lunedì 21 dicembre 2015

La leggenda del trombettista bianco

Il Messaggero, sezione cultura pag. 21,
21 dicembre 2015



http://www.minimaetmoralia.it/wp/la-leggenda-del-trombettista-bianco-di-dorothy-baker/

di Gabriele Santoro

Dorothy Baker mette subito in chiaro le cose con il lettore. Scrive che non sta per raccontare la caduta di un grande eroe, ma qualcosa di maledettamente più interessante. Nella vicenda di Rick Martin c’è un cuore che suona animato da un talento formidabile, che non ha alcun rispetto del corpo mentre asseconda il destino.

Fazi pubblica un classico, La leggenda del trombettista bianco (234 pagine, 16 euro, traduzione di Stefano Tummolini), il primo romanzo sul jazz, col quale l’autrice cresciuta in California esordì nel 1938. L’opera prima dell’allora trentunenne riscosse il favore della critica e conquistò un buon pubblico di lettori. Come nel libro Baker ha sempre provato una certa soggezione verso le implicazioni totalizzanti del talento, e combattuto la sensazione di non aver mantenuto le promesse dell’esordio che l’ha consumata nei successivi venticinque anni di carriera. L’irrisolvibilità artistica appare come un’ombra costante e al contempo la ragione che agita il trombettista.


Rick si aspetta molto dalla vita, perché ha un dono da difendere, che lo sottomette all’arte. L’autrice prende una posizione, dichiara una passione smisurata per il proprio personaggio che s’ispira alla musica, ma non alla vita, del musicista Leon Beiderbecke, dipendente dall’alcol, deceduto appena ventottenne: «Prima o poi smetteranno anche di suonare i suoi dischi, e la puntina gratterà a vuoto sul solco. Quando quel momento arriverà, Rick Martin sarà morto davvero, morto e sepolto ed è un pensiero che mi fa star male».

E ancora: «L’impulso creativo è l’impulso creativo, in qualsiasi campo lo si trovi. E Rick faceva così bene quello che sapeva fare che personalmente continuerò ad avere i brividi ogni volta che sentirò pronunciare il suo nome». Nel 2007 l’ottimo riscontro ottenuto dalla ripubblicazione di Cassandra al matrimonio e poi di questo titolo, come a ragione asserisce Emily Cooke, ha smentito il senso di fallimento, inadeguatezza che ha accompagnato il suo tramonto. Scomparve nel 1968 a causa del cancro, è viva nei suoi due libri più belli, ancora letti. Baker avrebbe voluto essere una musicista. Da bambina suonava il violino, al quale rinunciò per una deformazione alla mano provocata dalla polio. Ha sperimentato quindi la materia trattata.

Ogni situazione cattiva è una canzone blues che aspetta di avverarsi, sosteneva Amy Winehouse. Baker ci introduce in un ambiente familiare desocializzante. Rick è orfano di madre, morta a causa del parto. Il padre lo molla ai parenti più stretti, sostanzialmente indifferenti. Sappiamo che fino all’età di otto anni vive a Los Angeles. Trascorre la maggior parte del tempo da solo, leggendo qualsiasi tipo di libro. Mostra i segni precoci di una vita contemplativa, scrive Baker.

È interessante come l’autrice descriva l’istituzione scuola, costrittiva, incapace di riconoscere, dunque tutelare, il talento diverso di Rick. Il Tribunale per i minorenni su ingiunzione della Lowell High School vuole metterlo sulla retta via. Sappiamo che alle elementari impara a strimpellare il piano, e legge in modo fulmineo la musica. Poi quattordicenne si sveglia all’alba per suonare il pianoforte alla Missione delle Anime. Davanti alla vetrina del banco dei pegni respira gli strumenti che non può permettersi. Il resto è una questione d’istinto, di dedizione e determinazione feroce a essere il più bravo di tutti.

