every Monday morning I gotta drive her down to the unemployment agency. Generalmente nel rock non si parla di persone anziane e soprattutto non si parla di lavoro, di disoccupazione, della difficoltà di arrivare alla fine del mese. Dunque diciamo che Springsteen dimostra la capacità di inserire dentro a un momento di leggerezza la consapevolezza del mondo proletario da cui proviene questa musica. Il rock anche nella sua versione più leggera ritrova il contesto proletario e popolare in cui era nato. Non solo proletario. Nella canzone si snoda anche l’intreccio etnico e di genere. La signora torna poi al ghetto con la metro: She can take a subway back to the ghetto tonight. Non solo è anziana, in cerca di lavoro, ma vive nel ghetto. Probabilmente pensando al contesto di altre canzoni di Springsteen è portoricana».

Negli anni come è riuscito Springsteen a mantenere una certa autenticità nella narrazione del lavoro, dall’universo fabbrica alle macerie materiali e spirituali della deindustrializzazione?
«Il padre era un veterano di guerra, poi arrangiatosi con mille impieghi per sbarcare il lunario. È nato in quel mondo, che l’avrebbe consumato senza l’emancipazione e la liberazione del rock and roll. Per una lunga fase, almeno fino a Born in the Usa, descrive il mondo che conosce per esperienza. Noi concepiamo la classe operaia automaticamente come un elemento di contrapposizione a un’altra classe. Negli States la parola classe non si usa quasi mai. Springsteen non usa mai la parola classe, perché la cultura operaia negli Stati Uniti non è una cultura di contrapposizione. Ma un universo culturale a sé, un’identità autosufficiente, non necessariamente con una collocazione sociale in termini di conflitto. Più avanti, soprattutto dopo il trasferimento in California e le trasformazioni nella sua vita personale, il rapporto con il mondo del lavoro è in primo luogo non tanto un rapporto di partecipazione, quanto di solidarietà ed empatia. Al fatto che la sua vita è ormai lontana da quella realtà supplisce con le letture, con le fonti, con i giornali, con gli incontri con organizzazioni operaie e quelle dei reduci delle guerre, girando l’America. In The Ghost of Tom Joad, e anche in molti brani di Wrecking Ball, il tema del lavoro riconquista la scena. Le sue canzoni hanno sia l’età sia la collocazione sociale del momento storico in cui le scrive».

Quale idea di mobilità sociale declina Springsteen?
«L’idea di mobilità verso l’alto, l’idea che chiunque può con spirito costruttivo risalire la scala e raggiungere una posizione sociale ed economica più agiata è il cuore del sogno americano. Lui trent’anni fa già certificò il blocco di questa mobilità ascensionale, che pure criticò per l’esasperazione individualistica. In The River canta: “Sono nato giù nella valle dove, caro signore, fin da giovane ti insegnano a rifare quello che ha fatto tuo padre”. L’incubo che si aggira in tutta l’opera di Springsteen è quello di ripetere la vita dei propri genitori: “Mio padre si suda lo stesso lavoro mattina dopo mattina/Io rientro a casa percorrendo le stesse sporche strade dove sono nato”, recita Used cars. Con la nuova macchina usata non si va lontano. The River è una denuncia del fatto che la promessa di mobilità sociale è un sogno che è una menzogna e dunque una maledizione. Lui è l’eccezione, l’uno sul milione. Gli altri all’autolavaggio sconteranno per sempre la pena. Il tema è la monotonia senza scopi della giornata lavorativa, la mancanza di senso. I lavoratori sotto qualificati, protagonisti delle sue canzoni, non generano alcun prodotto. Non possono neanche rivendicare l’orgoglio della fatica. Come dichiara in un’intervista: “Il mio compito è di misurare la distanza fra le promesse e la realtà”. In the day we sweat it out on the streets of a runaway American dream: l’attesa dello sfuggente Sogno Americano. La ricerca del miraggio, la fuga, le automobili, la notte. Per Springsteen, rompendo con la tradizione letteraria e cinematografica americana, si fugge in due per la salvezza da una società feroce, per evadere alla città degli sconfitti di Thunder road, che è la sintesi di tutti i temi di liberazione, speranza, amore legati all’automobile.

So you’re scared and you’re thinking/That maybe we ain’t that young anymore/Show a little faith there’s magic in the night
Well the night’s busting open/These two lanes will take us anywhere/We got one last chance to make it real
We’re riding out tonight to case the promised land

La mobilità dunque diventa orizzontale. Se non si può andare in alto, almeno tiriamoci fuori da questo posto quando ancora siamo giovani: Oh-oh, Baby this town rips the bones from your back/It’s a death trap, it’s a suicide rap/We gotta get out while we’re young/`Cause tramps like us, baby we were born to run. Poi lo rivendichiamo, perché c’è stato promesso e quindi abbiamo diritto a sognarlo, abbiamo diritto a volerlo. No surrender, niente resa: “Voglio dormire sotto cieli di pace nel mio letto di amore, con il vasto paese spalancato davanti agli occhi e i sogni romantici nella mente”».

In che modo Springsteen ha sviluppato nella propria narrazione la dimensione del sogno e quella della speranza?
«Dream Baby dream è il titolo di una canzone dell’ultimo album. L’idea è di continuare a sognare, soprattutto aprendo il nostro cuore: Come on, we gotta keep on dreaming/Come open up your heart. Il sogno americano di Springsteen è cominciato come un sogno di evasione liberatoria, dove la coppia era matrice di connessioni, che si sono mano a mano sviluppate in un sogno di comunità. Una hometown ideale dove nessuno fa da solo (Long Walk Home). È una moderata utopia di provincia, che non è un sogno da tramandare, ma neanche da buttare via. Insistendo, forse, c’è un altro ballo. Per sogno qui intendiamo tre cose: l’oggetto sognato, il lavoro del sognare, il soggetto che sogna. Springsteen mette ben in chiaro che l’oggetto sognato è illusorio, in parte irraggiungibile, in parte indesiderabile. Rimane però la soggettività del sognante, che non viene messa in discussione ed è quella a tenerci vivi. Occorre tenersi aperti a un’idea, a una possibilità di sogno, di cambiamento, dunque. Stay hungry, stay alive».

«Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato», è l’epilogo de Il grande Gatsby. È molto interessante il parallelo letterario che lei argomenta con l’opera di Francis Scott Fitzgerald.
«Nel pieno degli anni Venti, nel cuore del boom e della mitologia dell’arricchimento facile, Fitzgerald ci suggerisce che l’unico modo in cui un ragazzo di paese, che è nato povero, possa pensare di arricchirsi è in qualche modo il crimine. E questo è un dato di per sé abbastanza sorprendente in quell’epoca. “Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgiastico che anno per anno indietreggia davanti a noi. C’è sfuggito allora, ma non importa – domani andremo più in fretta (Born to run?), allungheremo di più le braccia…e una bella mattina…”. Ha individuato in Daisy l’oggetto amato fantomatico da inseguire, ma se il sogno fallisce, non si rinuncia a sognare. Il piccolo gangster Jay Gatsby è grande, perché non perde di vista i sogni. Continua a guardare la luce verde sul molo di Daisy. Continua a desiderare, a illudersi magari. La capacità di coltivare comunque una visione lo rende grande».