sabato 27 febbraio 2016

I rischi del virus Zika e la zanzara tigre


di Gabriele Santoro

La Florida ha annunciato che tre donne in gravidanza, rientrate da viaggi fuori dal paese, hanno riscontrato la positività al Zika virus, e il governatore Rick Scott ha chiesto un ulteriore supporto per la rilevazione dell’insorgenza patologica al Centers for Disease Control and prevention, che nei giorni scorsi ha dato notizia della propria investigazione su 14 possibili casi di trasmissione sessuale del virus. Anche i quattro episodi certificati in Italia sono collegati a viaggi.

In Colombia oltre seimila donne in gravidanza sono risultate positive. Zika è stato associato alla vertiginosa crescita statistica nelle aree del contagio della microcefalia nei neonati: dallo scorso ottobre in Brasile 508 casi confermati, 17 dei quali con la certezza del legame con Zika, contro i 146 complessivi del 2014, e 3935 tuttora sotto investigazione. Sono stati accertati 108 decessi dopo la nascita o durante la gravidanza. Sempre in Brasile è stato rilevato un aumento del 19% tra il 2014 e il 2015 della sindrome di Guillain-Barré. Sei paesi (Brasile, Polinesia Francese, El Salvador, Venezuela, Colombia e Suriname) hanno accertato un aumento dell’incidenza dei casi di microcefalia e/o della sindrome di Guillain-Barré, temporalmente associabile alla propagazione di Zika. Non è ancora tuttavia del tutto scientificamente provata la responsabilità del virus, che nell’80% dei casi è asintomatico.

Il virus Zika è un arbovirus e ha ricevuto la denominazione del luogo in cui è stato identificato originariamente, nel 1947, quando fu rilevato in scimmie sentinella per il monitoraggio della febbre gialla, nella foresta Zika, in Uganda.

Tra il gennaio del 2007 e la metà del mese di febbraio 48 paesi e territori hanno riportato la trasmissione autoctona del Zika virus, che è veicolata dal vettore dell’Aedes mosquitos: 28 gli Stati in cui è stata trasmessa, che hanno nell’ambiente i vettori necessari, in particolare l’Aedes aegypti. La distribuzione geografica si è costantemente ampliata dal 2015, quando il virus è stato individuato in America. Al momento non ci sono vaccini o trattamenti specifici. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, che il primo febbraio ha annunciato lo stato di emergenza a livello globale, come risposta di prevenzione e controllo ha raccomandato attività di sorveglianza e ricerca.


La zanzara tigre (Aedes albopictus), che rientra nella lista stilata dalla IUCN delle 100 specie invasive più dannose al mondo ed è un vettore di virus patogeni che causano malattie come Dengue e Chykungunia (CHIK) in numerose aree tropicali del mondo, ha una presenza ormai stanziale nel nostro paese. L’equipe di Entomologia Medica del Dipartimento di Sanità Pubblica e malattie infettive dell’Università Sapienza di Roma, guidata dalla professoressa Alessandra della Torre, martedì ha firmato e spedito alla Regione Lazio una lettera che esprime preoccupazione e l’auspicio della messa in atto di attività coordinate con enti locali, Asl, mirando alla valutazione e prevenzione del rischio di trasmissione. Nella missiva leggiamo:

«Poiché la zanzara tigre (Aedes albopictus) — molto diffusa in Italia e in particolare a Roma e in altre aree del Lazio — è in grado trasmettere il virus ZIKA (oltre ad altri virus di rilevanza medica come il Dengue e il Chikungunya) esiste un rischio concreto che nella prossima stagione estiva/autunnale si possa assistere a casi di trasmissione autoctona a partire da persone che arrivino in Italia da paesi dove è in corso questa terribile epidemia. Tale rischio è particolarmente alto a causa di vari fattori che presumibilmente aumenteranno con l’arrivo di persone potenzialmente infette da questi paesi, quali il Giubileo e le prossime olimpiadi in Brasile, paese dove si è riscontrato il maggior numero di casi».