La leggenda del trombettista bianco si fonda sulla storia di un’amicizia profonda. A cambiare l’esistenza di Rick è un incontro. Smoke è un nero che lavora saltuariamente come lui al bowling per sbarcare il lunario. Baker restituisce il clima della tensione provocata dal razzismo. La loro amicizia ha però la proprietà mistica della musica, anestetizza il dato razziale. Tra l’altro nel titolo originale dell’opera (Young man with a horn) non è segnalato il colore della pelle. Smoke gli spiega il ritmo, la pienezza della nota. Il bianco Rick ha la stoffa per emergere in una jazz band negra.  Smoke viene prima della musica, che al Cotton Club era purissima, un interesse che Rick con i propri eccessi non tradisce mai. Smoke ci propone la più esaustiva delle argomentazioni riguardo al talento: «Rick, ti vai a pescare le cose prima che gli altri sappiano che esistano e poi le tiri fuori come se cadessero dal cielo».

Colpisce la qualità delle descrizioni in cui c’è tutta la psicologia del nostro personaggio: «In termini di colore, gli occhi di Rick erano difficili da descrivere; più che avere un colore preciso, erano luminosi e intensi. Bruciavano, come gli occhi di un febbricitante o di un fanatico, di un fuoco profondo e deciso, che minacciava di travolgerti se non lo tenevi a bada».

La scrittrice pone il proprio sguardo sugli anni Venti, su quella che forse fuori luogo è definita età del jazz, sulla fede verso un progresso effimero che culmina con la Grande Depressione del ’29. E accoglie il rifiuto del suo musicista. Sostiene che Rick sarebbe potuto essere uno dei così tanti giovani di belle speranze che si stavano facendo una posizione nel mondo della finanza. Non aveva però né l’aggressività, né lo spietato ottimismo dei venditori.

A lui della musica non importavano i soldi, quella roba che cercava di fare non esiste al mondo. Non si può fare con una tromba e in quella ricerca c’è il principio di autodistruzione. Rick ci dice qualcosa sulla dolce malinconia del riconoscimento, dell’applauso, dell’essere una stella. Il successo si cura solo nei locali intimi, nei sottoscala, che forse sono il posto più sincero dove la vita e la musica possano accettare di incontrarsi. Fare musica solo con quelli della sua qualità. Lui aveva bisogno del conforto dello sguardo affacciato dal molo sull’infinitezza dell’oceano, l’unico punto di raccordo con l’esistente.

L’amore impossibile e il matrimonio con Amy North che tormenta Rick sembra marginale rispetto alla necessità portante della narrazione. Della sposa conosciamo l’omosessualità, che ricorre in altre opere bakeriane, l’assenza di talento che intende compensare con quell’unione e in qualche modo il bisogno di Rick di sentirsi amato.

A Dorothy Baker interessa raffigurare quel punto esatto in cui genio e follia sono inscindibili almeno per qualche istante, prima di prendere ognuno la propria strada. Viene in mente una scena splendida del documentario Amy – The girl behind the name. Winehouse è con Tony Bennett presso gli Abbey Road Studios per registrare un duetto, Body and soul. Si accerta che prima dell’incisione ci sia una prova. È felice perché avrebbe fatto ingelosire il padre. È ironica, eccitata, poi insoddisfatta della propria interpretazione. «Sono nervosa». Si scusa con il mito della propria infanzia, vorrebbe addirittura rinunciare: «Dovremmo ricominciare da capo. Sono stata terribile, perdonami, non voglio farti sprecare il tempo».

Lui la rassicura che sta andando benissimo, che può arrivarci a quella nota. «Tu vai di fretta? Io no, allora abbiamo tempo». Poi trova la chiave d’accesso alla sua voce, chiedendole se sia mai stata influenzata dalla propria grande amica Dinah Washington. Amy esplode, il volto s’illumina, tira fuori il carattere davanti al microfono. È luminosa. Poi domanda della precoce scomparsa di Washington e confessa: «Il minuto in cui hai iniziato a parlare di Dinah l’abbiamo fatto. Game over». I think we got it.

Are you pretending, it looks like the ending
Unless I could have one more chance to prove, dear.

È morta a ventisette anni. Ventisette. «Volevo sottrarla alla droga che l’avrebbe uccisa. Era un piccolo angelo, un piccolo angelo. Che devastazione», affermerà poi Bennett. Baker scrive che Rick, mentre era seduto al piano e suonava con la testa piegata di lato, le labbra arricciate e i capelli illuminati dal sole, non si accorgeva della gente che entrava nella Missione delle Anime. Ed essi erano convinti che fosse un angelo. Ha pianto a lungo Bennett. Amava l’unicità, l’irripetibilità dunque l’onestà delle interpretazioni di Winehouse. Per usare le parole dell’autrice nel romanzo risuona la verità, parlando del confine sfumato tra il saper suonare e il sapersi adattare alla vita, della differenza fra bene e male in quella forma d’arte chiamata jazz.

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Scrivere è uscire dalle cause prevedibili. Intervista ad Alejandro Zambra


di Gabriele Santoro

Scrutando le vite degli altri, fra le pagine di Alejandro Zambra, succede di sentirsi a casa. Negli undici racconti che compongono I miei documenti (Sellerio, 216 pagine, 15 euro, traduzione curata da Maria Nicola) ognuno può ricercare un’unità narrativa nel gioco costruito dallo scrittore tra singolarità e pluralità. Undici figli simili e molto distinti gli uni dagli altri. È la prima volta che l’interessantissimo autore cileno si misura con una raccolta di racconti, che però si fa romanzo. Zambra, accostato a Roberto Bolaño, attinge alla quotidianità, alle necessità autobiografiche, riuscendo a sporgere lo sguardo oltre il proprio ombelico. Non si corre il rischio di smarrirsi nella ricchezza dei dettagli dei suoi documenti.

Zambra è nato due anni dopo il colpo di Stato che destituì Salvador Allende. Instituto Nacional, forse il racconto più bello, ha la dote preziosa di ridurre qualunque distanza di comprensione dall’esperienza di una dittatura come quella pinochetista. I diversi che non sentivano l’onore di sedere sui banchi della scuola più prestigiosa del Cile:

(…) «Dovrei lasciarti senza diploma, dovrei buttarti fuori subito», mi disse. «Ma non lo farò». Io continuavo a guardare con la coda dell’occhio le lacrime che scendevano sulla faccia di Garcia Guarda. Musa sottolineò la parola mai e la parola vita e ripeté la frase altre due volte. «Io non ti lascerò senza diploma, non ti espellerò, ma ti dirò una cosa che non dimenticherai mai per tutta la tua vita». Non me la ricordo, l’ho dimenticata subito sinceramente non so cosa mi avesse detto Musa: io lo guardavo in faccia, con coraggio o con indolenza, ma non mi è rimasta nessuna delle sue parole.


Zambra indaga con sobrietà, brevità stilistica e profondità quel che lega padri e figli dentro a una storia difficile e una transizione verso la democrazia altrettanto complessa: «L’adolescenza era vera. La democrazia no». «Prima del plebiscito per il nuovo mandato a Pinochet – leggiamo nel secondo racconto – Camilo andò a tutte le manifestazioni in favore del NO e questo provocò liti fortissime con la madre. Lui voleva che vincesse il NO perché odiava Pinochet ma anche perché pensava che così suo padre sarebbe tornato in Cile. Però suo padre non voleva tornare, gli diceva la zia July – tuo papà ha un altro paese, un’altra famiglia. Però il padre gli scriveva sempre, gli mandava dei soldi, e ogni tanto gli telefonava».

Zambra, come in libri precedenti, s’interroga sul significato della mascolinità in un mondo come questo. In altre pagine la progressiva invadenza della cultura digitale, la proprietà della virtualità si fonde con la carne dei personaggi («Mio padre era un computer e mia madre una macchina da scrivere. Io ero un quaderno vuoto e adesso sono un libro») e nei loro amori sull’orlo della rottura: «Fino ad allora nessuno dei due aveva familiarità con la posta elettronica, della quale ben presto divennero dipendenti, ma la dipendenza principale contratta da Max, e destinata a durare, fu dalla pornografia, cosa che fu all’origine della terza grande lite di coppia, ma anche di vari esperimenti nuovi».

