venerdì 23 dicembre 2016

La vita dopo Chernobyl: "L'ultimo amore di Baba Dunja"


di Gabriele Santoro

«Credi che nascerà un nuovo pesco?»
«No. Le pesche si riproducono più che altro per talea».
«Intendevo dire, prima o poi questo posto dimenticherà ciò che gli è stato fatto? Tra cento, duecento anni? Ci vivranno delle persone che saranno felici e spensierate? Come prima?»


Baba Dunja sa amare così tanto la vita da potersi prendere gioco della morte. Le brucia dentro la lettera che le ha scritto la nipote, Laura, mai conosciuta. Poche parole rivolte a un futuro complesso, espresse in una lingua a lei non comprensibile, che però sa sentire.

Il talento di Alina Bronsky, classe 1978, che scrive in tedesco con lo sguardo rivolto alla Russia natia lasciata dopo l’infanzia, riesce a impastare le mani dentro alla malinconia senza smarrirsi. A trent’anni dal disastro nucleare di Chernobyl, Keller ha portato in Italia un romanzo, L’ultimo amore di Baba Dunja (traduzione dal tedesco di Scilla Forti, 165 pagine, 14.50 euro), che commuove per il dialogo letterario così finitamente umano tra una donna e la natura circostante. L’amore appare un’entità separata dall’esistenza disincantata di Baba, ma si annida in ogni pagina.

A Černovo, piccolo villaggio non distante da Chernobyl e contaminato dalle radiazioni nucleari incontrollate, il tempo non esiste, è sospeso come nella dimensione del gioco. Baba Dunja non è l’unica a rianimare il luogo che il mondo vorrebbe dimenticare in fretta, cancellare dalle mappe. Insieme a Petrov, Marja, ai coniugi Gavrilov, Sidorov e agli animali, perlopiù insetti, ci spiega che cosa voglia dire avere cura della propria casa, della terra e dei suoi frutti.

«Mi sembra una barbarie ferire sempre lo stesso albero ed estrarne troppa linfa in una volta sola, come fanno certe persone in zone che godono di una fama migliore della nostra. La linfa di betulla viene venduta a caro prezzo e a nessuno importa degli alberi prosciugati e pieni di cicatrici. Io invece perforo la corteccia con cautela, inserisco un tubicino, ci metto sotto il vasetto e lo lego stringendo forte. L’elisir defluisce goccia a goccia e dopo alcuni giorni, quando vado a recuperarlo, richiudo l’area ferita con la stessa cura che riservavo ai pazienti». Da giovane Baba Dunja si portava dietro anche i figli, Irina e Alexej, ricordando loro: «Non distruggete niente, se non è necessario. È difficile riparare le cose e in alcuni casi sono perse per sempre».

A Černovo i pochi abitanti rientrati conducono una vita completamente autosufficiente: nei giardini coltivano le verdure, prendono l’acqua dal pozzo, preparano il brodo di pollo e rielaborano i termini della questione dello stare insieme in una comunità. I personaggi tutti nell’età della vecchiaia si interrogano sul senso del loro esserci e quell’ambiente contaminato sembra paradossalmente amplificare le necessità vitali, senza tuttavia l’ansia di rincorrerle. La vecchiaia è tutela dell’avvenire, la missione che tiene insieme quella comunità. Chiedono agli altri quanta vita ci sia nei rispettivi altrove: «Siamo sinistri agli occhi della gente. Sembrano convinti che la zona della morte corrisponda davvero ai confini tracciati dagli uomini sulle cartine».

Bronsky non lascia sottotraccia il tema della frontiera. Con una scrittura asciutta e incisiva ricompone due mondi, quelli divisi dal Muro, e l’urgenza di una nuova identità. Colpiscono la capacità descrittiva e la forte caratterizzazione della protagonista, che mischia misticismo e materialismo, mantenendo sempre la giusta distanza.

L’autrice, cresciuta a Yekaterinburg, ai piedi dei Monti Urali, all’epoca piombò nel silenzio fatto
calare sull’incidente. Le implicazioni della vicenda le si presentarono solo una volta approdata in Germania. Il 26 aprile 1986 il quarto reattore riversò radiazioni per dieci giorni in un’area poi contaminata pari a duecentomila metri quadrati, il 71% tra Bielorussia, Russia e Ucraina. All’inizio del romanzo l’assenza di notizie certe è ben illustrata, tanto quanto il panico e la fuga: oltre 250mila persone lasciarono i propri paesi.

I due figli di Baba Dunja, che nel 1986 aveva cinquanta anni, vivevano già al sicuro, lontano da lei. Irina studiava a Mosca e successivamente si è sistemata in Germania con la figlia Laura. Solo le lettere e i pacchetti varcano la frontiera. Baba non accetterà mai l’ovest, è una donna libera, indipendente, radicale che torna a Černovo e si riprende la propria vecchia casa.

Le pareti sono tappezzate di foto dell’adolescente Laura, che ha tagliato i capelli a zero, ha lasciato la scuola e chiuso lo zaino: dice di odiare tutti, tranne Baba Dunja. In fondo Laura cerca lo stesso amore della nonna in grado di accogliere quel che il mondo ha ferito e poi ripudiato.

domenica 11 dicembre 2016

Quando la matita di Igor Tuveri incontra Murakami

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 24
11 dicembre 2016

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

Scrivere un romanzo rappresenta una sfida, mentre un racconto breve è una gioia, sostiene Haruki Murakami: «Se scrivere romanzi assomiglia al piantare una foresta, le short stories creano un giardino. I due processi sono complementari, disegnando un paesaggio che amo».

Dal 2014 la casa editrice Einaudi ha pubblicato alcuni racconti dello scrittore giapponese con il contributo artistico di illustratori che accompagnano i testi. È da poco in libreria Gli assalti alle panetterie (72 pagine, 15 euro, traduzione a cura di Antonietta Pastore), che contiene due racconti e le tavole di Igort, nome d'arte di Igor Tuveri, artista così legato al Sol Levante (Quaderni giapponesi – Un viaggio nell'impero dei segni, Coconino Press - Fandango, 2015, che è anche un saggio sulla cultura grafica e letteraria locale ne è una testimonianza). Igort, uno dei principali fumettisti italiani, è stato tra i primi occidentali a collaborare con riviste giapponesi.

Sempre nel 2014 per la nuova edizione anglosassone di The Strange Library, una rivisitazione della shot story del 1982 Toshokan kita, è stata compiuta la scelta di arricchire i racconti di Murakami con le illustrazioni. Tradotto da Ted Goossen, in quell'occasione i disegni vennero affidati alla nota matita statunitense di Charles Kidd, in arte Chip Kidd. Per lo stesso titolo, La strana biblioteca in Italia, Einaudi aveva individuato il romano Lorenzo Ceccotti (LRNZ). E così è avvenuto in ogni paese di pubblicazione.

«In ogni caso, avevamo fame. Anzi, per l'esattezza, ci sembrava di aver inghiottito il vuoto cosmico, quella era la sensazione», recita l'incipit di L'assalto a una panetteria, inedito in Italia. Un gruppo di ragazzi privi di denaro e affamati vogliono compiere un reato: rapinare una panetteria. Varchiamo poi la soglia del surrealismo. Gli adolescenti di Murakami hanno coscienza piena di quel che non c'è e li rende famelici, manca la fantasia. Dio era morto, al pari di Marx e John Lennon. È curiosa la contropartita che offre il panettiere per cedere il cibo. Lui, membro del Partito comunista, ascoltava Wagner: «Ho trovato! - fece il padrone. - A voi piace Wagner?». «No – risposi io». «Ecco, se ve lo fate piacere, vi lascio mangiare tutto il pane che volete».

Il secondo assalto a una panetteria invece era stato già tradotto per la raccolta L'elefante scomparso. Nel 1985, quando uscì la prima edizione, questo racconto ruppe la tradizione del realismo giapponese, ottenendo il consenso di lettori e critici. Anche qui il cibo sostanzia il peso dell'assenza e l'urgenza dell'essere liberi. La scelta del tipo di pasto non è casuale. In uno scenario notturno Murakami ci porta dentro a un McDonald's. Lui, impegnato nella routine di uno studio legale, e lei, segretaria in una scuola di design, davanti a giornate, mai diverse una dell'altra, hanno «una fame impellente, quasi selvaggia». Il frigo è vuoto e il disegno di Igort, una barca adagiata sul mare calmo, ma sotto la trasparenza si scorge un vulcano, restituisce l'essenza della scrittura di Murakami, ne valorizza la metafora vivida.

Loro si sporgono sul ciglio dell'abisso e lui ricorda quando da ragazzo per procurarsi cibo, compì una rapina così simile a un fiasco. Ieri era disoccupato, oggi è sistemato, ma il matrimonio quanto il lavoro non curano il vuoto. Torna l'esigenza di assaltare. Le panetterie sono tutte chiuse, McDonald's no, e loro due vogliono trenta hamburger. Davanti alla minaccia di un'arma, i giovani impiegati del fast food mostrano una sola inquietudine: il venir meno della contabilità della carne che irriterebbe il datore di lavoro. La narrazione in prima persona ci presenta personaggi che non si conformano alla cultura imperante, della quale il cibo costituisce un'espressione ed è un fattore fondamentale, rivelatore.

venerdì 9 dicembre 2016

Paul Beatty e Lo schiavista, una conversazione

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 29
9 dicembre 2016

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro


Paul Beatty, classe 1962, radici losangeline, con Lo schiavista (Fazi Editore, 369 pagine, 18.50 euro, traduzione ottima di Silvia Castoldi) è da poco il primo scrittore nordamericano insignito del prestigioso riconoscimento letterario Man Booker Prize. The Sellout, il titolo originale dell'opera, è un romanzo satirico, coraggioso che, sottraendosi al canone della classica denuncia sociale grazie alla fantasia e al talento dell'autore, guarda al proprio paese, lo interroga e dissacra, mettendolo allo specchio.


Potremmo cominciare a leggere il libro da questo dialogo: «È illegale gridare “al fuoco” in un cinema pieno di gente, giusto?». «Sì». «Be’, io ho sussurrato “razzismo” in un mondo post razziale». Il narratore, il venduto, nell'incipit potente si fa carico del pregiudizio storicizzato: «So che detto da un nero è difficile da credere, ma non ho mai rubato niente». Me, soprannominato Bonbon, ci porta davanti alla Corte Suprema col caso 09-2606: lui contro gli Stati Uniti d'America. Il giudice nero è costernato: perché ai giorni nostri un afroamericano viola i principi, possedendo uno schiavo, e sostiene che la segregazione riunisca le persone di una comunità in crisi di identità?

C'è la violenza della polizia, che uccide il padre di Me. Ci sono i non luoghi di Los Angeles, ibrida e sconfinata. L'imputato è originario di Dickens, un ghetto nella periferia sud di Los Angeles a immagine e somiglianza della reale Compton, scomparso dalle mappe. Il vecchio Hominy Jenkins, l'abitante più famoso di Dickens, l'ultimo sopravvissuto delle Simpatiche Canaglie, necessita di trovare un appiglio nel naufragio dell'identità e si offre come schiavo. Beatty ci costringe a fare i conti col fallimento dell'utopia, con la contraddizione insita nell'integrazione.

Beatty, Lo schiavista è classificato come un'opera satirica. Proviamo a risolvere l'equivoco sulla satira. Trova riduttiva l'accezione diffusa, che è anche una maschera per non parlare di come il suo testo scavi in profondità il senso della perdita, della morte e gli aspetti più violenti del paese?
«Qualora qualcuno lo categorizzasse come un libro comico, penso che non avrei la stessa reazione. A proposito dell'evidenza della parola satira c'è qualcosa che suona come vacuo, falso e accomodante. L'aggettivo satirico è una maniera per dire: “Questo è un libro divertente che tratta una materia seria, ma non dobbiamo misurarci con la tristezza e il dolore”. Esiste un'antinomia per la satira? In che modo definiremmo un libro posato che si occupa di argomenti umoristici? Sono forse uno scrittore post satirico? No, post satirico è satirico. Sono intrappolato, non fa niente».

In un passaggio intenso e spassoso del prologo, lei fa dire a Martin Luther King Jr. che «se solo avesse assaggiato quell'intruglio non dolcificato, disgustoso, fatto passare per tè freddo ai banconi delle tavole calde negli Stati segregazionisti del Sud, avrebbe sciolto l'intero movimento per i diritti civili prima dei boicottaggi, dei pestaggi e degli omicidi». Intendeva discostarsi dalla narrazione acritica sugli esiti del Movimento?
«Il romanzo non ha la pretesa di emettere alcuna verità a proposito; piuttosto usa il vantaggio del senno di poi per presentare un'alternativa obliqua e leggermente riluttante nella reinterpretazione della lotta. Qualora si chiedesse agli americani se ritengono che il Movimento per i diritti civili sia stato proficuo, ci sarebbe un consenso generale: “Sì lo è stato”. Ma non c'è nulla di scontato come il pieno consenso. C'è sempre almeno una persona che esprime una forma di dissenso. Questo libro è l'incarnazione della persona non del tutto d'accordo. La persona che concorda ma alza la mano soltanto a metà».

Quanto è stato errato e fuorviante immaginare un cordone ombelicale tra Barack Obama e la comunità afroamericana, e soprattutto ritenere la sua elezione un'eredità postuma del Movimento per i diritti civili?
«È stato miope presumere che, in quanto nero, avesse una responsabilità inerente per affrontare l'ingiustizia sociale, quando invece dovremmo pretendere da qualunque presidente di essere cosciente e avversare le diseguaglianze. C'è un video interessante del Presidente Obama, un politico nero potente, intervistato da una giornalista nera in una delle sale del nuovo Smithson Museum of African American History. Lei gli domanda di una recente sparatoria della polizia a Tulsa, Oklahoma, dove il videotape mostra la vittima, Terence Crutcher, chiaramente con le mani alzate. Obama, che aveva alle sue spalle una gigantografia di Martin Luther King Jr, afferma: “È mia abitudine non commentare i fatti specifici...”. Se il presidente non può dichiarare nulla su un omicidio ripreso e catturato dentro a una pellicola, è almeno molto inquietante. Poi ci sorprendiamo perché una larga parte della cittadinanza statunitense si chieda perché importarsene. Grazie a Dio persone come MLK Jr., Angela Davis, Eugene Debs, Moms Mabley, Cesar Chavez, Bernie Sanders, Ta-Nehisi Coates e Richard Pryor l'hanno fatto, hanno parlato nello specifico».

Potremmo dire che, giorno dopo giorno, il concetto del post razziale sia sempre più confuso e fragile?
«Ritengo che la definizione potrebbe rimanere la stessa, ma la voce sul vocabolario andrebbe scritta e letta così: post racial – aggettivo [arcaico]».

Dopo le elezioni Toni Morrison ha invitato a rileggere William Faulkner. Perché il senso dell'essere americano è tuttora profondamente connesso alla bianchezza, al colore della pelle?
«Sostituisca americanità con italianità e potrebbe trovare lo stesso tipo di risposta scomoda».

Quali sono i bisogni degli elettori di Donald Trump?
«Molte persone convergono sull'opinione e sentimento, originariamente fatto risalire al filosofo francese Joseph de Maistre, secondo il quale i paesi hanno i leader che meritano. Non concordo. Malgrado il processo democratico, nessuno merita una leadership pregiudiziale e vendicativa. Trump incontra i bisogni della popolazione che non realizza che il sentirsi dire cosa pensare è equivalente al sentirsi dire di non ragionare, al mettere da parte la razionalità. A volte le persone necessitano di una figura paterna, nonostante sia ingiuriosa, illusoria».

Nutre qualche timore in particolare per l'agenda Trump?
«Il crescente restringimento del raggio d'azione dei media. Quanto sapremo rispetto alla sua attività? Ha incontrato da poco il primo ministro giapponese Shinzō Abe, ma non ne sappiamo nulla».

venerdì 2 dicembre 2016

Matthews, Fidel Castro e il New York Times


di Gabriele Santoro

«Fidel Castro, il ribelle, leader della gioventù di Cuba, è vivo e sta lottando duramente e con successo nell’aspra, quasi impenetrabile roccaforte della Sierra Maestra, nell’estremità meridionale dell’isola», recita l’incipit dell’articolo di Herbert Matthews, pubblicato dal New York Times il 24 febbraio 1957, che smentiva in modo clamoroso la morte di Castro e ne delineava la lotta.


Nel dicembre 1956, al contrario, si supponeva che Castro fosse stato ucciso insieme al fratello Raúl, colpiti subito allo sbarco sulla costa, e che i militari avessero i loro corpi. Almeno così riportava un dispaccio di United Press sul quale la corrispondente Phillips tentennò molto, e si spese invano per non farlo finire in pagina sul New York Times.

La passione di Herbert Lionel Matthews, uno dei corrispondenti esteri più influenti e controversi del XX secolo con alle spalle i campi di battaglia in Africa ed Europa, si era riaccesa per quello che stava avvenendo nell’isola caraibica. Aveva l’urgenza di andare a vedere con i propri occhi laggiù, oltre i 144 chilometri che separano Cuba dagli Usa, muovendosi dall’ufficio spazioso al decimo piano del Times Building a New York. Molto vicino e coccolato dall’editore Arthur Hays Sulzberger, dopo una vita al fronte, dal 1950 ricopriva il ruolo di editorialista, e ne approfittava per viaggiare e scrivere senza fretta. Nei diciassette anni successivi si occupò soltanto del Centro e dell’America Latina.
Lo disturbava la censura ferrea imposta dal regime del dittatore Fulgencio Batista, incontrando l’esigenza parallela degli aspiranti rivoluzionari di rivolgersi direttamente alla gente per generare il consenso e dunque moltiplicare la propria forza militare. Per usare le parole del generale Máximo Gómez: «Senza la stampa non arriveremo da nessuna parte».

Ruby Phillips, che aveva ereditato dal marito il ruolo di corrispondente per il New York Times all’Avana, fece pervenire un telegramma a Emanuel Freedman, il redattore degli esteri. Tra le righe, sottraendosi alle maglie della censura che non risparmiava neanche l’ufficio di corrispondenza, convocò Matthews. Castro aveva fatto riferire di essere intenzionato a parlare con un giornalista statunitense nella Sierra Maestra, qualcuno avrebbe dovuto raggiungerlo. Lei, oltre al timore di essere espulsa, era dubbiosa sugli esiti di quella ribellione. Matthews, dopo il via libera del giornale, che coprì le spese del viaggio anche alla moglie, rivelatasi fondamentale per la tutela degli spostamenti isolani, approdò all’Avana sabato 9 febbraio. Per superare le linee militari governative, i due posarono da turisti. Dopodiché il cinquantasettenne Matthews da solo, a piedi, completò la spedizione complicata nel fango della Sierra Maestra.

Il trasferimento dall’Avana durò sedici ore con numerose fermate. Condotto in un luogo impervio in montagna, attese a lungo, al buio, l’arrivo di Castro. Condivisero una colazione e nello spazio di tre ore Matthews aveva in tasca la notizia di portata mondiale, contenuta in sette pagine di appunti manoscritti. Per autenticare la testimonianza chiese a Castro una firma autografa, poi pubblicata all’interno del servizio.


Matthews, come ricostruisce Anthony DePalma nel libro L’uomo che inventò Fidel, pubblicato dieci anni fa negli Stati Uniti e contestualmente in Italia da Nuovi Mondi Media, era affascinato dai ribelli. Nel 1995, durante un viaggio a New York, Castro fece visita al Times. Scorrendo le pareti con le fotografie e le figure luminose della storia del quotidiano, il Líder Máximo chiese: «Dov’è Matthews?». Lui nell’ultimo giorno in redazione rifiutò qualsiasi forma di commiato. Ai colleghi disse che festeggiare il pensionamento sarebbe stato come andare al suo funerale. Non dimenticò fino alla morte le critiche durissime dentro e fuori dal Times, dopo una carriera gloriosa oscurata dal mito.

La memoria di un osservatore acuto, particolarmente ammirato da Ernest Hemingway già nella Guerra civile spagnola, massima espressione dell’essenza giornalistica e della sua caducità, è scivolata nell’oblio, accusato di antiamericanismo, di aver sbagliato il ritratto del futuro dittatore che per dirla con Galeano era più abituato agli echi che alle voci. L’intervista costituì una svolta, in qualche modo fu la genesi mediatica dell’ascesa castrista. Nelle montagne remote della Sierra Maestra su un monumento marmoreo è inciso: «In questo luogo il Comandante in Capo Fidel Castro Ruz incontrò il giornalista nordamericano Herbert Matthews, il 17 febbraio 1957». Alla morte nel 1977, Matthews risultava disconosciuto nel proprio paese, mentre a Cuba era un’icona della libera stampa.

In realtà dopo lo scoop, in un’epoca radio e televisione iniziavano a contaminare l’influenza dei giornali, Matthews per un periodo breve conobbe l’adulazione, destinata ai futuri volti giornalistici televisivi, raramente riservata in precedenza a una penna della carta stampata.

Quali elementi emergono dalla corrispondenza esclusiva del 24 febbraio 1957, che scrisse la Storia? Lui è l’unico a sapere fino alla pubblicazione sul Nyt: «Questa è la prima notizia sicura, verificata, che Fidel Castro è ancora vivo ed è ancora a Cuba». Innanzitutto Matthews qualifica Castro come il «nemico più pericoloso del Generale Batista»; «centinaia di cittadini altamente rispettati stanno sostenendo il Señor Castro»; «si sta sviluppando in tutta Cuba un formidabile movimento di opposizione al Generale Batista»; «Fidel Castro e il suo Movimento del 26 luglio sono il simbolo ardente di questa opposizione al regime»; «da una valutazione dei fatti, il Generale Batista non ha la possibilità di soffocare la rivolta di Castro». Dopo i numerosi editoriali nei quali aveva stigmatizzato la censura di Batista, coglie l’occasione per ribadire che la stampa non si silenzia: «Questo resoconto, insieme agli altri che verranno, romperanno la censura più dura nella storia di Cuba».