Professoressa Della Torre, perché nella lettera indirizzata alla Regione Lazio dichiarate la ragionevole probabilità di riscontrare casi di trasmissione autoctona del virus Zika?
«Un rischio reale certamente esiste. Stimarne la probabilità invece è un’altra storia. Negli ultimi anni ci sono stati casi di trasmissione di altre piccole epidemie di altri virus dalla stessa zanzara tigre in Italia, in Francia e in Croazia. Per esempio l’epidemia di Chikungunya, verificatasi a Cervia nel 2007, è stata innescata da una singola persona, proveniente dall’India, che è rimasta un giorno solo nel posto dove si è poi concretizzata l’epidemia. Il punto è che i virus devono essere introdotti attraverso viaggiatori infetti e dunque la probabilità che questo avvenga è tanto più alta quanto più sono in corso epidemie nel resto del mondo. Difatti il caso del Chikungunya seguiva una grossa epidemia, che c’era stata in India. Se nei prossimi mesi, quando la popolazione delle nostre zanzare aumenterà, Zika continuasse a propagarsi in Brasile, il rischio di importazione del virus in Italia potrebbe diventare molto concreto».

In quale periodo?
«Direi giugno-ottobre».

Quali differenze e somiglianze sussistono tra l’Aedes aegypti e l’Aedes albopictus, nota come zanzara tigre, e presente in Italia da più di due decadi?
«Le due species hanno molto in comune, a partire dalla somiglianza morfologica e dall’essere attive nelle ore diurne. Ma Aedes aegypti è molto più selettiva nella scelta dell’ospite ed è per questo assolutamente il vettore del virus più importante nei paesi tropicali, perché pungendo quasi esclusivamente l’uomo ha più possibilità di infettarsi pungendo un individuo infetto e, successivamente, di infettare una persona sana. Aedes albopictus, il cui primo reperto a Roma è apparso nel 1998 in due quartieri e l’anno successivo era diffuso già in tutta la città, punge non solo l’uomo ma anche altri ospiti, ma in un contesto urbano, dove ci sono pochi animali, punge quasi esclusivamente l’uomo. In questi contesti dunque non si comporta molto diversamente da Aegypti e rappresenta un potenziale vettore altrettanto temibile. D’altra parte Albopictus è in grado di produrre uova “ibernanti” che riescono a superare la stagione invernale, mentre Aegypti non sopravvive a basse temperature e quindi pur essendo stata introdotta varie volte in Europa, non ha mai dato luogo a infestazioni stabili».

Dunque Albopictus è ormai endemico in varie zone d’Italia, resiste all’inverno, ed è meno efficiente di Aegypti nelle aree tropicali, tuttavia è vettore di virus pericolosi a livello globale?
«Sì, Aegypti è senz’altro il vettore principale di vari virus molto patogeni per l’uomo, ma anche Albopictus può trasmetterne altrettanti ed in alcuni casi è stato il vettore principale di epidemie. Nel caso di Chikungunya, Albopictus è addirittura il vettore principale, perché il virus è mutato e si è reso più compatibile con questa specie di zanzara. Nulla vieta che succeda anche con gli altri virus. È  dimostrato che si tratta di una zanzara molto flessibile da questo punto di vista. I test di laboratorio hanno dimostrato che questa specie si infetta e consente la moltiplicazione di natura di un gran numero di virus, ma questo non significa automaticamente che svolga un ruolo importante nella trasmissione in natura. Per lo Zika non c’è stato ancora il tempo di effettuare tutti gli esperimenti necessari, ma il virus è stato rinvenuto in popolazioni naturali di albopictus».

Dall’apparizione all’insediamento la zanzara tigre si è allontanata dal cono di luce mediatico.
«Questo è molto interessante. L’ho verificato a Roma, ma so che è successo anche altrove. La zanzara è arrivata dall’Asia attraverso il commercio di copertoni usati all’interno dei quali erano state deposte delle uova. In tutti i posti di approdo crea il panico. Nei primi anni se ne parla tantissimo, la copertura mediatica è enorme e quindi gli enti locali sono indotti a prendere provvedimenti. Nella Capitale durante la genesi dell’infestazione, intorno al 1998-2000, vennero effettuati imponenti piani di intervento e stanziati fondi notevoli per concretizzarli. Dopodiché le persone si abituano, protestano di meno, dunque non è più un’emergenza. I soldi messi a disposizione per limitare l’infestazione diminuiscono e alla fine non si fa più niente. Questo è il trend generale. È chiaro che quando poi ritorna alla ribalta il fatto che non è solo fastidiosa ma è anche un rischio serio per la salute, le cose potrebbero cambiare dal punto di vista di chi deve innescare poi delle procedure virtuose».