Zambra, il racconto intenso Instituto Nacional, che apre la seconda parte de I miei documenti, esprime un tentativo di ricomposizione nella scrittura della tensione tra l’Io e il Noi?
«Qualsiasi storia può essere raccontata nella tensione tra l’io e il noi, il noi rappresentato dalla coppia, dalla famiglia, dall’identità nazionale e continentale, dalla partecipazione politica. E al tempo stesso un “io” che può essere visto come un aspetto di vanità, egocentrismo ma è di fatto un atto di responsabilità enorme dire io, Io sono io, e una ricerca perché non sappiamo fino in fondo chi siamo. Il “noi” è un’utopia, è quello che tutti vorremmo. Questa tensione a me interessa in modo particolare. Penso che ogni testo sia realmente diverso. Quello che ho cercato, e cerco sempre di fare, è partire da una situazione. In questo libro cerco di recuperare una situazione e obbedire agli indizi della memoria e poi dubitare di questi indizi, tentando di andare oltre. Adopero gli strumenti della finzione, ma al tempo stesso trascendo da essi. Il compito basilare dello scrittore è provare a guardarsi dal di fuori, ci sono volte in cui ci si annulla di più, altre meno. Questa storia per me è partita da un’immagine, da un’idea e poi mi sembra si siano concatenati piccoli fallimenti, che ti costringono a rimettere in discussione il testo, a cercare da un’altra parte; forse in un primo momento non ci ero riuscito».

Nello stesso racconto quanta vita crea la resistenza del giovane Patricio Parra al mondo nel quale gli era dato di vivere, alla dittatura; è la sua assenza a fare la storia.
«Nella prima parte di Instituto Nacional la narrazione è un racconto molto tradizionale, poi irrompono una serie di ricordi che infrangono la finzione e poi ancora una scena in terza persona, un altro ricordo. Mi sembrava insomma che dovesse essere così, frammentario; non mi interessava impostare un’organicità, mi premeva che gli aspetti fossero su distinti livelli. Ho scritto molto, mi capita spesso di scrivere troppo e poi cerco di capire quello che ho fatto. Era un mattino d’inverno, quando all’Instituto Nacional ci hanno detto che Pato Parra si era suicidato. Quell’episodio fu molto importante per noi. È stato in un certo senso come il primo morto e Parra era già per noi come la comunità. Eravamo in una scuola molto individualista, smisurata, per cui quando accadde ciò, credo che molti di noi furono presi dallo sconcerto e cambiammo la nostra opinione, il nostro posto in quello spazio rappresentato dalla scuola, dal mondo. Fu un’esperienza terribile, perché in fondo un compagno di corso è una persona simile a noi in un certo senso, no? Tutti eravamo molto diversi, ma lui vedeva cose che noi non vedevamo».

Qual è stato e qual è il suo rapporto fra scuola, lettura, oralità e letteratura?
«È impossibile saperlo. Ho la sensazione che ricevessi un’educazione per giungere al successo e che poi quando decisi di studiare letteratura mi trovai di fronte alla scelta della sconfitta. Non ero in quella scuola per studiare lettere ma per diventare ingegnere, per diventare ricco e per puntare a un processo di ascesa sociale; alcuni di noi continuarono, altri seguirono un’altra strada. Nel mio caso era come se avessi molto da disimparare. In alcuni spazi di quella scuola iniziai ad avvicinarmi alla letteratura, non vorrei esemplificare questa esperienza né mitizzarla, credo difatti che sia una ricerca che va in differenti direzioni. In quella scuola si viveva un’aria pesante, marziale, trionfalista, di successo, ma eravamo pur sempre ragazzini alla ricerca di qualcosa. Ciò che accade con la scuola è che ti cambia troppo la vita, non credo che debba essere così; anzi se avessi un figlio non lo manderei mai e poi mai in quella scuola, anche se ora è diverso da com’era in quel momento. Tutte le culture sono meticce e nella letteratura c’è sempre una dimensione orale che man mano si perde. Aggiungo una cosa».

Prego.
«La verità è che questa è un po’ la domanda centrale del libro successivo, che nell’edizione italiana si chiamerà Risposta multipla. Lì cerco di sottomettere il modello a cui eravamo destinati e che rappresentava una prova del momento finale. Scrivere è alla fin fine programmarsi, uscire dalle cause prevedibili. Questa domanda me la sono posta molte volte, perché difatti qualsiasi risposta presupporrebbe che siamo capaci di vivere altre vite, retrospettivamente, non so. Talvolta ho la sensazione che ricordare generi l’illusione che quel qualcosa si possa chiudere, e a me interessa di più il momento in cui si apre qualcosa, quando rimane una crepa irrisolta nel testo, e si ricreano spazi che erano già lì e che si erano chiusi».

Il suo equilibrio fra osservazione, esperienza e immaginazione è in costante ridefinizione?
«Credo che tutto cambi. Non mi considero uno scrittore professionista. Se scrivo è perché non mi piace poi così tanto il libro precedente, quindi cambia sempre, forse cambia più per me che per un lettore, non lo so, o forse sono il peggior lettore dei miei libri. In ogni caso mediante il libro ho scoperto cose e credo esista una continuità in questa ricerca, in questa scoperta, e sono rivelazioni molto intime. In generale, ritengo fondamentale andare nel profondo di un’immagine e interrogarla con tutti gli strumenti, con l’immaginazione, con la memoria, con la finzione, con la non-finzione, io vado in questa direzione. Gli editori vogliono sempre che uno scriva lo stesso libro, riconoscibile; il romanzo dev’essere così e così. Non avrei potuto fare questo, mi sarei annoiato, anche perché non ho alcun obbligo a pubblicare alcun libro. Il cambiamento è la chiave che incide sull’impalcatura».

Quanto si affida alla memoria?
«Una volta, diversi anni fa, dissi che non avevo molta immaginazione, mentre quello che avevo era una buona memoria involontaria, era una battuta; stavo pensando a Proust e alla memoria involontaria. Quando osservo mi ricordo cose e a volte dettagli futili. Ricordo aspetti che nessuno ricorda e dimentico cose molto rilevanti. Non si tratta di nostalgia, ma ritengo fondamentale il ricordo, perché spesso tendiamo a cambiare o a cancellare il tempo passato, a sfumarlo a togliergli consistenza e la memoria è parte di te per cui cancellarla non ha certamente conseguenze positive. Mi riferivo a questo, ma non ho molto chiaro neppure quali siano le frontiere. Per esempio sto pensando molto al “sognare ad occhi aperti”.

È un tema che mi interessa, se ne parla poco eppure la gente lo fa continuamente, almeno credo! È finzione, è romanzo, in tal senso la fantascienza è un genere molto onesto, realista. Non c’è nulla di più umano che camminare e pensare (che succederebbe o che sarebbe accaduto? O tra dieci anni avremo dei figli?). E poi non so, quando ci viene chiesto delle origini dell’interesse narrativo, la gente parla dell’oralità, ma in realtà la prima struttura narrativa quasi per il mondo intero è la barzelletta. Quando i bambini cercano di raccontare una barzelletta è grazioso il momento in cui raccontano la storia, ma la battuta non riesce. Lì si crea un problema morale per i genitori che non sanno se ridere o no. Non ridere, affinché il bambino impari a raccontare la barzelletta, o se ridere perché viene naturale. Si crea in ogni caso una volontà narrativa rispetto a una storia, quindi il romanzo funziona esattamente come una barzelletta, genera effetti che non sono necessariamente umoristici, ma c’è finzione».

Sussiste una qualche relazione tra il personaggio di Camilo, che dà il titolo al secondo racconto de I miei documenti, e il suo libro precedente Modi di tornare a casa? La necessità della ricerca dei padri, d’interrogare la loro esperienza e al contempo di rifuggire allo schermo di una storia accaduta sostanzialmente a loro.
«Non mi interessa congelare le riflessioni. Modi di tornare a casa non è un libro per uccidere in maniera psicoanalitica il padre, è piuttosto un libro per risuscitarlo e non è possibile. Non è possibile perché è già un altro e perché ha l’età di qualcuno che potrebbe essere padre di quel bambino, per cui esistono delle figure con il padre assente che hanno una funzione paterna come Camilo nel racconto. Camilo che nella realtà è un personaggio piuttosto inconsistente e divertente. Non è tanto vederli come figli ma come non padri. Come gente di 40 anni la cui vita è molto diversa da quella dei propri padri alla stessa età.

È molto difficile ricordare l’infanzia senza ricordare la dittatura o parlare della dittatura senza rievocare l’infanzia, perché il ricordo include la famiglia, gli amici, i padri di amici morti, anche se non ci sono morti nelle nostre famiglie; e poi che si fa con questi morti? Si racconta l’esperienza, è interessante diffonderla, creare un dialogo. Inoltre, penso che ne I miei documenti ci sia una sorta di omaggio a quelle persone che all’improvviso non ci sono più, e che sono state importanti, che abbiamo frequentato per molto tempo e che poi abbiamo smesso di vedere e che ci hanno lasciato qualcosa per sempre: una lezione di vita, o semplicemente una bella storia o un momento molto intenso che per un motivo o per un altro continuiamo a ricordare. Era un mondo pieno di paradossi, terribile, era la dittatura, non vogliamo tornare a quel periodo, non vogliamo ricordarlo».

Il tempo della dittatura si sovrappone a quello dell’infanzia. Lei da adolescente ha vissuto la vittoria del NO al referendum del 1988. Il cambiamento sembrava a portata di mano. Poi la presenza ingombrante di Augusto Pinochet si è protratta a lungo. Solo nel 2002 si dimise dal seggio di  senatore a vita. Qual è il tempo della democrazia?
«Il tempo del parallelo tra la generazione dei padri, che ha fatto l’esperienza della dittatura, e la generazione di chi è nato e cresciuto sotto la dittatura, e che si è confrontato con questa esperienza in una maniera complessa. In Cile la gente sta finalmente contestando molto e sente che ha il diritto di contestare. È una società che ha impiegato molto tempo a mettere in discussione cose molto discutibili, come ad esempio che ci guidi la costituzione di Pinochet, che rettificava varie volte ma continua ad essere la costituzione che Pinochet decise che doveva governare il Cile e continua ad essere la costituzione cilena. Credo che finalmente quest’anno ci sia un relativo consenso sul fatto che bisogna cambiare. Si è creata di fatto molta più consapevolezza di questi problemi e questo mi sembra che sia decisamente un atto di democrazia ed è un processo che è costato molto al Cile».

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venerdì 11 dicembre 2015

Ritratto di George Best, artista del calcio


di Gabriele Santoro

George Best è ovunque. Ha smesso così presto da ingombrare un'eternità. La battaglia contro la noia non è una cosa semplice, lui, un isolano, l'ha combattuta sul campo con l'agilità, la sensibilità e lo stile incomparabile che assomigliava alla gioia.

Matt Busby, primo allenatore dello United nel secondo dopoguerra mondiale, era attento alla bellezza, dunque permetteva a Best di essere sé stesso. La pensava come il figlio di Belfast, che allevò al riparo dai riflettori. Non rinunciava mai alle ali. L'imperativo del Manchester United era divertirsi, vincere attaccando. «Nulla di sbagliato nel cercare la vittoria, a patto che non si metta al di sopra del gioco», asseriva. Il vecchio e il bambino avevano stretto un legame resistente all'oltraggio della morte. S'erano incontrati in quel compromesso con la vita che è il calcio.


«Quando si entra in questo gioco ci si resta per tutta la vita. La vita senza calcio è un vuoto che non può essere riempito da un sostituto qualsiasi. Nel calcio si muore in mille modi, e si muore in mille modi senza il calcio», ripeteva Sir Busby. Genio e sregolatezza? Un talento incompiuto? Best ha donato quel che poteva, come sapeva. Ha lasciato, a modo suo, il mondo un posto migliore, come gli ha scritto qualcuno in un biglietto d'addio.

In Best sembra di scorgere quello stato d'animo, la nostalgia, che lotta con la creatività. La velocità è anche fragilità. Appena quindicenne impiegò poche ore per reimbarcarsi sul mostro di ferro, l'Ulster Prince, che da Belfast l'aveva traghettato al destino di una vita, lo United. «Voglio tornare a casa». Non era questione d'alterigia, bensì un radicato senso di inadeguatezza. Lo capirono, come l'aveva capito Bob Bishop, dal 1960 osservatore capo della squadra britannica in Irlanda.

Il vescovo si accorgeva delle potenzialità dei ragazzini provenienti dai quartieri più disagiati di Belfast, che senza di lui il mare non l'avevano visto mai. Centosessanta centimetri di altezza per 47 chilogrammi come avrebbero potuto esprimere quel che Bishop aveva intravisto? Hugh “Bud” McFarlane, dal privilegiato punto d'osservazione della panchina del Cregagh, si sbracciava: «Lasciate perdere com'è e concentratevi su quello che fa». Stravedeva per Best, non glielo nascondeva. Come nelle migliori tradizioni venne scartato a causa della taglia al provino dal Glentoran. Il padre, Dickie Best, operaio ai cantieri navali non andava al campetto per paura di metterlo in soggezione. Ann, promessa dell'hockey poi operaia nelle fabbriche di sigarette e gelati, preparava il brodo col dado e gli spicchi d'arancia per lo spuntino dell'intervallo delle partite. La sola al mondo che sapeva qualcosa del cuore sproporzionato di George, della sua genuinità. Ann lo idolatrava, astemia fino ai quarantaquattro anni, anche lei sprofondò nell'alcolismo.

Nell'esistenza di Best la ricerca della fuga è una costante, quanto l'esigenza d'inventare. Mostrava l'audacia e il rifiuto proprio di chi crea. Non si limitò a soddisfare la domanda di calcio preesistente, la ricreò su presupposti differenti. Indicò a quel mondo la possibilità di una sperimentazione estetica. Rese distinguibile, indispensabile, la purezza della sua idea di calcio, che l'ossessionò fino al crollo nell'alcol. Best non dimenticava la classe operaia, dalla quale era emerso, ma lui era gli anni Sessanta, un'altra storia. La generazione postbellica. Best era ancora senza la pervasività della televisione. Era un movimento non ripetibile, non frazionabile. Potevi intuirlo solo nel tempo dello stadio, nello scatto di una fotografia, nello spazio che alimentano le parole. Nelle geometrie, nei dribbling, nelle accelerazioni, nei colpi di tacco, nei tiri dalla distanza e nei passaggi al volo di Best ribellione e originalità producevano innovazione, oltre lo status quo delle certezze maturate nel decennio precedente.

Per Best il calcio spiegato a un bambino era l'accuratezza nei passaggi, guardare il compagno libero; la corsa senza palla così importante nel calcio moderno, leggere gli spazi per buttarvisi dentro; infine il dribbling: «Il contatto con la palla è fondamentale, sentirla vicina, far dialogare entrambi i piedi». A tal proposito c'è una bellissima serie a fumetti, George Best on the Ball, in cui il campione risponde alle domande dell'età della scoperta del gioco.

Rudolf Nureyev avvicinò Best in un ristorante londinese e gli chiese un autografo, aggiungendo: «Lei è un artista». Condividevano fascino, talento, l'arte che evita lo sguardo della malattia. Ma soprattutto la dote ineludibile per un corpo in movimento artistico: l'equilibrio. Nel 1947 Dickie Best scattò in Donard Street una foto al figlio di quindici mesi di bianco vestito. Ciò che rende grande un giocatore è l'equilibrio. La testa di George è proprio dove dovrebbe essere, sopra la palla, la guarda. Il corpo è posizionato in modo perfetto, vicino al marciapiede la palla sotto controllo del sublime ambidestro che diventerà. Pare stesse caricando un tiro senza scomporsi.

Nella biografia George Best, l'immortale (66thand2nd, 493 pagine, 25 euro, traduzione a cura di Francesca Benocci e Roberto Serrai) Duncan Hamilton ha ragione quando scrive che la fotografia più bella ritrae il fuoriclasse voltato di spalle. Il numero sette bianco illumina la schiena, la maglia cade larga sui pantaloncini, ha i calzettoni abbassati. Nonostante la guardia feroce e i lividi provocati dai difensori raramente indossava i parastinchi. Il coraggio non gli faceva difetto. Come a dire: quando hai un talento non permettere a nessuno di privartene. In quel braccio destro alzato al cielo c'era la dolente timidezza di Best. L'esultanza non era mai eccessiva.

In quella fotografia aveva appena segnato al Benfica di Eusebio, nella Wembley vestita a festa per la finale di Coppa dei campioni, di cui s'era innamorato, quando i pantaloncini li indossava a Burren Way, sul cemento di Belfast. Aveva atteso i tempi supplementari per essere Best. Correva l'anno 1968 e Sir Matt Busby cercava giustizia. Dieci anni prima, il 6 febbraio 1958, nell'incidente tragico di Monaco era morto un po' anche lui. Voleva la Coppa dei campioni che s'era fermata in semifinale. L'allora undicenne Best lesse sulle colonne del Belfast Telegraph: «Celebre squadra di calcio colpita da un disastro, l'aereo del Manchester United precipita in fiamme, i sopravvissuti in condizioni critiche lottano per la vita».

Ecco, Busby aveva puntato sul ragazzino per rimediare al dolore, per onorare la generazione dei Busby Babes cancellata dopo una notte promettente a Belgrado. A Monaco erano morti sette calciatori non le necessità della disciplina. A Busby gravemente ferito impartirono due volte l'estrema unzione. Ricostruire è stato il verbo del tecnico, figlio di emigranti lituani, che nel 1945 ripartì dall'Old Trafford bombardato e 15mila sterline di scoperto in banca per conquistare sette anni dopo il primo scudetto. Il tris d'assi Law-Charlton-Best non bastava. Per vincere nel calcio è necessario anche un portiere affidabile. Nell'estate del 1966 dal Chelsea per 55mila sterline era arrivato Alex Stepney. Da quel momento Best ebbe la certezza che nessuno sarebbe riuscito a fermarli.

Per quella finale Best prefigurò una tripletta personale. In realtà non incise fino al miracolo su Eusebio, col quale Stepney salvò lo United dalla capitolazione. In semifinale a Madrid ci aveva pensato il 36enne (7 gol in 566 partite) Bill Foulkes, su assistenza di Best, a risollevare la truppa a un passo dal baratro. Best si scosse. Rilancio di Stepney, deviazione di testa di Kidd e la palla è nei piedi del numero 7. Percorre i venticinque metri che lo separano dalla porta. Scarta Cruz. José Henrique si butta a sinistra, lui va a destra. Appoggia la palla in rete col sinistro. Il Manchester è stato il primo club d'oltre Manica a vincere la Coppa Campioni. A maggio di quell'anno dorato era stato nominato giocatore dell'anno. Best era un Maggio millenovecentosessantotto. A dicembre gli assegnarono il Pallone d'oro. A ventidue anni era già salito sul tetto del mondo. Poteva solo scenderne. Negli undici anni (1963-'74) trascorsi ai Red Devils ha disputato 470 partite, segnato 181 gol, ma di Wembley ce n'è stata solo una. Che cos'è poi la fama? A lungo, invano, ha ricercato la risposta. «George, quando le cose hanno cominciato ad andare male?» Gli ha chiesto un cameriere in una stanza d'albergo lussuriosa. La morte restituisce forse una misura delle grandezze.

C'è chi sottolinea criticamente che l'affetto, le forme di idolatria, per Best siano tanto rumore per poco. In fondo la sua stella ha incantato veramente solo per tre anni. Forse giova non scordare che poi il Manchester ha impiegato trent'anni per conquistare la seconda Coppa dei campioni.
Bobby Charlton, quando Best era ormai vicino alla morte, ricoverato in terapia intensiva, andò a trovarlo. Dopo il '69 fra i due s'era rotto qualcosa. La fusione tra vecchia e nuova generazione allo United, come nella società, non funzionava più. L'eredità di Busby troppo pesante. Serviva il coraggio di una piena rottura generazionale, la piena espressione di nuove energie, che non avvenne. Già alla fine della stagione 1971-72, stufo del pessimo livello della squadra, Best vacillò all'idea di andarsene per avere la possibilità di vincere ancora qualcosa. Charlton si congedò dal club con tutti gli onori, mentre Best salutò l'Old Trafford, il teatro dei sogni, in piena solitudine. Nel 1974 Best appese al classico chiodo nello spogliatoio un paio di scarpini. Li aveva lasciati lì per ricordare a tutti la sua assenza. Charlton sussurrò al capezzale del compagno di squadra, all'amico, che la sua morte, quell'autodistruzione, era una vera stronzata.

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George Best su Rai Radio Uno - Zona Cesarini, 23 dicembre 2015, 
dal minuto 11 con Maurizio Ruggeri


http://www.radio1.rai.it/dl/portaleRadio/media/ContentItem-9a7615f2-98e9-45c0-8164-c5d410fcfb62.html