Matthews tratteggia poi le difficoltà socioeconomiche dell’isola in cui «la disoccupazione è pesante» e «la corruzione è dilagante». Esprime alcune valutazioni sul movimento rivoluzionario, che si definisce socialista con una forte impronta nazionalistica: «Il programma è vago e redatto solo nelle linee generali, ma giunge a un New Deal per Cuba, radicale, democratico e anticomunista». Questo è il passaggio incriminato dall’America maccartista e non solo. Ancora: «La sua è una mente politica prima che militare. Ha una salda idea della libertà, della democrazia, della giustizia sociale, del bisogno di restaurare la Costituzione e indire le elezioni». Il corrispondente rassicura anche sul versante dei rapporti futuri con gli Stati Uniti, virgolettando: «Può esserne certo che non nutriamo alcuna animosità nei confronti degli Usa e del popolo nordamericano. Stiamo lottando soprattutto per una Cuba democratica e per la fine della dittatura».

Secondo l’accusa Matthews, che protesse la segretezza delle proprie fonti e dei luoghi attraversati per giungere al nascondiglio di Castro, l’avrebbe presentato con una partecipazione emotiva distante dal presunto concetto di oggettività e soprattutto avrebbe sottovalutato il pericolo rosso. In una corrispondenza successiva si legge: «Il comunismo ha poco a che vedere con l’opposizione al regime».

Abbiamo parlato con i mormorii più lievi, riporta Matthews evidentemente affascinato: «Castro è un grande oratore. I suoi occhi marroni brillano; il suo sguardo intenso penetra chi lo ascolta e la sua voce restituisce il vivido senso scenico del dramma». Castro si rivolge all’interlocutore, dicendogli che sarà il primo a informare il popolo cubano della loro esistenza: «Lottiamo da 79 giorni e siamo più forti che mai. Il morale dei soldati è basso, ne stiamo uccidendo molti, ma non ci sono esecuzioni sommarie dei prigionieri».

Matthews considerava un dovere professionale l’accesso non mediato ai protagonisti della Storia e ai documenti sensibili, senza spaventarsi dall’assumere posizione nei confronti dell’editore o competitori, riuscendo così a influenzare il discorso pubblico statunitense.

La vicenda, come evidenzia DePalma, corrispondente da oltre trent’anni del Nyt e penna del coccodrillo di Castro, ricorda la mutevolezza della verità, piegata poi al clima della Guerra Fredda, e la natura imperfetta del mestiere che Matthews esercitò sempre con lo spirito e la convinzione di assicurare la veridicità relativa della notizia. Si domandò e domandò poi: «Le metamorfosi di Fidel possono essere mia responsabilità?». Lui a differenza degli altri era stato nella Sierra Maestra, ottenendo l’informazione seppure controversa che nessuno aveva. Castro accreditò l’idea che questi articoli lo avessero avvicinato a prendere il potere, danneggiando ulteriormente la posizione dell’articolista. Per lo stesso Che Guevara il lavoro di Matthews fu più rilevante per i ribelli di una vittoria sul campo di battaglia.


Nel corso di una visita negli Stati Uniti il Líder Máximo, umiliando Matthews, sostenne che al momento dell’incontro con l’inviato nordamericano il movimento fosse composto da appena una ventina di soldati che lo circondavano e gli giravano intorno. DePalma lo ritiene un eccesso dialettico castrista, Matthews non era così facilmente impressionabile, e a dispetto del titolo del libro Castro avrebbe comunque trionfato.

«Lottò contro l’etichetta pubblica di inventore di Castro. Insistette che nei suoi articoli non aveva fatto altro che dare a Fidel l’opportunità di essere sé stesso, rigettando l’idea che le pubblicazioni avessero garantito un aiuto sovrastimato all’insurrezione cubana», asserisce DePalma.
I principi liberali e democratici di Matthews erano fuori discussione. La sua figura non era associabile a quella di Walter Duranty, corrispondente del Times che nel 1932 vinse il Pulitzer con un servizio su Stalin destituito di ogni veridicità, tuttavia il rapporto con la fonte così primaria, per altri irraggiungibile e ricca di suggestione lo aveva spinto dentro a un cespuglio di spine.

Matthews, classe 1900, genitori di origine ebraica provenienti dall’Europa orientale, crebbe a New York, Manhattan. Dopo essersi arruolato nel 1918, al ritorno in patria si laureò alla Columbia University. Segnava come fondamentale per la sua formazione e visione della vita un libro: Real Soldiers of Fortune di Richard Harding Davis, famoso corrispondente estero del New York Journal e del New York Herald poi, considerato il primo corrispondente di guerra dell’età moderna. La madre gli aveva regalato il libro per un compleanno. Amava studiare Dante.

Nel 1922 c’era un posto vacante di segretario stenografo al New York Times, ma dopo il colloquio Herbert scoprì che l’impiego reale consisteva in quello di segretario del vicedirettore commerciale. All’inizio sognava una carriera da accademico, voleva occuparsi di libri. Nel 1931 il cambio di passo si concretizzò con l’opportunità di trasferirsi in Francia nella sede parigina del New York Times per seguire le notizie economiche finanziarie.

Il percorso umano e giornalistico è stato segnato dall’esperienza nella Guerra civile spagnola. Anche lì nel marzo 1937 realizzò uno scoop, individuando e testimoniando la presenza di soldati italiani combattenti; fu la prima evidenza del sostegno mussoliniano a Franco. In Spagna l’obiettività giornalistica cominciò a mischiarsi con le necessità della lotta, con l’attenzione all’ingiustizia sociale e al contributo che il suo scrivere poteva dare alla causa in cui finì per riconoscersi.

Nel 1961 Matthews entrò nella parabola discendente della propria carriera. La dichiarazione di Castro di essere un marxista leninista fino alla fine della propria esistenza, lo compromise ulteriormente. A causa della paranoia da Guerra Fredda ricevette numerose minacce di morte con un progressivo deterioramento dei rapporti col Nyt, che gli chiese e proibì di coprire l’attualità cubana, ma lui disobbedì. E a proposito di Fidel aveva ormai esplicitato la convinzione che fino a quando sarebbe rimasto al potere Cuba non avrebbe conosciuto democrazia e libertà, stretta anche dal giogo nordamericano. Nel 1967 si congedò dagli uffici di Times Square, ritirandosi sulla riviera francese a scavare tra le proprie memorie.

Nel ritratto, pubblicato a pagina 36 (Herbert L. Matthews dead at 77; Times Correspondent for Decades) del New York Times il 31 luglio 1977, Wolfgang Saxon ci dice che Matthews è morto in Australia ad Adelaide dopo una breve malattia e che pochi giornalisti hanno avuto una carriera del genere. Gli dà atto di aver scritto la verità osservabile nelle circostanze date, tanto in Spagna quanto a Cuba, mettendo a repentaglio la propria incolumità:

«(…) In both cases, as on others occasions, he wrote the truth as he saw it with an observant eye and a keen sense of language».

Hanif Kureishi: «La creatività si nasconde nelle periferie».

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 1-25 
2 dicembre 2016

di Gabriele Santoro



di Gabriele Santoro

Esiste una chiave per entrare nell'originale mondo di parole costruito da Hanif Kureishi, inserito dal Times nella lista dei cinquanta scrittori britannici più rilevanti nel secondo dopoguerra mondiale. È qualcosa di donato, Something given, il titolo dell'opera, che fornisce gli elementi necessari a comprendere la capacità di inventare una cifra stilistica, un mondo che prima non c'era, e l'essenza della scrittura di un autore così poliedrico. Se la Gran Bretagna è una forza culturale in Europa lo deve al multiculturalismo e alla diversità, sostiene Kureishi che apre al Palazzo dei Congressi la quindicesima edizione della Fiera Più libri più liberi con la lectio Scrivere per essere indipendenti.

Classe 1954, nato a Bromley, da padre pachistano e madre inglese, dove imperversavano gli skinhead. Il razzismo si respirava nell'aria e l'adolescenza consisteva nella ricomposizione creativa in un'identità di due universi, occidente e oriente. Dopo la divisione dell'India nel 1947, la famiglia Kureishi, appartenente alla media alta borghesia, vicini ai Bhutto, si era unita alle aspirazioni del Pakistan.

Il figlio di Rafiushan e Audrey, più o meno inglese con una marcata sensibilità tanto artistica quanto politica, nel cuore degli anni Ottanta, poco più che trentenne, si impose con la sceneggiatura di My Beautiful Laundrette scritta per l'amico Stephen Frears. Nell'era Thatcher, Kureishi portava in scena, rompendo gli schemi rappresentativi della relazione tra bianchi e asiatici, la complessa costruzione del cosmopolitismo che è conversazione tra diversi. Poi, cinque anni più tardi, la consacrazione col romanzo d'esordio Il Budda delle periferie, il bestseller che ha portato a compimento l'urgenza autoriale di rifuggire l'appartenenza forzata.

Kureishi, lei si è misurato con la scrittura per il cinema, il teatro, il racconto e il romanzo. E sostiene che quest'ultimo sia destinato a essere sempre meno rilevante nel discorso pubblico.
«Non intendo niente di apocalittico. Si continua a leggere e scrivere buoni romanzi, non c'è ragione di perdere le speranze e l'interesse nella letteratura. Non credo però sia incidentale l'assegnazione del Premio Nobel a Bob Dylan, l'espressione massima della cultura pop e figura fondamentale nella nostra vita culturale più di molti romanzieri. Lo suppongo anche per una ragione personale: essendo cresciuto negli anni Sessanta e Settanta, ritengo che la musica abbia rappresentato la novità più dirompente per la società. I musicisti apparivano decisamente i più rivoluzionari».

Nella raccolta di riflessioni sulla scrittura, Da dove vengono le storie, lei afferma che già tredicenne aveva la convinzione di diventare uno scrittore, concretizzando poi il sogno di suo padre. Perché la figura paterna è così presente nei suoi libri?
«È stato uno scrittore fallito, che ha speso la propria vita per un'ossessione per lui irrealizzabile. Scrivere era una direzione, che lo orientava verso l'India lasciata appena ventenne. Ogni mattina presto, prima del lavoro, martellava i tasti della sua ingombrante macchina da scrivere. Era tenace e mostrava questo unico interesse, mai tradito. Seminava taccuini ovunque in casa, mi è sembrato naturale avvicinarmi al mestiere che è tenacia e solitudine. Era sempre alla ricerca di storie, lavoravamo insieme agli intrecci, in famiglia si parlava di letteratura. Inventare e raccontare storie ci teneva uniti a doppio filo. Čechov ci ha insegnato che nell'irrilevante accadono gli eventi più profondi da saper cogliere. E ora ho trasmesso la passione ai miei figli, giovani sceneggiatori».

Lei ha frequentato la stessa scuola di David Bowie nella periferia meridionale di Londra. Come era possibile emergere dalla marginalità?
«Mio padre capiva che in periferia, dove nascondersi è spesso la sola arte ma dove fervono aspirazioni, delusioni e sogni, c'è abbondanza di materiale per uno scrittore. I sobborghi che abbiamo vissuto dopo la guerra erano molto grigi, ma anche luoghi interessanti. Pativamo la pioggia, il freddo ma il cuore di Londra era il centro del nostro universo, c'era una vita culturale pulsante dalla musica al teatro, nuove forme di sessualità e devianza. La periferia era al contempo terribile e creativa, da lì rimbalzavamo con le passioni per la musica, la fotografia, i club e il fashion. Billy Idol veniva a scuola con me, sono sbocciate molte vite creative. Scrivevo per lasciare la periferia, ma le storie erano custodite lì».

Le chiedo un ricordo personale di Bowie.
«Intanto ci ha accomunato la scuola, seppure lui fosse più grande di età. Anonimo David Jones se ne stava in una fotografia di classe appesa accanto alla presidenza. Nel romanzo Il Budda delle periferie c'è un personaggio che lo richiama. Lui concepì la colonna sonora per la serie televisiva tratta dal libro ed è un album meraviglioso, spesso sottovalutato, che lui considerava tra i propri migliori. Questa è un'eredità preziosa. Era educato, ricco di immaginazione, condusse molti di noi tra gli spazi interstellari».

The Nothing è il titolo del nuovo romanzo appena ultimato. Torna su un soggetto cruciale delle sue opere, Londra che accoglie e uccide. In che modo sta cambiando la città?
«Il periodo è molto interessante. Londra spicca tra le città globalizzate. È un esperimento multiculturale grandioso, ma ora dopo Brexit vive una transizione, cerca di capire quello che accadrà, quale città diventerà. Resta uno spazio attrattivo, dove essere quello che si vuole, nel quale sono contento di stare. Temo che la concentrazione della ricchezza, la renda un posto accessibile per pochi».

Karim Amir nell'incipit de Il Budda delle periferie esplicita la complessità della propria identità: «Sono un vero inglese, più o meno. La gente mi considera uno strano tipo di inglese, come se appartenessi a una nuova razza». A quasi trent'anni di distanza dalla pubblicazione, che cosa significa oggi essere inglesi?
«L'englishness, l'identità culturale inglese se n'è andata. Affacciandomi alla finestra vedo una città, un paese cosmopolita. Englishness come idea è quasi del tutto scomparsa. Non era un'idea interessante, fertile e ricca, non diceva nulla a troppe persone. Abbiamo un'identità cosmopolita che è fondamentale».

Ci dice qualcosa a proposito di Sadiq Khan, il nuovo sindaco di Londra?
«È prematuro formulare un giudizio politico. Per ora si può dire che incarna lo spirito multiculturale della città, la rappresenta. Estremamente intelligente e molto rispettato, cosa rara per i politici del nostro tempo. Le sfide sono molteplici, a cominciare dalla povertà, dalle crescenti diseguaglianze e dunque dal come si tiene insieme una città, l'educazione, la sanità e soprattutto l'urbanistica, il diritto all'abitare per tutti. Lo vedremo all'opera».

Nel cuore degli anni Novanta con The Black album il protagonista Shahid Hassan è intrappolato tra il liberalismo di stampo occidentale e il fondamentalismo religioso, lei esplora il percorso che ha avvicinato giovani anglo pakistani all'islamismo. È cambiato qualcosa?
«Sarà interessante osservare l'evoluzione della nuova generazione di musulmani. Black album è stato scritto dopo la fatwa che colpì Rushdie, in largo anticipo sull'Undici Settembre statunitense. Ora non ci si muove più tra due culture, ma si è sottoposti a miriadi di influenze. Il mio auspicio è che la gioventù post 11/9 riesca a prendere le distanze da una religiosità che conduce in nessun dove. Sulle due sponde dell'Atlantico stiamo assistendo a un vento di destra molto forte e preoccupante, da Brexit a Trump».

Lei appartiene a una generazione di scrittori che ha guardato all'America con molteplici riferimenti letterari e musicali. Con un tweet ha espresso la propria inquietudine per un ritorno della Supremazia bianca, l'ha definita White Isis.
«È una questione interessante. Il populismo differisce dai totalitarismi novecenteschi, ma continua ad alimentare il razzismo mai eradicato. Ho paura per le minoranze vittime dell'ascesa di nuove espressioni della white supremacy».

giovedì 24 novembre 2016

La Germania e il 1989, Eravamo dei grandissimi: intervista a Clemens Meyer


di Gabriele Santoro

ai Piero

La Repubblica Democratica Tedesca non esiste più. I ragazzi non hanno più una storia sulla quale costruirsi e ballano furenti sulle macerie dello Stato. La misura e lo stile di Clemens Meyer, lo scrittore tedesco più in essere della generazione post 1989, si colgono anche dallo sguardo e dalla fermezza pacata dell’eloquio.


Sotto il tono controllato della sua voce scorre un torrente di emozioni come nel romanzo d’esordio Als wir träumten (Quando sognavamo), che è appena stato pubblicato in Italia da Keller col titolo Eravamo dei grandissimi (608 pagine, traduzione curata da Roberta Gado e Riccardo Cravero, 19 euro). Il linguaggio non straripa mai, è chiaro, si muove sotto la superficie senza essere necessariamente esplicito e in molti passaggi commuove.

Lui, ragazzo del 1977, aveva ventidue anni quando lo ha cominciato a scrivere senza alcuna esperienza precedente in materia. Per due anni e mezzo dopo la scuola, diplomatosi nel 1996, ha scelto di fare l’operaio in cantieri edili. Ha smesso a causa di un infortunio alla schiena. Il padre, che disponeva di un’immensa libreria a casa, gli ha trasmesso la passione per la letteratura. Meyer, tatuato sulla maggior parte del corpo, poi è riuscito ad accedere al German Literature Institute di Lipsia, presentando alcuni scritti.

Apparso in Germania nel 2006, il libro continua a essere tradotto, l’anno scorso con successo nell’edizione francese. La traduttrice Roberta Gado, che ha diviso il lavoro con Cravero, lo definisce un classico contemporaneo. Meyer una volta ha detto: «Non sarei quello che sono, se non fossi cresciuto come un figlio della strada, usando un’espressione un po’ melodrammatica. Lì è dove ho appreso la cifra stilistica della mia scrittura. I miei amici giù al pub mi riconoscevano come un racconta storie».

Il prologo di Eravamo dei grandissimi dà il ritmo, il segno e l’impronta della sua prosa letteraria. I bambini giocano con la Storia, cercano piuttosto di sopravviverle con l’immaginazione: «So una filastrocca. La canticchio tra me e me quando la testa comincia a giocarmi strani scherzi. Credo che la cantassimo da bambini saltellando da un rettangolo di gesso all’altro, ma può essere che me la sia inventata o l’abbia soltanto sognata. Certe volte la recito in silenzio, solo muovendo le labbra, altre mi metto a canticchiarla e nemmeno me ne accorgo perché mi ballano in testa i ricordi, no, non dei ricordi qualsiasi, ma quelli dopo la magnifica caduta del Muro, degli anni in cui siamo, come dire? Venuti in contatto».

La violenza propria di un terremoto politico e sociale, così necessariamente presente nel testo, non riesce tuttavia a uccidere la dimensione del sogno, l’unico argine alla sconfitta. Dopo la Svolta del 1989 Daniel, Mark, Paul e Rico, un gruppo di amici indissolubile, cresciuti come “pionieri” nella Germania dell’Est scorrazzano a Lipsia: furti di auto, risse, alcol; hanno una rabbia senza controllo. L’unico rifugio in un mondo ormai del tutto estraneo appare il monolocale di una signora anziana con la quale maneggiano il peso della solitudine. Che cosa resta dei sogni e delle illusioni amplificate dal miraggio dell’Ovest così distante?

L’azione si svolge alla periferia di Lipsia, in un contesto architettonico paleoindustriale, nell’est della città stessa che l’autore fa rivivere con la letteratura. La frammentarietà dei personaggi si rispecchia nella frammentarietà della struttura del romanzo, una serie di capitoli non in ordine cronologico ben connessi dalla tensione e bravura nel montaggio. Le avventure di questi cinque ragazzi, generazione 1976, si alternano tra scene dell’infanzia, quando frequentavano la scuola elementare, fino al raggiungimento della maggiore età. Crolla il regno dell’infanzia, essi si frantumano con la Svolta, assorbiti nel vortice degli ultimi colpi di coda del socialismo e di una libertà fittizia incondizionata di cui non sanno cosa farsene.

Meyer fa i conti con la violenza psichica e fisica deflagrata nella terra di nessuno, a cavallo della riunificazione e poi nel vuoto di senso post Ottantanove. Tutto viene narrato dal punto di vista di questi giovani ed è un coro di voci prive, non intrise di sentimentalismo e ideologia. I bambini non sono prigionieri della consapevolezza di quel che vivono, non sono anestetizzati e ciò assicura la potenza del lavoro, che contiene ampi tratti autobiografici di Meyer. Dalla periferia giungono al cuore della Storia, che però non comprendono, se non molti anni più tardi, pagando le conseguenze sulla propria pelle.


Meyer, il suo romanzo sembra esprimere l’urgenza di ricomporre mediante la scrittura la tensione tra l’Io e il Noi.
«Sì, senz’altro anche se almeno all’inizio avviene a livello inconscio. Creo una storia, poi però mentre la scrivo mi accorgo che non appartiene solo a me. Racconto una storia che riguarda dei processi e dunque tutta la società. L’energia e il furore dei personaggi, che la buona letteratura riesce a codificare e tradurre, trasformano il materiale in qualcosa di molto più interessante di uno studio sociologico. Non volevo però narrare la storia di una generazione perduta. Divento sospettoso quando le persone parlano del noi, in fondo moriamo da soli. I personaggi sono individualisti, un po’ come me, e vanno controcorrente».

Lei non può rinunciare alla concretezza dell’esperienza, verrebbe meno questo libro che ci solleva dalla morale. In che modo ha costruito l’equilibrio tra osservazione e immaginazione?
«È una miscela abbastanza difficile da scandagliare e identificare anche per sé stessi. Certamente mi muovo da un’idea, da un nocciolo della storia che deve essere solido. In questo caso consiste nell’amicizia di cinque ragazzi che si sviluppa negli anni prima e dopo la riunificazione tedesca. A partire da qui compongo e invento altri personaggi secondari e storie parallele. La materia prima è tratta dalla società in cui vivo e che conosco».

Quanto si affida alla memoria?
«È quasi tutto un lavoro fondato integralmente sulla memoria. Nei miei due romanzi più importanti l’ho utilizzata in modo diverso. Nell’ultimo ho svolto molto lavoro di ricerca, raccogliendo  memorialistica: articoli di giornali, libri, riviste, appunti. E da questa grande massa di ricordi scritti,  materiale di archivio ho elaborato la storia. Mentre nel caso di Eravamo dei grandissimi ho focalizzato il lavoro sui ricordi che avevo nella mia testa senza ricerche particolari, perché era proprio un periodo vissuto in prima persona. Poi mescolo gli elementi della realtà con l’invenzione, soprattutto con elementi surreali per ottenere l’effetto di far muovere i personaggi, che disconoscono un mondo ormai estraneo, in un sottobosco parallelo della realtà».

Il tempo della grande Storia come si tiene insieme a quello dell’infanzia e dell’adolescenza?
«È questo il segreto del libro: riuscire ad agganciare la storia con la lettera maiuscola, gli eventi di un cambiamento epocale, quali la caduta del sistema socialista e del blocco occidentale, insieme a un altro periodo, appositamente scelto, di svolta cruciale e di mutazione per l’esistenza individuale qual è la pubertà. C’è il cambiamento proiettato verso l’età adulta, in cui però senti che la terra sotto ai tuoi piedi è sconquassata da una scossa tellurica, che ancora oggi non ha assestato la Germania, e la storia della tua infanzia sparisce. Mi interessava proprio la prospettiva di questi due cambiamenti montati insieme, il che cosa accade quando si sgretola completamente il tuo passato. Il terzo elemento è stato la necessità di mostrare gli accadimenti con gli occhi di chi, come me, era ancora giovane».

La pellicola As we were dreaming, che si ispira al romanzo ed è stata in concorso nella scorsa edizione della Berlinale, indugia sulla violenza calcando sulla tenerezza del legame che unisce la banda di amici. Ha apprezzato la trasposizione cinematografica?
«Non ho contribuito tecnicamente alla stesura della sceneggiatura. Conoscevo e mi fidavo del regista Andreas Dresen, ed ero contento che il cinema procurasse nuovi lettori. Ho svolto una funzione di consulente, mi interpellavano quando avevano dubbi. Durante le riprese stavo scrivendo il romanzo Im Stein e non avevo molto tempo a disposizione. Le considero due cose proprio diverse, un po’ come la traduzione. È una traduzione in un altro linguaggio artistico che utilizza mezzi differenti. Ci sono delle scene in cui trovo che lo spirito del libro sia molto ben colto, in altre meno però riesco a vederlo con neutralità, con un certo distacco. Anche se il film non dovesse piacermi ha importanza relativa, perché il libro continua a esistere con la propria indipendenza».

Nel romanzo c’è qualcosa di cinematografico, fa pensare per esempio a Rocco e i suoi fratelli.
«Amo i film di Luchino Visconti. Mi ha ispirato in ragione del suo epos. Nella pellicola non si tratta di amici ma di fratelli, tuttavia si vede lo sgretolamento dei loro rapporti, il tradimento quando un fratello violenta la fidanzata dell’altro e anche qui è una storia raccontata attraverso tanti anni. Si presenta un contesto sociale marginale, dove questa gente cerca lavoro e insegue i propri sogni. Ecco, mi sono ispirato al film nella ricerca della modalità narrativa di queste grandi storie di epos, combinando le emozioni con il distacco necessario».

La Repubblica Democratica Tedesca è stata narrata essenzialmente come uno Stato marcio, antieconomico, arretrato e dittatoriale. Perché la connessione sentimentale con quell’epoca è invece tenuta ancora viva?
«Lo Stato dell’ex Germania dell’Est è durato quarant’anni. In un tempo così relativamente lungo si intrecciano tantissime storie di vita, che la popolazione non può cancellare. In un paese dittatoriale, o appunto marcio, non si smette di vivere. La RDT è stata una parte essenziale della vita di milioni di persone, a prescindere dall’atteggiamento che avevano nei confronti della politica. Alcuni non sono riusciti a trovare un equilibrio, altri si sono adeguati o hanno ignorato i temi cruciali però sicuramente è un nodo complesso che non si è sciolto. A Est si sognava. È importante non presentare la storia da un unico punto di vista, ce ne sono diversi. Pensiamo per esempio alla produzione letteraria, nata nell’ambiente della RDT, che tutt’oggi conserva il proprio valore».

Che cosa rappresentano il sentimento dell’Ostalgie, la nostalgia dell’Est, e il culto dell’oggettistica della quotidianità?
«Sostanzialmente sono dei relitti che ricordano un tempo, quello dell’infanzia, che vista la questione generazionale è un po’ come la madeleine di Proust. Risvegliano un ricordo. È evidente che nel caso della RDT siccome è scomparso tutto, l’architettura, la politica quanto le abitudini, ciò che resta sono frammenti ai quali ci si attacca pur nella felicità che molte cose siano cambiate. Il fenomeno commerciale dell’Ostalgie personalmente invece non mi interessa affatto».

Colpiva un sondaggio ampio, pubblicato in occasione del ventesimo anniversario della caduta del Muro, secondo il quale meno del 40% degli abitanti a est erano soddisfatti degli effetti della riunificazione. Lamentavano soprattutto il venir meno del valore della solidarietà. Nelle recenti elezioni regionali, proprio nel collegio elettorale di Merkel, i populisti dell’Afd hanno superato la Cdu con un’erosione significativa dei voti della Spd e un crollo della Linke. Perché non sono stati sufficienti i due miliardi di euro confluiti dall’ovest all’est per la ricostruzione?
«Questo sentimento varia in base al contesto geografico a cui ci si riferisce. Nei nuclei urbani soprattutto a Lipsia, in parte anche a Dresda, non è più così, invece nella zona provinciale l’insoddisfazione risulta dominante. Dipende molto dalla situazione economica finanziaria attuale regionale. È certo che i cittadini dell’est non hanno mai visto la necessità di mostrare gratitudine o peggio riverenza. La posizione è chiara: il Muro l’hanno fatto cadere loro con l’esigenza di cambiamento. Non è stato l’ovest ad abbatterlo. In ogni modo è altrettanto sicuro che non sono soddisfatti di come poi siano andate le cose; permane quella sensazione di essere trattati come cittadini di seconda categoria. Non basta che la Cancelliera sia Angela Merkel, figlia di una provincia, il Meclemburgo Pomerania Anteriore, tra le più povere a est. Ci vorranno ancora molti anni, cinquanta probabilmente, affinché questi eventi non siano più tema, oggetto di discussione. Quelli della mia generazione da anziani forse ne saranno usciti».

Abandoned after the Wende, this factory in the Leipzig district of Anger-Crottendorf was  typical of the early 20th c. industrial infrastructure which still formed the backbone of the GDR’s economy
Palast Theatre è forse il capitolo più bello e struggente del libro. A Lipsia quasi tutti frequentavano e amavano quel cinema, poi bruciato dopo la riunificazione. Dall’insegna crolla la L e diventa Paast Theatre, cinema del passato. A Daniel non resta che l’immaginazione per salvare dall’eroina l’amico Mark.
«Questa sala cinematografica esisteva veramente, oggi è stata distrutta. È stato uno degli ultimi capitoli del libro che ho scritto, avevo almeno già 400 pagine che mi hanno dato la forza. Sapevo che sarebbe stato un capitolo importante da affrontare. Mark è l’amico a cui è dedicato il libro. Questo capitolo è costruito con un passaggio continuo tra presente e passato, tra loro bambini al cinema e poi ragazzi nello stesso luogo a fronteggiare la questione della dipendenza dall’eroina. Ho impiegato molto tempo a trovare il tono giusto per l’argomento. La tragicità del fatto è che questa scena rappresenta l’ultimo tentativo. Daniel per l’ultima volta prova a convincere Mark a tornare in ospedale e lo fa con uno strumento particolare che è la forza dell’immaginazione, richiamando i ricordi e sperando che questo lo aiuti. A prescindere dalla ambientazione c’è questa amicizia, la solidarietà che sopravvive al crollo di un’infanzia chiamata RDT».

Che cosa sognavano i ragazzi?
«Sognavamo una nuova società e con essa una vita nuova. Sognavi una società senza classi, ma anche un’amicizia che durasse all’infinito o l’amore che tutti aspettavano. È un miscuglio tra sogni piccoli e grandissimi. Non mi interessano tanto i fatti storiografici, quanto gli sguardi di questi bambini con ricordi diversi rispetto a quelli dei propri genitori, nonostante la realtà sia stata la stessa».

Nella Repubblica Democratica Tedesca l’abuso di alcol era conclamato. L’arrivo devastante delle sostanze stupefacenti in seguito alla riunificazione quale vuoto ha colmato?
«Sì, sul fronte dell’alcolismo in grande stile non si temeva molta concorrenza. Non era così diffusa però la prostituzione ed era inesistente il mercato della droga. Il fenomeno d’importazione della tossicodipendenza ha preso il sopravvento a causa dell’inesperienza, della scarsa conoscenza antecedente al 1989. Molti volevano provare, come quando si instilla e induce al consumo di un prodotto nuovo. La polizia era del tutto impreparata. In poco tempo ci siamo trovati inermi davanti a un problema fatale. La droga è l’elemento determinante per lo sgretolamento del gruppo di amici».

Il Muro a Lipsia non era una realtà fisica, Berlino abbastanza lontana. Che cosa significa tuttora però per voi quell’immagine?
«Ne sentivamo parlare da bambini. Una volta andai a vederlo, ma non era per me un punto di riferimento, ciononostante è rimasto un elemento per almeno 25 anni. A ogni modo non è stato il primo muro della storia, è un simbolo del fatto che all’uomo piace costruire un confine difensivo intorno a sé; lo fecero già i romani con il limes e si continuerà a erigerli. Oggi per le migrazioni, seppure siano incontenibili, ma in fondo le motivazioni sono le stesse di sempre. Anche allora c’era la paura del selvaggio, dell’estraneo. Il problema consiste nello spostamento del confine del benessere sempre più tecnologizzato».

Lei utilizza un telefono mobile, che al primo sguardo definiremmo obsoleto, privo di connessione Internet. E si limita alla posta elettronica. Perché?
«È come se oggi spegnessimo i ricordi. Nessuno fa affidamento alla propria memoria, navighi semplicemente in internet e guardi lì che cosa è successo. Quando ho scritto il romanzo non avevo la Rete a casa, per me non esisteva ed è stato un vantaggio prezioso. Per me stesso cerco di creare un contro movimento: quello di limitare l’utilizzo di Internet, dunque ho scelto di utilizzare un cellulare che non è uno smartphone. Penso che ci sia posto per 17 sms e basta. È come se mi rifiutassi, perché non c’è proprio più posto per i sogni e per le leggende».

mercoledì 23 novembre 2016

Roma punta su Più libri più liberi nella nuova geografia dei festival

Il Messaggero, sezione Tutta Roma Agenda pag. 58-59
23 novembre 2016

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

La Fiera nazionale della piccola e media editoria, Più libri più liberi, compie quindici anni e si appresta a cambiare sede. Dal 7 all'11 dicembre si terrà probabilmente per l'ultima volta presso il Palazzo dei Congressi, per poi trasferirsi l'anno prossimo al non distante Nuovo Centro Congressi, noto come la Nuvola di Fuksas. 

L'Associazione italiana editori definisce la quindicesima come l'edizione più bella. Il titolo della manifestazione è Sono tutte storie e si caratterizzerà con la consueta miscela di autori noti al grande pubblico come Camilleri e altri da scoprire, come l'interessantissimo Alain Mabanckou, tra i più influenti scrittori africani post colonialisti, lui il primo africano a entrare in qualità di insegnante al Collège de France. Il budget della rassegna tocca circa il milione e duecentomila euro, così ripartiti: 560mila da ricavi propri (affitto stand, ristorazione etc); 185mila tra Comune di Roma e Regione Lazio; 215mila dall'Aie che promuove la tre giorni; 100mila dall'Unione Europea. La quota restante giunge dall'affaire della fusione Mondadori-Rcs. Nel passaggio di Rcs Libri a Mondadori per 127,1 milioni di euro, l'Antitrust aveva deliberato un provvedimento che tra le misure correttive prevede il finanziamento economico di 225.000 euro per l'organizzazione e la gestione di Più libri più liberi nelle prossime tre edizioni.

Con le parole di Federico Motta, milanese, sessantenne, presidente dell'Aie, background familiare e una vita spesa nel campo dell'editoria, Roma consolida il proprio ruolo nella rinnovata geografia dei festival letterari nazionali con un evento unico anche nel panorama europeo, quasi a ricomporre la frattura interna all'associazione prodotta dalla nascita della fiera dell'editoria italiana Tempo di libri a Milano. Durante la tre giorni romana si confronteranno sul tema i due nuovi direttori Chiara Valerio, responsabile della rassegna milanese, e Nicola Lagioia, al vertice del Salone internazionale del libro di Torino giunto al trentesimo anno di attività, che ha appena comunicato la squadra per il nuovo corso e incassato, prima della presentazione ufficiale del programma, la partecipazione di Feltrinelli. Ricordiamo che la cosiddetta piccola e media editoria in Italia produce il 47% dei libri pubblicati, a fronte del 30% di quota di mercato.

«Più libri più liberi è un fenomeno sul quale vogliamo investire sempre di più, massicciamente – ha dichiarato Motta – . Roma è la casa di questa manifestazione, che senza questa città non esisterebbe. Vogliamo assolutamente che qui venga radicato un concetto di editoria che non è grande, piccola o media ma indipendente, perché l'editoria italiana si deve fondare su un uditorio indipendente. Vorremmo andare l'anno prossimo in un posto nuovo nella città, conservando l'anima del luogo precedente». 

Più libri più liberi, che coinvolgerà altri luoghi col contributo delle Biblioteche di Roma e del format Fuori fiera, sarà inaugurata dal romanziere, drammaturgo e sceneggiatore anglo-pakistano Hanif Kureishi, che si è imposto sulla scena negli anni Novanta con l'opera prima Il Budda delle periferie. Dall'estero arrivano o tornano voci come Valeria Luiselli, Dany Laferrière, Mircea Cartarescu, Marc Augé, il lusitano Gonçalo M. Tavares, particolarmente amato da Saramago e appena pubblicato in Italia, le narratrici scandinave Lena Andersson e Laura Lindstedt. L'ex militare britannico in Afghanistan Harry Parker illustrerà il suo potente romanzo d'esordio, Anatomia di un soldato.

Il gruppo degli ospiti italiani oltre a Camilleri, Lagioia e Valerio comprenderà: Erri De Luca, Paolo Di Paolo, Antonio Manzini, Michela Murgia, Valeria Parrella, Antonio Pennacchi. Ci saranno poi Nanni Moretti, impegnato in un reading da Caro Michele di Natalia Ginzburg, Vinicio Capossela, Ascanio Celestini, Pif e Luca Carboni. C'è la novità di Più libri più fotografie, un ciclo fotografico organizzato da Contrasto con quattro grandi interpreti internazionali: l'americano Zackary Canepari, Giulio Piscitelli e Ferdinando Scianna, la fotogiornalista polacca Monika Bulaj. Appuntamento ormai inderogabile è quello col graphic novel d'autore dove spiccano Gipi, Paco Roca e Zerocalcare.

domenica 20 novembre 2016

Jonah Lomu, il figlio del vento che cambiò il rugby

Il Messaggero, sezione Macro, pag. 20
20 novembre 2016

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

All'inizio del 1989 l'uragano nero, quando varcò per la prima volta la soglia dell'ufficio di Chris Grinter, non era altro che un tredicenne, uno dei tanti ragazzini di strada dal sobborgo Greenlane, nella parte sud di Auckland, la città più popolosa della Nuova Zelanda. «Forse era fisicamente un po' più grande dei suoi coetanei, ma la sua futura magnificenza e abilità atletica non apparivano ovvie», ha raccontato l'allenatore del Wesley College. Nei cinque anni successivi Jonah Lomu, ala classe 1975, ha colto di sorpresa il mondo e ha cambiato il gioco con la palla ovale, divenendone la prima icona globale.


Nel 1995 Nelson Mandela tentava di ridisegnare le linee di confine e infrangere le convenzioni anche nel rugby, disciplina ad appannaggio dei bianchi, tenendo però insieme il Sudafrica. E c'era una Coppa del mondo per mostrare la reificazione dell'idea di un paese oltre la lacerazione dell'apartheid. Laurie Main, l'allenatore degli All Blacks, la selezione nazionale, si accorse di quel talento che inanellava record di velocità e lo scatto fu breve: «Nel 1994 sapevamo che c'era un potenziale straordinario in Lomu per realizzare qualcosa di spettacolare e inatteso già nella Coppa del mondo del 1995». L'ultima domenica del mese di giugno 1994 a Christchurch, Lomu, appena diciannovenne, divenne l'All Black numero 941.

Marco Pastonesi, giornalista e scrittore, non ha mai nascosto la propria predilezione per i gregari. Ora con L'uragano nero. Vita, morte e mete di un All black (66thand2nd,185 pagine, 18 euro) torna a misurarsi con un uomo dall'esistenza più larga della vita e, seguendo i passi dell'anima del campione scomparso nel 2015, ci guida in tanti luoghi italiani del rugby.

Un italiano, Vittorio Munari, cacciatore di talenti per il Petrarca Padova, rimase subito abbagliato dal giovanissimo Lomu. Era bello come Cassius Clay, al quale verrà simbolicamente associato per l'impatto mediatico, all'Olimpiade di Roma nel Sessanta: centodiciotto chili senza un'oncia di grasso, sempre pronto, seppure di carattere riservato. Il rugby l'aveva conosciuto sulla strada, dove mitigava il dolore di una famiglia segnata dalla violenza paterna.

Pastonesi ci ricorda che il rugby è forza, non violenza, e questo sport tirò fuori dai guai l'adolescente Lomu, invischiato in pessime compagnie. La madre lo iscrisse al Wesley College, che dal 1884 ha accolto e formato studenti fondamentali per la storia degli All Blacks. Nessuno come lui era in grado di abbinare quella velocità a quella stazza. Da studente fermò a 10”89 il tempo sui centro metri piani: un figlio del vento che distruggeva i placcaggi.

Venticinque passi, tre placcaggi evitati, sette secondi di tempo per la meta più celebrata: così in Sudafrica, durante la semifinale mondiale contro l'Inghilterra, e nonostante la sconfitta in finale contro gli organizzatori del torneo, Lomu assurse al ruolo di icona nella cultura di massa. La storia di Jonah abbaglia per come ha resistito già dal 1996 alle rovine, alla malattia: sindrome nefrosica. Prima e dopo il trapianto di rene è stata questione di andate e ritorni coraggiosi sul campo. Gioca, risorge, per poi doversi arrendere. Muore poco più che quarantenne.

C'è una bella fotografia, scattata nel 1994. Lomu, nello spogliatoio di Christchurch, stringe la prima maglia All Black della sua carriera e sembra assorto in preghiera. Il rugby è un elemento culturale inscindibile dalla nazione neozelandese, sono cresciute insieme, in una relazione del tutto particolare con i colonizzatori, gli inglesi.

venerdì 18 novembre 2016

Dal Congresso alle primarie democratiche, storia di Shirley Chisholm


Pubblichiamo la seconda parte del pezzo che racconta la storia di Shirley Chisholm. Qui la prima puntata: buona lettura.

di Gabriele Santoro

Si trattava di una svolta epocale. Da quella vittoria nacque la Bedford Stuyvesant Political League che segnerà l’ascesa di Shirley. La novità costituita da quella giovane attivista instancabile, che sapeva parlare non alla gente ma con la gente, attivò i meccanismi di assimilazione della politica quando si trova spiazzata, quando deve gestire una mina vagante. L’esigenza di rompere gli schemi condusse Shirley, ribelle con fiuto politico, anche a dolorose rotture. Non esitò ad affrontare il mentore Holder per la leadership della BSPL, confermando che non faceva difetto alla voce determinazione, e perse.

Rosa Parks con Shirley Chisholm
Nell’inverno del 1960 Shirley rientrò ufficialmente nell’ambiente politico di Brooklyn. Con altre sei persone formò una nuova organizzazione interrazziale The Unity Democratic Club. Tra le missioni spiccava l’educazione della cittadinanza al processo politico, occorreva spiegare quanto incidesse sulle loro vite, spingendo le persone a registrarsi e a votare. Crearono qualcosa di più di una base elettorale solida. Nel quartiere lentamente si modificava l’equilibrio del potere elettorale. Dopo Flagg, Shirley conquistò un altro segnale storico del cambiamento con l’elezione di quattro neri fra i ventidue membri del County Committee, noto come Kings County a Brooklyn, il livello più locale della governance del partito democratico a New York.

Chisholm era convinta che negli anni Sessanta le sfide poste nel decennio precedente al segregazionismo avrebbero proseguito a scuotere il paese. Aderì all’atto fondativo del movimento femminista National Organization for Women. Nel 1954 la sentenza della Corte Suprema sul caso Brown versus Board of Education of Topeka, che dichiarava incostituzionale la segregazione scolastica, aveva riacceso la lotta. Il primo febbraio del ’60 quattro giovani afroamericani, violando le leggi del Sud razzista, si sedettero per consumare il pranzo al Woolworth’s Store a Greensboro e rifiutarono di andarsene, prima di essere serviti come il cliente bianco. L’esempio che diede coraggio alla moltitudine degli oppressi nel nome di Emmett Till. Rosa Parks aveva già detto di essere stanca di cedere il posto e guardava lontano fuori dal finestrino.

La nonna di Ella Baker da schiava non aveva accettato di sposare l’uomo scelto dal padrone. La nipote è stata una delle principali protagoniste della battaglia contro la legislazione Jim Crow nel profondo Sud: «Occorreva far comprendere alle persone che avevano un potere da utilizzare nel solo caso in cui avrebbero preso coscienza di quel che stava avvenendo e che i gruppi di azione, la collettività era in grado di controbattere alla violenza», diceva Ella. Milioni di americani ispirati dalla militanza politica degli attivisti per i diritti civili credettero che le iniziative collettive potessero aprire le porte esclusive dei club politici e influenzarne l’agenda. La mobilitazione di massa, combinata alla disobbedienza civile, assumeva un’importanza indissociabile dalla presenza al voto e dalla candidatura dei neri. La lotta per i diritti civili al Nord, specialmente a Brooklyn, era abbastanza diversa dal Sud. La popolazione nera di Brooklyn pativa la segregazione de facto, che incideva dal lavoro al diritto all’abitare, con l’esclusione dalla rappresentanza politica, ma non sperimentava la brutalità dello stato di apartheid, violenza e morte del Sud.

Nel 1964 la disponibilità di un posto presso la Corte Civile di Brooklyn spinse Shirley al grande balzo. L’avvocato Tom Jones, dopo un mandato nell’Assemblea dello Stato di Nyc ad Albany, decise di correre come giudice. Dopo una lunga e fruttuosa gavetta decennale Shirley non diede attenzione a voci ostili o contrarie e si candidò senza riserve per quel seggio lasciato vacante. Shirley autofinanziò, 4mila dollari in totale, una durissima campagna elettorale estiva strada per strada con un messaggio chiave: voglio servire la mia comunità da dove si giostra il comando. Shirley vinse, raccogliendo 18151 voti, con un margine ampio nella corsa a tre contro il candidato liberale e quello repubblicano. Il 1964 fu uno spartiacque per lo Stato di New York e non solo: eletta Chisholm, il reverendo Martin Luther King Jr vinceva il Nobel.

In realtà dietro alla vittoria ad Albany c’è anche un uomo. Andrew Cooper lasciò un segno permanente nel panorama politico locale e nazionale, intentando una causa per la ridefinizione dei confini dei distretti elettorali di Brooklyn. La sua causa come altre (Baker v. Can; Reynolds v. Sims) tra il 1962 e il 1964 affrontarono il nodo della natura geopolitica della rappresentanza congressuale. L’impatto di queste sentenze e la conseguente redistribuzione incrementarono la rilevanza e il potere politico delle aree urbane. A Brooklyn la causa Cooper v. Power produsse la creazione del New York Twelfth Congressional District che nel 1968 elesse Chisholm al Congresso.

Fu stretto il rapporto di Chisholm con il senatore dello Stato di New York, Robert Francis Kennedy. Un prodotto di quella politica è stato ed è la Bedford-Stuyvesant Restoration Corporation, il primo modello di associazione no profit negli Stati Uniti, che a dicembre compirà quarant’anni di attività, per lo sviluppo di una comunità, per migliorare le condizioni di vita e le opportunità di occupazione in quell’area depressa di Brooklyn.

Shirley continuerà sempre a danzare dentro e fuori dal sistema. L’ampia base elettorale e il consenso costruito nel tempo le consentivano di non subire le ritorsioni, l’esclusione riservata a chi non si allineava al partito. Essere dissidente non comportava alcuna deroga al ruolo legislativo. All’assemblea di Albany presentò cinquanta progetti di legge, otto quelli approvati: un numero sopra la media.

A quarantacinque anni dal primo progetto di legge sul tema, firmato Chisholm, la categoria professionale dei lavoratori e delle lavoratrici domestiche nello Stato di New York ha conquistato il Domestic Workers Bill of Rights, che nel contesto giuridico del New York State Human Rights Law mette nero su bianco le tutele invocate da Chisholm. I programmi del suo Seek (Search for Education, Elevation, Knowledge) sono componenti integranti della vita accademica della City University of New York e della State University of Nyc. Sempre vigile sulle materie di propria competenza, la scuola su tutte, si segnalò per un’accesa battaglia contraria al finanziamento statale delle scuole private. Shirley si spese invano per un progetto di legge, che mantiene la propria attualità. Voleva rendere obbligatorio per diventare poliziotti la frequenza accademica di corsi sui diritti e sulle libertà civili per una cultura del rispetto delle minoranze e dei rapporti interrazziali.

Fino alla metà degli anni Sessanta a New York la mappa elettorale per il Congresso privava dell’efficacia il diritto di voto delle minoranze. La sentenza della Corte Suprema, che decretò che i distretti fossero di eguale misura, compatti e contigui senza dividere e disperdere il voto nero, consentì a Chisholm di immaginare la strada verso Washington.


Superate le ruggini, ottenne il sostegno indispensabile del mentore Holder, mancò invece quello di Kennedy, propenso al contendente Thompson. Nel 1968 vedevano a portata di mano un traguardo storico. Furono dieci mesi di campagna elettorale durissima trascorsa a raccontare la storia di una giovane donna figlia di immigrati, emigrata a propria volta, che aveva deciso di sfidare e battere intanto il proprio grande partito. Shirley coniò lo slogan: «Fighting Shirley Chisholm – Unbought and Unbossed». Un manifesto vincente per dire due cose essenziali: il mio voto non è in vendita e più in profondità sono emancipata dalla schiavitù e dal colonialismo; sono una donna forte che non si fa comandare tanto a casa quanto nell’organizzazione politica.

Dopo la vittoria alle primarie Shirley si sentì male. O è incinta o è un cancro, sentenziò il medico alla prima visita. La biopsia scongiurò la malignità del fibroma. Dopo l’intervento riuscito e il decorso post operatorio tornò a casa emaciata, ma decisa a riprendere la strada: «Questa è la combattente Shirley Chisholm. Sono in piedi, in giro, a dispetto dei mormorii della gente».

La questione di genere fu utilizzata dagli avversari, mentre lei non caratterizzò la propria campagna congressuale in chiave femminista. Holder studiò a fondo l’elettorato e un dato deponeva a loro netto favore: per ogni uomo registrato nelle liste del distretto c’erano 2.5 donne, era il tallone d’Achille dei repubblicani. Nel quartiere le famiglie, le case erano guidate soprattutto dalle donne che si registrarono in massa per votare. Erano attive nei club politici, dunque occorreva coinvolgerle, fare rete. Un fattore determinante ignorato dagli avversari. «Le donne sono considerate cittadine di seconda classe come i neri. Una quantità immensa di talenti è sprecata dalla nostra società solo perché quel talento indossa una gonna. Voglio che giunga il tempo nel quale non vedremo più le differenze in base al sesso e al colore della pelle. La discriminazione contro le donne in politica è particolarmente ingiusta, perché non ho visto nessuna organizzazione funzionare senza di loro. Per anni sono rimasta dietro le quinte e ho lavorato per piazzare gli uomini negli uffici politici, scrivendo i loro discorsi e suggerendo come rispondere alle domande».

Il contendente, un afroamericano da Harlem, Farmer, era un leader del movimento per i diritti civili dalla comprovata qualità oratoria, che non tentennò nello scaricare Nixon inviso ai neri di Brooklyn, annunciando il voto per Hubert Humphrey. Farmer ricevette l’endorsement da celebrità quali Nina Simone. Le due candidature erano il segno dei tempi, travolti però in quel cruciale 1968 dalla violenza assassina che fece ripiegare il Paese. La campagna di Farmer, sposato con una donna bianca, si distinse per il maschilismo, ma non era una novità. Le donne erano marginalizzate anche dentro al movimento per i diritti civili. Nella grande marcia dell’agosto 1963 a Washington, Dorothy Height, al vertice del National Council of Negro Women, fu l’unica fra i leader delle maggiori organizzazioni a non parlare dal palco.

Nei dibattiti e confronti diretti Chisholm sbaragliò Farmer tanto quanto nelle urne: 34.885 voti a 13.777. Un trionfo che le diede la ribalta nazionale e le prime pagine dei giornali, ormai era bombardata dalle richieste di interviste. È interessantissimo in questo senso il lavoro di analisi sui media di Erika Falk: Women fot President, Media Bias in Eight Campaigns. Chisholm era spesso etichettata dalla stampa con lo stereotipo della femminista arrabbiata.

Shirley si è sempre presentata in anticipo sulla Storia. All’apertura della novantunesima sessione del Congresso degli Stati Uniti arrivò invece con un po’ di ritardo e infranse una delle tradizioni venerate della casa, prima di procedere al giuramento, entrando con il cappotto e il cappello ancora indosso. I deputati le chiedevano: «Che cosa ne pensa tuo marito dell’elezione?».

Non allestì uno staff personale all black, misurando invece la scelta sulla competenza, l’esperienza e la lealtà. Si distinse subito in una battaglia feroce riguardante l’assegnazione nelle commissioni. La destinarono alla Commissione agricoltura e alla subcommissione Forestale, mentre lei chiedeva quella dedicata a Educazione e lavoro. Affrontò, cosa inedita per un debuttante al Congresso, lo speaker McCormack riuscendo a variare l’indicazione iniziale. Vinse anche questa battaglia con l’insolita approvazione della stampa newyorchese. La spostarono alla Commissione per i Veterani di guerra. «Nel mio quartiere ci sono molti più reduci che alberi», commentò soddisfatta.

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lunedì 14 novembre 2016

Storia di Shirley Chisholm, prima donna nera eletta al Congresso degli Stati Uniti


Pubblichiamo, in due parti, un lungo ritratto di Shirley Chisholm (1924-2005), prima donna nera eletta al Congresso e candidata alle primarie del Partito democratico per le presidenziali del 1972. La nomination andò a George McGovern, che venne sconfitto da Richard Nixon, presidente uscente.

di Gabriele Santoro

«Proffy, lei dimentica due cose: sono nera e sono una donna». Al college la politica era ancora una fantasia per la giovane Shirley Anita St. Hill Chisholm, ma qualcuno aveva percepito il suo talento per la parola che si fa impegno e governo in nome della comunità.

Louis Warsoff, professore non vedente di scienza politica al Brooklyn College, è stato per Shirley il primo uomo bianco col quale la conoscenza divenne conversazione, fiducia ed empatia. Lo chiamava proffy e s’intrattenevano in lunghe discussioni: «Da lui ho imparato che in fondo non eravamo differenti, intendo noi e i bianchi». La studentessa, che eccelleva e attirò l’attenzione di Warsoff, mostrava un’urgenza: dire al mondo come stavano realmente le cose.

Dopo anni di oblio la figura di Chisholm, scomparsa nel 2005, è riemersa nel 2008, in concomitanza con la corsa alla nomination democratica per la Casa Bianca che contrapponeva Barack Obama e Hillary Clinton. Chisholm, dotata di un’intelligenza finissima e senso pratico, è stata la prima donna nera eletta al Congresso e quattro anni dopo nel 1972 la prima a competere per l’investitura tra i democratici verso la presidenza, finendo settima fra diciassette candidati col 2.7% dei 16 milioni di voti complessivi. Non amava essere ricordata per questi due primati, poiché lei coronava una vicenda collettiva, almeno sei decadi di attivismo politico di migliaia di donne a New York per la giustizia, i diritti e l’eguaglianza. Nel 1982 Chisholm, partecipe alla creazione del Congressional Black Caucus e del National Women’s Political Caucus, ufficializzò l’intenzione di non ricandidarsi al Congresso per tornare al primo amore, l’insegnamento, politica e sociologia in una scuola femminile, il college Mount Holyoke in Massachusetts. Nel 1984 e quattro anni più tardi sostenne Jesse Jackson. Bill Clinton le offrì la carica di ambasciatrice in Giamaica, ma rifiutò per motivi di salute.


Warsoff non nutriva dubbi sulle sue qualità e dopo un dibattito acceso le disse: «Shirley, devi partecipare: entra nell’arena politica». Lei restò meravigliata da quella innocenza. In molti le dicevano che aveva un potenziale al quale dare forma. Alla domanda più alta, quando l’adolescenza s’affaccia sulla vita e si inizia a scegliere, Shirley non apparve indecisa. Pensava di mettere il proprio talento al servizio della società insegnando. Voleva dedicarsi ai bambini con una convinzione precisa: non avrebbe occupato il posto dettato dall’ingiustizia sociale, dal razzismo che permeava la quotidianità.

L’educazione e la buona preparazione scolastica delle figlie sono state le priorità di Charles St. Hill e Ruby Seale. Lui, rimasto orfano quattordicenne, nativo della Guiana britannica, cresciuto tra Cuba e Barbados, dopo un’odissea arrivò nel 1923 a Brooklyn. A Barbados conobbe superficialmente lei appena adolescente. Ruby, classe 1901, da Christchurch approdò a Brooklyn l’8 marzo del 1921 a bordo della SS Pocone. L’amore maturò nella terra dell’abbondanza e lì si sposarono. Dal 1900 al 1925 più di 300mila isolani, prevalentemente da Barbados, lasciarono le proprie case per lavorare al Canale di Panama, tra loro il nonno materno di Shirley che abbandonò le piantagioni di canna da zucchero. Altri emigrarono negli anni Venti direzione Stati Uniti a causa della carestia e della perdita del raccolto nelle isole caraibiche. Il nonno guadagnò i soldi necessari affinché la figlia si pagasse un biglietto di sola andata.

Vere e proprie colonie di isolani crebbero nel ventre di New York. Nelle prime due decadi del Novecento queste ondate migratorie si sommarono a quella interna con circa due milioni di afroamericani che dal Sud si trasferirono nelle città del Nord. A Brooklyn tra il 1900 e il 1920 la popolazione nera raddoppiò, il 16% era di origine caraibica. Nel quartiere la colonia più corposa proveniva proprio da Barbados. Ruby era ancora una ragazza, Charles guadagnava la giornata. Alla nascita della primogenita Shirley, il 30 novembre 1924 a Brooklyn, si aggiunsero poi quelle di Odessa, Muriel e Selma.


Shirley si è sempre sentita una statunitense intimamente barbadiana. Dentro al corpo esile fin dall’infanzia esprimeva un’energia fuori dalla norma. La ruggente e fallace prosperità americana dei primi anni Venti non era per tutti, soprattutto non per una giovane coppia di immigrati in un agglomerato suburbano in rapido sommovimento demografico ed etnico. Charles non aveva qualifiche professionali. Lavorò come aiutante in una panetteria e poi da operaio a cottimo. Ruby non immaginava di doversi separare per sette lunghi anni dalle figlie, tuttavia la decisione sofferta non aveva alternative economiche. Ad attendere Shirley, Odessa e Muriel c’era il ritorno alla vita rurale, nella grande fattoria della nonna a Barbados.

Nel 1928 Ruby salpò con le figlie dal porto di New York destinazione Bridgetown, capitale della così soprannominata Piccola Scozia. Il viaggio a bordo della Vulcania durò nove giorni in acque particolarmente agitate. La parte materna della famiglia aveva origini scozzesi. Furono i primi abitanti ad aver spezzato le catene della schiavitù e registravano il più alto tasso di alfabetizzazione nell’area. Un popolo, quello barbadiano, luminoso, ambizioso e parsimonioso. Nelle giornate più dure Ruby e Charles non hanno messo in discussione il sogno di una casa a Brooklyn e della migliore istruzione per le nasciture.

Emily Seale, nonna dal fisico statuario e dalla voce stentorea, le attendeva alla banchina del porto di Bridgetown. La primogenita racconterà che Emily è stata una delle poche persone di cui non ha mai sfidato o messo in discussione l’autorità. L’esempio di forza e dignità di lavoratrici toste, quali erano la nonna e la zia, forgiò la sua futura coscienza politica, quanto la lotta per l’emancipazione dei barbadiani dalla schiavitù, dalle ingiuste relazioni economiche e sociali basate sulla discriminazione razziale. Fra la scuola, che osservava l’impianto della tradizione britannica ed era centrale nel sistema sociale locale, bagni in un mare cristallino e vita rurale, Shirley trascorse anni felici.

A Brooklyn invece le cose non andavano secondo i piani genitoriali. Non riuscivano a risparmiare un dollaro, travolti anche loro dal riverbero del crollo di Wall Street. Ruby, spaventata dal tempo che sottrae l’oggi in attesa del domani, alla fine del 1933 seppure le condizioni fossero ancora ai limiti della sussistenza riunì la famiglia negli Stati Uniti.

Al 110 di Liberty Avenue, un appartamento con quattro stanze senza riscaldamento esposte sulla ferrovia, a Brownsville il freddo era la sensazione dominante che turbava Shirley. Da quei giorni di smarrimento per il venire meno delle certezze isolane, piombata senza mappe mentali e fisiche nella grande città, ha rievocato sempre la paura del freddo. Nel 1934 Brownsville era il distretto a maggioranza ebraico più popoloso di Brooklyn, abitato dalla prima generazione degli esuli provenienti dal cuore dell’Europa centrale e orientale. Trent’anni dopo gli diedero l’etichetta di ghetto, che come osservava Chisholm avrebbe fatto sorridere amaramente i vecchi residenti.

A Brownsville si era radicata una storia di tolleranza razziale e religiosa. Il quartiere, che contava 200mila persone, tra il 1915 e il 1921 elesse rappresentanti socialisti alla New York State Assembly e aveva una tradizione ricca di opposizione e protesta sociale, guidata anche da una pioniera femminista come Margaret Sanger. Chisholm incarnò le urgenze che aveva respirato a Brownsville. Shirley si rifugiava al cinema e nella biblioteca pubblica. Leggere era una delle regole imposte a casa. Lei poi amava ballare, una questione d’istinto. Era la prima ad arrivare e l’ultima a lasciare la dance hall. In molti raccontano di non aver mai visto nessuno muoversi come lei, quasi a volersi liberare da una disciplina austera, ferrea con poche concessioni che i genitori imposero. La famiglia protestante manifestava un forte sentimento religioso.

Per comprendere il percorso quanto le scelte di Shirley è utile ricostruire il rapporto con il padre. In quel periodo Charles lavorava come garzone in una grande pasticceria. Era un uomo di bella presenza che lei idealizzava. Nonostante gli studi molto limitati aveva un vocabolario ricco e un’intelligenza intuitiva acuta. Era un lettore onnivoro. Anche durante la Grande Depressione, quando Ruby lo spingeva a risparmiare, lui comprava tre quotidiani al giorno. Charles era un conversatore instancabile, sapeva di tutto un po’. Né beveva, né fumava. Le trasmise la fierezza, allora tutt’altro che diffusa tra gli stessi afroamericani, della propria discendenza. Charles concretizzava le proprie idee nell’impegno come sindacalista, apparteneva alla Confectionery and Bakers International Union. Nulla, ricorda Shirley, lo rendeva più felice dell’essere un sindacalista.

Charles St. Hill era un seguace appassionato di Marcus Garvey, fondatore del movimento Pan-African che presupponeva la nascita di una nazione africana unita in grado di accogliere tutti i discendenti della diaspora, dove costruire una vita nuova, e che influenzò il pensiero di Martin Luther King Jr., Malcom X e il movimento separatista nel cuore degli anni Settanta. Portava sempre Shirley agli incontri e ai tributi dedicati a Garvey, condannato a cinque anni di carcere per sottrazione di fondi. Scontò la metà della pena per poi essere espulso nel paese nativo, la Giamaica. In quei consessi Shirley maturò la prima consapevolezza politica.

A scuola emerse la forza caratteriale della figlia di due immigrati che non stavano nel posto loro assegnato dalla società. Nella scuola pubblica incontrò per la prima volta le gerarchie dettate dalla classe sociale, dalla razza e dal genere. Nel frattempo il quartiere mutava la propria composizione. La scuola restava però una linea di separazione, che manteneva un equilibrio ormai distante dalla realtà. L’80% dei bambini erano bianchi di origine ebraica, tutti gli insegnanti erano bianchi.

Nel 1936 i St. Hill si spostarono a Bedford Stuyvesant, che diventerà l’epicentro della storia politica di Shirley. L’impatto col nuovo quartiere fu innanzitutto linguistico: per la prima volta nella strada ascoltava insulti a sfondo razziale: negro, ebreo bastardo, negro son of a bitch. Non era abituata a queste associazioni dispregiative. Nel 1939 Shirley s’iscrisse alla Girls High School, una delle scuole più antiche di Brooklyn a Nostrand Avenue. L’elevato quoziente intellettivo e l’abitudine allo studio ne facevano un’eccezione, tre quarti delle iscritte a scuola erano bianche.

Alla Girls High School le qualità di Shirley non passarono inosservate. Ricevette numerose proposte da college rinomati, fra i quali il prestigioso e selettivo Vassar, situato a 70 miglia da New York nella suggestiva Hudson Valley. La famiglia non poteva sostenere i costi dello studio fuori dalla città. La scelta ricadde dunque sul Brooklyn College, che rappresentò un passaggio cruciale. C’è una domanda interessante che si è posta Chisholm: «Qualora avessi frequentato il Vassar, sarei diventata una delle donne nere pseudo bianche in carriera dell’alta borghesia o una moglie ben piazzata e mantenuta dal marito? Stento a crederlo, ma è meglio aver scongiurato il rischio».

Nel 1942 Shirley varcò la soglia del Brooklyn College non ancora diciottenne. Era una degli appena sessanta studenti con la pelle nera nel più grande dei cinque college urbani con il campus economicamente più abbordabile. Al college Shirley cominciò a scontrarsi, a rivoltarsi contro il mondo. La scuola era ricca di organizzazioni e attività extracurricolari politicamente orientate, la maggior parte di esse progressiste. La famiglia l’aveva tenuta a lungo protetta dalla realtà circostante, «ma ero nera e nessuno doveva spiegarmi che cosa significasse». Non importava quanto fosse ben preparata, la società non le avrebbe dato alcuna opportunità.

Al college c’era un collettivo politico, l’Harriet Tubman Society, che Shirley frequentò dal secondo anno. La figura della combattente Harriet Tubman, che si era sottratta alla schiavitù indicando agli altri la via per la libertà, sarà dirimente per Chisholm.

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