Nell’aprile del 2015 il dottore Soares, poi suffragato dall’Oswaldo Cruz Foundation, è stato il primo a individuare il Zika virus dietro la doença misteriosa. All’epoca ebbe un certo sollievo, perché la letteratura additava una minore aggressività rispetto ad altri virus. Dengue ha ucciso almeno 839 persone in Brasile nel 2015, più 40% rispetto all’anno precedente. Nel mondo la cifra tocca quota oltre 20mila persone.
«La recente epidemia di Zika sta avendo molta eco e copertura mediatica soprattutto a causa del sospetto che possa essere associata a microcefalia in feti di donne che si infettino durante la gravidanza. Ma ci sono virus anche peggiori di Zika, che seguono esattamente la stessa via di trasmissione. Per esempio il virus del Dengue che è diffuso in oltre 100 paesi tropicali e provoca oltre 50 milioni di casi all’anno e oltre 22.000 decessi».

Che cosa anima la zanzara tigre?
«La zanzara tigre si sposta per due ragioni: cercare l’ospite su cui fare il pasto di sangue e l’acqua per deporre le uova. Queste sono le spinte che la inducono a muoversi».

È possibile calcolare la durata della loro esistenza?
«È un’altra delle cose molto difficili da definire. Sicuramente vivono qualche settimana, ma la longevità è anche legata alle condizioni climatiche. Quando fa freddo si riduce, ma anche il troppo caldo può essere un fattore negativo. È molto complicato catturare una zanzara e definirne l’età. Lo si può fare in laboratorio, ma in condizioni artificiali una zanzara vive molto di più che non all’aperto. Nel nostro gruppo di ricerca presso l’Università di Roma Sapienza stiamo sviluppando uno strumento per distinguere le zanzare giovani da quelle vecchie. Questo sarebbe molto utile, perché solo le zanzare che hanno almeno una decina di giorni hanno avuto la possibilità di pungere una persona e contrarre il virus, essendo poi in grado di trasmetterlo. La distinzione dell’età aiuterebbe a valutare il rischio della trasmissione e anche l’efficacia dei trattamenti. Se dopo un trattamento con insetticidi troviamo solo zanzare giovani, significa che il trattamento è stato efficace, ma che nel frattempo nuove larve si sono trasformate in adulti. Viceversa se troviamo anche zanzare vecchie significa che il trattamento non è stato efficace».

Chi controlla la zanzara tigre adesso?
«Controlli adeguati vengono effettuati molto raramente dalle amministrazioni pubbliche e solo in alcune Regioni da questo punto di vista più virtuose, in particolare Emilia Romagna e Veneto. Le zanzare sono tantissime specie e poche pungono l’uomo. A Roma abbiamo specie di zanzare che nessuno ha mai incontrato, perché pungono per esempio gli uccelli.

Dal punto di vista sanitario ci interessano poche specie di zanzare che tendono di più a pungere l’uomo e quindi a trasmettere eventuali malattie, oppure zanzare che fanno da ponte per esempio col cane affetto da alcune parassitosi che possono essere trasmesse all’uomo. Come ricercatori cerchiamo fra l’altro di capire su Roma quali sono i parametri ecologici indicatori di una maggiore densità di specie pericolose per elaborare modelli di previsione dei luoghi a più elevato rischio.

Questo potrebbe rappresentare un forte ausilio per il controllo, che fondamentalmente viene fatto su richiesta dei cittadini in situazioni di particolare disagio. Anche all’epoca in cui il Comune di Roma investiva direttamente sul controllo della zanzara tigre i rilievi fatti con i monitoraggi al fine di indirizzare gli interventi nelle zone con più alte densità non erano seguiti da trattamenti sufficientemente tempestivi. Sviluppare dei modelli che ci aiutano a prevedere le zone più a rischio di alta densità consentirebbe interventi più tempestivi e mirati, perché è chiaro che lavorare su una zona come Roma e coprirla al 100% è impossibile».

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sabato 20 febbraio 2016

L'uomo del futuro: Eraldo Affinati sulle strade di Don Milani


di Gabriele Santoro

Eraldo Affinati sostiene che spesso per distinguere il buono dal cattivo maestro, basta vedere negli occhi dei suoi scolari: se brillano, oppure restano spenti. Due anni fa gli occhi dello scrittore brillavano, quando nel corso di un’intervista accennò alla personale ricerca di don Lorenzo Milani, suo riferimento culturale fondamentale. La visione e le gambe per camminare, assumendo il senso del limite: «don Milani continua a essere inafferrabile: è una domanda inevasa, la spina nel nostro fianco, un pensiero in movimento. Non ci lascia un’opera, una filosofia, un sistema, un progetto, ma energia allo stato puro. L’inquietudine che c’è prima dell’azione. Come se non fosse possibile tenerlo fermo per esaminarlo, sfugge a qualsiasi definizione», scrive Affinati.


Da qualche giorno nelle librerie è arrivato L’uomo del futuro (Mondadori, 177 pagine, 18 euro): dieci capitoli in seconda persona nei luoghi e nel fuoco della controversia accesa dal priore, e altrettanti capitoli per i diari di viaggio dal Gambia a Volgograd in soggettiva sulle tracce dello spirito di Barbiana. Con la scelta della seconda persona l’autore sembra mettersi di fronte a sé stesso, però a corta distanza, nel tentativo di fondere azione e riflessione. È un testimone della propria esperienza: «Un amico mi ha detto che in questo modo è come se avessi fatto un esame di coscienza. Per me scrivere e leggere significa anche questo. Ecco perché nei miei testi c’è spesso una bibliografia: serve a lasciare le tracce del cammino che ho compiuto», spiega. Barbiana oggi si propone in chiave multiculturale con la questione posta da Milani con radicalità: l’uguaglianza delle posizioni di partenza, che non assomiglia neanche un po’ all’egualitarismo e al solidarismo retorico.

Affinati ci illustra ancora una volta la propria idea di letteratura che vive sull’esperienza e in cui la scrittura rappresenta l’elaborazione, il momento ultimo. Come credi possibile che una terza persona, per di più esterna, quale sei tu, possa riuscire a percepire, se non a raccogliere un lascito incredibile?, si domanda. E risponde: «D’istinto quasi schiacci il pulsante interiore dei tuoi vent’anni: la letteratura serve a questo, altrimenti non avrebbe senso né leggere, né scrivere».

Stavolta la traccia è un’esistenza che non è scomparsa. Ridefinisce la sconcertante attualità del carisma pedagogico di don Milani: «Non vuoi ammettere che ogni cosa finisce in polvere? No, altrimenti non potresti trovare la forza di scrivere». Ritroviamo la sintassi di Romoletto, lo spirito primigenio de La città dei ragazzi e quell’urgenza di paternità mai sopita. La solitudine della propria adolescenza, che ancora interroga, quella dello scrittore, impastate nella coralità vivificata dalla scuola di Barbiana. Il lavoro che più lo appassiona, ce lo ripete: «Cercare i rapporti, ricucire gli strappi; mettere in relazione libri e destini».

Questo testo, che non percorre la scorciatoia del romanzo, commuove dopo la lettura non solo Aldo Bozzolini, il più piccolo fra gli allievi del priore, ma chiunque sia nato o abbia deciso di rinunciare al privilegio per condividere il cammino sul lato polveroso della strada, della vita. Il maestro, scrittore, politico, educatore; prete ribelle e rispettosissimo rinunciò innanzitutto ai privilegi della propria estrazione sociale alto borghese, senza sostituire l’aristocrazia materiale con quella morale. Lacerare i tessuti, rovesciare i banchi del tempio: è la necessità per immaginare di poter guardare chi non è come te, per guardare dentro a Il quartiere di Vasco Pratolini.

«Certe fotografie del piccolo Lorenzo fanno impressione: le camicette immacolate, le scarpette bianche, i capelli ben pettinati. Egli, sin dalla più tenera età, sentì tutto questo come una zavorra insopportabile, altrimenti non avrebbe chiesto al fattore di Montespertoli, dove la sua famiglia aveva una lussuosa residenza, di far entrare in quel giardino dorato i bambini poveri», racconta Affinati. Non fu dunque una conversione sulla via di Damasco, ma già percepibile nelle stagioni dell’infanzia e dell’adolescenza.

Visitando la Tenuta La Gigliola, casa di campagna della famiglia Milani, distante dieci chilometri da Firenze, si sofferma sul campo da tennis posto accanto alla villa padronale, dove Lorenzo pare che spingesse a giocare a pallone i suoi amici. Qui evoca un confronto con Giorgio Bassani e il Giardino dei Finzi Contini: «Sì, mi ha procurato una serie di risonanze emotive e culturali sulle quali ho lavorato. Insomma la rivoluzione bisogna farla prima dentro noi stessi: ecco cosa ci dice il priore».
Quando uno liberamente regala la sua libertà è più libero di uno che è costretto a tenersela, scrisse Milani alla madre. Per essere veramente liberi s’incarna un limite, quale nucleo di ogni vera tensione pedagogica. Andare oltre l’efficacia; a scuola si cerca l’efficacia prima della giustizia.

Quando anche la vostra rivoluzione avrà trionfato, scrive nella lettera a Pipetta, il comunista di San Donato di Calenzano, il mio posto sarà sempre al fianco degli assetati e degli affamati della giustizia. Il senso della sconfitta storicizzata del mito novecentesco dell’uguaglianza non è ragione sufficiente per smettere di essere una spina nel fianco del privilegio che fa scandalo.

Ci emancipa dallo stereotipo di don Camillo e Peppone. Nella prefazione di Esperienze spirituali l’Arcivescovo di Camerino, Giuseppe D’Avack, evidenzia come: «La doverosa e urgente difesa dai pericoli del comunismo ateo ha trascinato molti nella politica in senso tecnico, o addirittura in senso deteriore. Talvolta ci si è convinti che oggi la cosa a cui occorre dare ogni energia, a cui occorre tutto coordinare e subordinare e perfino sacrificare, è la questione elettorale, e la politica; e per far questo efficacemente è necessario – si dice – prendere le difese del governo e della DC e del suo operato, e dei suoi uomini. E Lei ci dice che tutto questo occorre abbandonarlo!» Affinati riporta una frase di don Milani: «Abbiamo fornicato col liberalismo di De Gasperi, coi congressi eucaristici di Franco».

 La pretesa di giustizia milaniana si realizza nel qui e ora, nell’insegnamento della lingua, nel farsi carico dello sguardo dell’altro e nel far entrare nella Storia gli esclusi, rompendo il conformismo didattico. Il priore considerava povertà la mancanza di parole indispensabili per sciogliere i nodi dell’esistenza: «Io ho insegnato loro soltanto a esprimersi, mentre loro mi hanno insegnato a vivere». Fare scuola ai diseredati vuol dire raddrizzare le strade storte. A Barbiana la scuola riguadagnava il senso del tempo. Dodici ore al giorno, 365 giorni all’anno. Nella nota Lettera ai Giudici leggiamo:

«La mia è una parrocchia di montagna. Quando ci arrivai c’era solo una scuola elementare. Cinque classi in un’aula sola. I ragazzi uscivano dalla quinta semianalfabeti e andavano a lavorare. Timidi e disprezzati. Decisi allora che avrei speso la mia vita di parroco per la loro elevazione civile e non solo religiosa. Così da undici anni in qua, la più gran parte del mio ministero consiste in una scuola. Quelli che stanno in città usano meravigliarsi del suo orario. Prima che arrivassi io i ragazzi facevano lo stesso orario (e in più tanta fatica) per procurare lana e cacio a quelli che stanno in città. Nessuno aveva da ridire. Ora che quell’orario glielo faccio fare a scuola dicono che li sacrifico. La questione appartiene a questo processo solo perché vi sarebbe difficile capire il mio modo di argomentare se non sapete che i ragazzi vivono praticamente con me. Riceviamo le visite insieme. Leggiamo insieme: i libri, il giornale, la posta. Scriviamo insieme». Tutto si legava dentro la vita del maestro e dei suoi allievi, piccoli montanari da non tradire. Era un modo nuovo di vivere. Stare giù in basso, alla maniera di Simone Weil quando lavorava nelle officine Renault di Boulogne Billancourt, scrive Affinati.

Un’alleanza senza confondere i ruoli. «Quella non è una scuola, è una pubblica piazza. Ognuno tira per la sua strada disinteressandosi del prossimo. Vi siete forse illusi di poter fare una scuola democratica? È un errore. La scuola deve essere monarchica assolutista ed è democratica solo nel fine, in quanto il monarca che la guida costruisce nei ragazzi i mezzi della democrazia». Così Milani si rivolse al professore Marcello Inghilesi, che aveva organizzato una proiezione di Roma città aperta, invitando gli allievi di Barbiana. Non gli era piaciuto il rumore di sottofondo degli studenti delle medie.

Lo scrittore insegnante non imbalsama colui che chiama profeta. La perfezione inaridisce, l’elogio dell’errore come quello del ripetente alimenta i don Milani inconsapevoli sparsi per il mondo. I beni non spesi perdono valore. Affinati scrive quel che sa, quello che sperimenta alla Scuola Penny Wirton con i ragazzini egiziani sperduti, che nella lingua rincorrono un orientamento. Gettarsi nella mischia, ferirsi, prima dei registri, prima dei voti. «La scuola ha un problema. I ragazzi che perde», argomentava Milani. Respiriamo a polmoni aperti, sottraendoci alla logica binaria scuola od officina.

La rivoluzione è aspettare i ritardatari: un’utopia? Andare a cercarsi i ragazzi uno per uno, far scattare una scintilla, essere autentici, fare sul serio: non salverà il mondo, ma dona vite. «C’è un punto in cui l’educatore accetta la propria impotenza, esce dal tribunale della storia e torna alla lavagna chinando il capo. Fu in seminario che Lorenzo cominciò a capire come si dovrebbe sentire chi insegna agli adolescenti difficili: un po’ sconfitto, un po’ vittorioso. Non significa forse questo essere padri?»

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martedì 9 febbraio 2016

Lontani ma vicini: l'Islam e noi. Intervista a Shahrzad Houshmand


di Gabriele Santoro

Che cos’è l’Islam italiano? La comunità di immigrati musulmani, che ormai conta un milione e seicentomila persone, quali problematiche, contributi e necessità pone? Che cosa s’intende per integrazione? Sono domande alle quali dovrà rispondere anche il Consiglio per le relazioni con l’Islam italiano, organismo consultivo di recentissima formazione. A metà gennaio, presso il Viminale, il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, ha presieduto la riunione d’insediamento del gruppo di lavoro che dovrà elaborare proposte sulla delicata materia dei rapporti tra lo Stato e la comunità Islamica.

Monastero Mar Musa
Fra gli altri nel Consiglio, coordinato da Paolo Naso, una presenza significativa sarà Shahrzad Houshmand, studiosa colta e appassionata. Nata nel 1964 a Teheran, formatasi nella scuola di Qom, centro della ricerca religiosa sciita, si è laureata in teologia Islamica all’università della capitale iraniana e, dopo il trasferimento a metà degli anni Ottanta, in teologia fondamentale cristiana alla Pontificia Università dell’Italia meridionale e alla Lateranense. È specialista in Cristologia Coranica, teologa e docente di Studi Islamici a Roma presso la Pontificia Università Gregoriana. La sua vita è testimonianza della ricchezza e delle opportunità di un fecondo dialogo Islamo cristiano. Figlia di professori universitari, è cresciuta in un ambiente familiare laico, illuminato.

Un prozio  importante come Mehdi Bazargan, ingegnere già al vertice della Compagnia Nazionale Iraniana del Petrolio con Mossadeq e poi oppositore dello scià Reza Pahlavi, messo nel 1979 dall’ayatollah Khomeini a capo del governo provvisorio iraniano dopo la rivolta. Dai primi passi si riscontrò una difficoltà reciproca. Restò in carica per otto mesi. «Bazargan era veramente amato da tutti, perché oltre a essere una persona molto colta, di comprovata onestà, aveva passato anche diversi anni nelle carceri dello Scià – racconta Houshmand –. Sulla sua figura convergevano tutti. Le sue idee rappresentavano un punto d’incontro tra destra e sinistra. Una delle sue prime richieste era di creare una Repubblica democratica Islamica. Questo venne rigettato dall’imam Khomeini. Repubblica Islamica, né una parola in più, né una parola in meno».

Professoressa, all’epoca dell’unica rivoluzione Islamica che finora si sia affermata era un’adolescente, appena quindicenne. Quali ricordi conserva di quelle giornate?
«Ero molto piccola, ma quell’onda coinvolgeva chiunque, nessuno rimase fuori da quel cambiamento forte. Alla monarchia venivano poste richieste di cambiamenti sociali radicali, economici, più diritti. Una rivolta popolare a un certo livello, ma non proprio nel senso vero della parola. Khomeini, fino all’anno precedente era totalmente sconosciuto, tuttavia il popolo aveva riposto tutte le proprie aspettative in una figura di protesta in esilio e che era pure religiosa. Dalla Francia giungeva una certa promessa di pluralismo e diritti sociali che concorse a un’unità nazionale».

Gli eventi influenzarono le sue scelte negli studi? Qualche lettura in particolare?
«La rivolta ha influenzato i giovani, innanzitutto perché le scuole restarono chiuse per sei o sette mesi. Ci siamo impegnati nelle letture alternative. Avevo sotto mano i libri di un grande pensatore, qual era Ali Shariati. Rinnovare, riformare la stessa lettura Islamica con un approccio anche poetico e sociale, perché, oltre a essere figlio di un grande studioso Islamico, aveva compiuto i propri studi di sociologia alla Sorbona in Francia. Riusciva a unificare le visioni Islamiche con la nuova democrazia e ciò era molto affascinante per i giovani, anche per me nonostante avessi 15 anni. Uno dopo l’altro ho letto i suoi libri e mi sono piaciuti. La scelta personale di intraprendere gli studi Islamici è dipesa molto da queste letture. Genitori, nonni, zii erano laici; non mi avevano impartito un’educazione religiosa, ma sicuramente valori di onestà, giustizia, pace, vita etica sì, non sotto una prospettiva religiosa».

Che cosa ha significato la scuola di Qom?
«Non ricordo dove seppi dell’esistenza di una scuola di studi religiosi Islamici nella città di Qom. Apriva per le prime volte a livello massiccio anche alle donne. C’era un concorso, che vinsi, nonostante le difficoltà che trovarono i miei per accettare questa mia scelta fuori ogni schema. Erano preoccupati perché sarei uscita da Teheran, ma soprattutto la stessa scelta di studi Islamici non era in linea con il loro pensiero. Cercarono di dissuadermi per poi permettermi democraticamente di frequentarla. Ho trascorso sette anni in questa scuola tradizionale, non università. Da secoli hanno resistito e hanno avuto la propria indipendenza da ogni Stato ed era un grande bene. Si poteva decidere senza un’oppressione governativa. Aveva tutt’altro sistema rispetto alle università, i professori scelti dallo studente, Il metodo di studio anche era veramente all’avanguardia. Ho imparato tanto, studiato tantissimo, a cominciare dalla lingua araba. Parlavo persiano e francese. Studi di lingua e letteratura araba, storia, esegesi coranica, tradizione e filosofia Islamica. Una buona parte di questi studi si concentravano sul diritto Islamico, un po’ troppo sulla sharia».

Poi il ritorno a Teheran.
«Mi mancava un altro respiro e sono ritornata a casa. Lì ho fatto il percorso dell’università sempre nella facoltà di teologia, nell’indirizzo che ho amato: religioni e misticismo. Vinsi il concorso per il dottorato. Ciò che più mi animava era la passione intellettuale per lo studio delle religioni. Nel frattempo mi trasferii in Italia. Ho chiuso la mia tesi essendo già qui».

Qual è stata la prima esperienza dell’Italia?
«Da turista a Roma. Ricordo dodicenne lo shopping con mia madre in Via Nazionale. Mai avrei immaginato che sarei tornata a viverci. Ora, dopo trent’anni vissuti qui, mi sento italiana. Nelle aule universitarie ho cominciato a frequentare la religione cristiana».

Nel novembre 2011, in un’intervista concessami, il Premio Nobel Shirin Ebadi sostenne che la riuscita della primavera araba, definizione che non condivideva, si sarebbe dovuta valutare sull’effettiva conquista di diritti da parte delle donne. Lei ha patito una condizione di subalternità?
«No. Non sono fuggita, non sono rifugiata. Torno ancora in Iran, ho ottime relazioni e piena fiducia nei cambiamenti, nei progressi culturali quand’anche lenti. Credo profondamente in ogni modo e sempre nell’incontro, nella conoscenza e nel dialogo. Penso per esempio a un viaggio di alto livello nel quale ho fatto incontrare il professore, teologo, Piero Coda con ayatollah di primissimo piano».

Monastero Mar Musa
Lei conosce personalmente Padre Paolo Dall’Oglio. Le chiedo un ritratto.
«Ci siamo incontrati in varie occasioni di dibattito pubblico e in privato, in casa dei suoi amici romani ai quali narrava i propri vissuti a Mar Musa e il percorso della loro confraternita. Una volta l’ho invitato ed è venuto a casa ed è stato molto bello. Di lui colpisce la fede autentica, sincera. Un essere umano mosso dalla compassione per l’altro chiunque esso sia. Ciò aveva preso la sua anima, in modo vero. Lo testimoniava e testimonia con la propria vita. Non parole, sogni, bensì idee realizzate concretamente, un atto vero. La comunità che ha creato, che esiste, immagina il nostro dopodomani. Lui va in Siria, in un paese a maggioranza musulmana, ristruttura un monastero antico, riapre la porta di questo monastero a tutti, soprattutto ai musulmani, sono più i musulmani che vanno lì. Rifletteva in un’atmosfera di grande armonia, pace e reciprocità. In un ascolto dell’altro che si trasformava in un dono. Diventava un dono reciproco senza nessuna pretesa di superbia. Tanto da fargli scrivere quel meraviglioso libro, che è la sua tesi di dottorato, Speranza nell’Islam, e l’altro, già il titolo basterebbe a meditare, Innamorato dell’Islam, credente in Cristo. Capovolgendo questa è la mia vita: innamorata di Gesù, credente nell’Islam. Già con i documenti del Vaticano II, dopo secoli possiamo dire che nell’altra esperienza religiosa, che ha un altro nome dal nostro proprio cammino, si possono trovare luci e frutti, semi del verbo, cristianamente detto; il volto di Dio nell’altro, Islamicamente detto. Praticava questo. Sapeva molto. Ha voluto condividere il destino così tragico, violento, del bel popolo siriano che ha amato profondamente».

Come ricostruisce il testo necessario Padre Paolo Dall’Oglio – uomo di dialogo ostaggio in Siria (Pisa University Press, 90 pagine, 10 euro) curato da Chiara Lapi, l’allora ventitreenne novizio gesuita annunciò al padre spirituale di voler offrire la propria vita per la salvezza dei musulmani. Può spiegare la duplice appartenenza Islamo cristiana, il sentirsi cristiano e musulmano allo stesso modo?
«Sì, le dicevo che è l’uomo del dopodomani. Muslimān significa letteralmente chi si affida, abbandona in Dio. Il Corano stesso nomina altri profeti musulmani, perché arriva proprio al senso della parola. Paolo Dall’Oglio era veramente una persona che si affidava e abbandonava in Dio. A prescindere dal senso letterale, condivideva le bellezze dell’Islam e le meraviglie del Cristianesimo, perché una fede autentica non ha più paura di guardare l’altro e di vedere anche le bellezze dell’altro. Quando invece la fede è debole s’impaurisce davanti all’altro, deve rifugiarsi in un istituto, dentro a un confine perché ha paura di perdere qualcosa. Dall’Oglio non ha mai avuto paura di perdere il volto di Gesù nella sua vita, nella sua anima. Anzi l’aveva fatto suo con grande spirito, riuscendo a guardare nell’altro e cogliere la bellezza, tanto da farlo arrivare a dire innamorato dell’Islam. Anche il Corano ha delle meraviglie da far innamorare chi si avvicina al testo senza pregiudizi e superbia».

Il dialogo: come si tiene insieme all’evangelizzazione, all’annuncio, alle pretese assolutistiche? Dall’Oglio sosteneva di superare l’idea di un dialogo interreligioso, per recuperare quella del dialogo fra persone credenti.
«Quando l’incontro si basa sull’uguaglianza, sulla dignità reciproca si può giungere a un dialogo fruttuoso. Dall’Oglio insisteva molto sul punto, perché l’Islam non è una ideologia nell’aria. Quando tu guardi il volto dell’altro, puoi capire meglio ciò che pensa. Per lui l’evangelizzazione non consisteva nel far convertire, battezzare, ma far vedere la bellezza del volto di Gesù. Penso questa sia la vera evangelizzazione. Col potere del denaro, la forza e la guerra non si otterrà mai una conversione sincera. Lui portava avanti una vera evangelizzazione perché era un testimone. