mercoledì 27 gennaio 2016

La grande ricucitura. Rigenerare Corviale


di Gabriele Santoro

Rigenerare Corviale – Look beyond the present è il titolo del concorso internazionale bandito dall’Azienda Territoriale per l’Edilizia Residenziale del Comune di Roma e finanziato dalla Regione Lazio, sottoscrivendo un protocollo d’intesa con l’Ordine degli architetti di Roma. Corviale, situato nell’undicesimo Municipio della Capitale, è un complesso residenziale di proprietà pubblica, progettato all’inizio degli anni Settanta da una squadra guidata dall’architetto Mario Fiorentino.

Una città lineare, che si estende per circa un chilometro, le cui prime abitazioni vennero assegnate nel decennio successivo alla progettazione e attualmente conta oltre seimila abitanti con una quota parte di occupazioni considerate abusive. Complessivamente si calcolano 1202 appartamenti e si prevede di ricavare 103 nuovi alloggi al quarto dei nove piani della struttura, originariamente destinato ai servizi.


Lo scorso dicembre l’architetta Laura Peretti, con lo Studio Insito che dirige, si è aggiudicata con un premio di centomila euro il bando, che richiedeva proposte per modificare il sistema degli spazi comuni del corpo principale del complesso edilizio, al fine di ottenere una nuova qualità urbana e spaziale. L’intento dichiarato è di assicurare una migliore vivibilità e sicurezza per gli abitanti di un luogo a lungo trascurato dalle istituzioni, alienato dall’altra città. La disponibilità di risorse per una prima fase di lavori è stata stanziata ed è pari a 7.2 milioni di euro. Il completamento dell’iter progettuale (fase preliminare, definitiva ed esecutiva) è previsto entro un anno e mezzo. Nell’ipotesi di Peretti saranno necessari circa sei anni per la concretizzazione di tutti gli interventi studiati. Il costo totale dell’opera di rammendo, di ricucitura topografica e valorizzazione dovrebbe attestarsi attorno ai venti milioni di euro.

Il progetto non riguarda gli alloggi, ma la viabilità e il recupero delle aree verdi; ripensa le connessioni urbane dell’edificio, le sue coperture introducendo criteri di efficienza energetica e avrà un contributo artistico di Mimmo Paladino. Il 7 settembre è stato effettuato il primo sopralluogo nell’area, per poi elaborare il disegno concettuale entro il termine dato del 18 novembre. La giuria internazionale, che ha valutato 45 progetti, ha premiato il gruppo Peretti con questa motivazione: «Affronta meglio i temi richiesti dal concorso, perché esprime la capacità di controllare alle varie scale la complessità, a livello paesaggistico, urbano, della circolazione interna all’edificio e dello spazio pubblico». La riqualificazione di Corviale è stata definita «la prima e più significativa sperimentazione di rigenerazione urbana delle periferie romane».

Peretti, qual è stata la sua esperienza di Corviale prima di approcciare il progetto?
«Molti anni fa da studentessa. Ci sono tornata, da abitante di Roma, perché insegnavo alla Cornell University e ci portavo i miei studenti. L’ho scoperto decisamente di più nel recente contatto diretto che all’epoca degli studi. Quando l’Ater ha bandito il concorso, prima di effettuare il sopralluogo collettivo, ero poco convinta. Poi sono venuta via con l’impressione opposta».

Quali sensazioni le destano la struttura, la sua storia e i suoi dolori?
«Lo percepivo come un edificio un po’ eroico per questa grande volontà di salvare l’agro romano. Era molto visibile l’intenzione dell’architetto di creare una diga architettonica ed è stata una cosa molto importante. È stato uno dei pochi momenti nella storia dell’architettura italiana in cui, al di fuori della dittatura, abbiamo avuto il compimento di un pensiero politico espresso e reso realtà. Stando a lungo lontana dalla città non ho vissuto il carico di sofferenza sociale concentratosi nell’area. Oggi ho trovato Corviale un luogo non degradato socialmente, con risorse vitali, che ha problemi comuni ad altre zone. C’è una storia di questo edificio che appartiene sicuramente al suo entrare nella città e diventare un pezzo di città vero. C’è una questione demografica, come nel resto del paese. L’invecchiamento può produrre un ripiegamento. Corviale è stato la risoluzione di un problema abitativo e sicuramente ne ha creati degli altri. È successo perfino a un edificio molto più semplice da gestire come l’Unité d’Habitation di Marsiglia. Ha patito un periodo di abbandono fortissimo e adesso ha il comitato degli inquilini; ed è motivo di orgoglio di tutta la gente che abita lì tenerlo nelle condizioni in cui venne progettato».

Perché tuttora anche a livello internazionale questo edificio attira simile attenzione?
«Dovremmo fare una mostra dal titolo Corviale e i suoi fratelli. Questa dimensione che a noi sembra gigantesca non è assolutamente una cosa incredibile: Vienna rossa, Mosca, la Francia stessa; ci sono tantissimi esempi di edifici con dimensioni addirittura più grandi di Corviale. È così famoso, intanto perché è un gran pezzo di architettura, al di là di tutti i difetti evidenziabili. Come per altri edifici di architetti è stato capito dopo molto tempo, come succede quando gli edifici non sono così sbagliati. Ci sono ovviamente degli errori, ma in un pezzo di città nuova è un po’ difficile non commetterne. È un’architettura fatta da un architetto molto bravo, ma è stata costruita un po’ fuori tempo massimo. La costruzione di Corviale è stata come un rigurgito di un’ideologia che era ormai alla fine. Altre utopie architettoniche di quel tipo in altri luoghi in Europa non sono state condotte a termine. È diventato l’icona di un periodo, la sua solidificazione, la rappresentazione non solo ideale. A Roma esistono altri chilometri».

Ritiene che la creatura di Fiorentino fosse già nata male e in che modo si cura dopo un lungo abbandono?
«Non è nato rotto, ma ideologicamente forzato. Penso che abbiamo rivelato alcune potenzialità di Corviale. Abbiamo lavorato su Corviale come struttura urbana e non edificio. Il concorso chiedeva, senza toccare le case, di mettere a posto quello che non funziona: il rapporto con la città e quello con il suolo, l’attacco a terra. Essendo un edificio costruito in maniera molto razionale con un sistema strutturale ripetitivo, non ha dunque un’articolazione strutturale tale per cui non si possa metterci le mani. Si pensava che l’edificio dovesse essere completamente autonomo, dovesse essere una città di per sé e che si esaurisse in sé e per sé».

Come definirebbe il vostro disegno d’intervento: rammendo, ricucitura topografica, rigenerazione urbana?
«È talmente un grande rammendo che è la ricucitura di un crinale tra città e campagna. La definizione più corretta credo sia una ricucitura topografica innanzitutto: riuscire a ritrovare l’identità del luogo quasi prima dell’insediamento. Qui il rapporto tra suolo ed edificio non è in armonia. Mi auguro che venga fatto, perché è vitale per Roma, per Corviale. Stiamo parlando comunque di un paese, perché settemila persone rappresentano un paese. Stiamo dando a persone che ora hanno solo un’abitazione dei servizi per i quali pagano le tasse. Un grosso progetto di rigenerazione è una grande opportunità per Roma. Oggi tutto quello che è vuoto, viene occupato, vige la legge del più forte. Lo spazio per la sopravvivenza è una cosa, quello per vivere un’altra».

Ha già sentito Renzo Piano?
«Sposo in pieno l’idea del rammendo fra parti di città che sono strappate. Il nostro mestiere è dover rispondere alla domanda: come facciamo la città? E oggi che la città c’è, non c’è bisogno di costruire inutilmente, soprattutto nelle periferie che spesso sono state costruite senza un pensiero organico. Detesto l’idea dell’archistar che arriva, fa il suo oggetto e poi se ne va. Costruire la città vera non significa cementificare; costruire una città vuol dire creare rapporti fra le parti. Utilizzare quello che abbiamo già e renderlo urbano nel senso della civitas, renderli luoghi. Visto che Corviale è un pezzo di periferia molto cospicua spero mi capiterà l’opportunità di parlarne con Piano».


In che cosa consiste la prima fase dei lavori?
«La road map significa seguire il principio di realtà dei finanziamenti. I primi interventi puntano alla  razionalizzazione di tutti i corpi scala, perché c’è una situazione di disordine assurda, di  astrusità e rigidità dei percorsi con cui oggi il residente deve fare i conti. Sulla percorribilità verticale attualmente non ci si può contare. Per ogni corpo scala ci sarà un nuovo ascensore a norma e un atrio di accesso. L’accesso al proprio appartamento è uno degli aspetti più importanti, ognuno desidera avere una sorta di percorso personalizzato e questo al Corviale non è consentito. Abbiamo allora provato a ricompartimentare questo chilometro di edificio in senso individuale, modificando la strada che corre parallela all’edificato e che impedisce un accesso personalizzato e la realizzazione di piazze o sistemi di variazione. Abbiamo interpretato il fondamentale criterio della permeabilità, richiesto dal bando di concorso, come la necessità di mettere a sistema questa situazione, restituendo senso individuale all’accesso all’appartamento. Riconsiderare la connessione urbana dal piano terra e il piano garage. Fare il primo spostamento della strada, via Poggio Verde, in modo di poter cominciare la piazza. La strada deve diventare un generatore di spazio. Riassumendo: riportare a terra gli ingressi, fare gli atri, le scale e la piazza. Poi andranno concretizzati criteri di efficienza energetica, copertura con pannelli solari, un piano di illuminazione, giardini pensili».

Continua a leggere qui...

www.che-fare.com/la-grande-ricucitura-rigenerare-corviale/

venerdì 8 gennaio 2016

Congo Inc, il romanzo polifonico di In Koli Jean Bofane


di Gabriele Santoro

Kinshasa, incidentalmente capitale della Congo Inc, è un laboratorio del futuro. Dal concepimento di Leopoldo II, État Indépendant du Congo, l’attuale Repubblica Democratica del Congo non è un’entità politica; una democrazia fragilissima che dal 1960 solo nel 2006 si è misurata con le urne. Il Congo è una vastità geografica che nelle espressioni culturali e nelle acque di un fiume maestoso trova una propria coincidenza. È un paese a sovranità limitata, è la principale riserva mondiale di materie prime; dunque una Società che deve continuare a soddisfare le necessità della modernità, sostiene lo scrittore In Koli Jean Bofane. Congo Inc, una forma di algoritmo, un caos organizzato, da mettere in marcia per realizzare i grandi disegni del mondo. La Conferenza di Berlino, aperta il 15 novembre 1884 e chiusa il 26 febbraio 1885, aveva stabilito che lo Stato Libero del Congo avrebbe dovuto aprirsi al libero scambio internazionale, un nuovo equilibrio mondiale per il libero commercio di materie prime.

La meraviglia dell'arte di Kiripi Katembo
Fiston Mwanza Mujila, trentaquattrenne autore congolese dalla strepitosa potenza creativa, pubblicato in Italia da Nottetempo, utilizza la nozione di flessibilità. In un paese di 2.3 milioni di metri quadrati che non esiste, ognuno fabbrica il proprio paese nel quale adattarsi. La sopravvivenza quotidiana, una vasta commedia, equivale a cercare nell’inquietudine, nella legge della selezione naturale un’unità di misura dell’umanità. Occorre camminare a passo svelto nella follia che forzatamente alimenta l’immaginazione. «Senza la nostra provincia questo paese è una pagliacciata, inveiva il Generale dissidente – leggiamo nell’interessante Tram 83 (Nottetempo, 243 pagine, 16.50 euro, tradotto da Camilla Diez) –. Non possiamo accontentarci delle briciole finché siamo noi a darvi da mangiare. Esasperati dalla lunghezza del conflitto, i ribelli ripiegarono su un pezzo di terra della provincia ricchissimo e oggetto di bramosia, che chiamarono la Città-Paese».

Seppure di generazioni distanti Mwanza Mujila e Bofane, classe 1954, sono vicini. Si stimano. Quest’ultimo ha spesso sollecitato e sostenuto l’esordiente che nel rapsodico Tram 83 scrive: «Camminavamo nelle tenebre della storia. Eravamo vacche da mungere in un sistema di pensiero che traeva profitto dalla nostra giovane età, che ci schiacciava completamente». Bofane appartiene a una generazione sospesa tra due universi, formatasi nelle università europee e poi tornata nella madre patria seppure sotto la dittatura con la fame, la sete, di contribuire al progresso del paese. E ha assistito, in un incessante moto di andate e ritorni, allo svanire delle illusioni di uomini e donne ricchi di talenti. Il verbo dell’esistenza è ricominciare, mitigando l’alienazione, come ben raffigura la pellicola Teza del regista etiope Haile Gerima. Costruire, decostruire, scoprire, ripartire. «Ho faticato», dice Bofane.

«Guardo indietro sulla storia del Congo e mi domando come un uomo possa aver vissuto tutte queste cose». Poesia, satira e barbarie appaiono inestricabili; la vita e la morte sono là. Bofane si dichiara scrittore del Ventunesimo secolo, quasi a voler chiudere dentro a un cassetto il dolore novecentesco, marchiato sulla pelle, e a voler raccogliere i pezzi e produrre idee nuove. Ma quelle piaghe le incide sulla carta: non si diverte a scrivere, non è questione di ricerca artistica, lo interrogano le esigenze di un dolore parossistico. La colonizzazione che definisce un apartheid. L’incubo, che si trascina dall’infanzia, dell’assassinio di Patrice Lumumba: il crollo dell’ideale, dell’immaginario dell’infanzia che non ha una coscienza politica, l’innocenza. A proposito della storia del Congo sceglie la parola honte: vergogna, umiliazione, affronto.

È stata la storia con la S maiuscola, quanto la guerra, a condurlo alla scrittura. Non ha mai sognato di diventare uno scrittore, nonostante abbia sempre adorato la letteratura. Ha iniziato a scrivere tardi ma è entrato presto nella letteratura a causa della guerra, a causa della storia. Bambino nei tumulti per l’indipendenza, al padre chiede libri: per scappare dalla guerra si è messo a leggere. Esule in Belgio, all’età di quarant’anni decide di scrivere a causa del genocidio attuato in Ruanda, stanco delle analisi, delle inesattezze degli altri, degli africanisti senza Africa. Ha lasciato il Congo nel 1993 e c’era il bisogno di coprire un abisso. Oggi si qualifica come uno scrittore.

Lo scorso novembre la giuria presieduta dal premio Nobel Jean-Marie Gustave Le Clézio, per conto dell’Organizzazione Internazionale della Francofonia, ha assegnato a Congo Inc – Il testamento di Bismarck (66thand2nd, 223 pagine, 17 euro, traduzione a cura di Carlo Mazza Galanti), secondo romanzo di Bofane, il prix des Cinq continents de la Francophonie. È stato pubblicato nel 2014 dall’editore francese Actes Sud. Un testo potente, feroce che restituisce senso compiuto al termine solidarietà, quale atto di resistenza alla realtà, ed è erroneamente catalogabile come terzomondista.
È un romanzo polifonico in cui i personaggi dialogano come gli accadimenti che lo caratterizzano.


In un paese ricoperto per due terzi dalla foresta equatoriale il protagonista Isookanga sogna la grande città; gli sta stretto il villaggio: diventarne il capo con quale profitto? È felicissimo quando l’installazione di un’antenna scompiglia la chioma degli alberi e il bioritmo della foresta che ha sempre garantito il necessario ai propri abitanti. «Io sono come te – dice Bizimungu, signore della guerra in congedo – , tutto questo verde mi deprime. Che cosa crede quella gente? Che con un tronco d’albero si possano fabbricare computer potenti, un iPhone o un missile? C’è bisogno di rame, stagno, cobalto, coltan». La vita va scavata nel sottosuolo. La dialettica tra tradizione, conservazione e la violenza della modernità sviluppa la struttura del romanzo. Isookanga, un pigmeo della stessa tribù dell’autore, diverso a causa della bassa statura, si professa un mondialista che aspira a diventare un globalizzatore.

Approdato, grazie a uno scambio di persona, a Kinshasa dopo tre settimane di navigazione a bordo di una promiscua città galleggiante inizia a domandarsi se svegliarsi all’aperto, nel cuore di una città, sia forse una prerogativa del modello globale. Nella Repubblica Democratica del Congo l’età media supera di poco i 17 anni e il Pil pro capite è pari a 810 $ contro i 41.570 in Belgio. Nella sola capitale, che conta otto milioni di abitanti, si stima siano circa ventitremila gli shégué, i bambini di strada con i quali Isookanga comincia a condividere il tempo della notte ai margini del Grand Marché, una struttura composta da una decina di padiglioni.

«Vista dall’alto Kinshasa somiglia a una termite regina, mostruosamente gonfiata, fremente di agitazione, sempre indaffarata, in continua crescita», scrive Van Reybrouck. Il primo incontro è con una giovanissima espulsa dalla corsa alle ricchezze delle materie prime. Shasha è il personaggio più intenso di Bofane, la sua anima pulsa. In un giorno che prometteva una luna serena e il consueto cielo stellato ha ritrovato il villaggio devastato dai ribelli e la famiglia massacrata. È scappata dal Kivu con i due fratelli più piccoli. Fiera è riuscita a portarne in salvo uno nella megalapoli. Ora è una bambina puttana che vuole vedere e sapere fino all’estremo limite.

«Che sei venuto a fare?», così Shasha accoglie Isookanga.
«Sono venuto a vivere l’esperienza dell’alta tecnologia e della mondializzazione, zietta».

«Tutto qua?», Shasha non capiva bene, ma ognuno ha le proprie ragioni. «Mettiti là, in fondo».

Sulla propria strada, al Grand Marché, Isookanga incrocia un secondo reietto. Zhang Xia è un cittadino cinese, convinto a lasciare la propria famiglia per maggiori guadagni al fianco di un imprenditore di lavori pubblici e privati. Si va in Congo a costruire le città, le strade, le infrastrutture. Quando gli affari, complice la corruzione, vanno in malora il padrone lo abbandona al proprio destino.

Nel primo semestre 2015 gli investimenti della Cina in Africa sono crollati del 40%, complice il rallentamento dell’economia cinese, che pesa anche nel contesto africano a causa della crescente interdipendenza. Il volume degli scambi commerciali dai 10 miliardi di dollari del 2000 è salito ai 300 del 2015 con circa 2500 imprese cinesi operanti nei paesi africani. A dicembre in occasione del primo summit cino-africano tenutosi in Africa il presidente cinese Xi Jinping ha promesso un programma d’aiuti sotto forma di prestiti pari a sessanta miliardi di dollari, cinque dei quali a tasso zero e trentacinque a tassi preferenziali. Tutti destinati a finanziare dieci programmi di cooperazione su base triennale per l’agricoltura, industrializzazione, scuola e università, sanità, riduzione della povertà, energie rinnovabili. Poi è stato annunciato un maggior coinvolgimento nelle operazioni Onu per il peacekeeping. Nelle dichiarazioni ufficiali Xi ha sottolineato che gli interessi cinesi non saranno mai tutelati a detrimento di quelli africani. Per usare le parole di Kako Nubukpo, un ex ministro togolese: «In questi accordi di cooperazione non c’è la lezione morale, il clima di umiliazione che sottende ogni accordo Occidente – Africa».

Nel romanzo Bofane rievoca le cointeressenze del sistema win win (materie prime in cambio di infrastrutture etc) e a voce aggiunge: «Non hanno mai piantato le proprie bandiere o invaso con il proprio esercito. E d’altra parte cosa potranno combinare che francesi, inglesi, americani non abbiano già fatto?»

«Anche lei è nella globalizzazione?», domanda Isookanga a Zhang Xia.
«Sì, ahimè. Per me la globalizzazione è un vero schifo. Stavo benissimo in Cina. Sarei dovuto restare, ma mi sono fidato e sono partito. Lavoravo con il signor Liu Kai a Chongqing. Si è costruito parecchio. Una grande metropoli. Ora vendo l’acqua, la migliore di Kinshasa».

Continua a leggere qui...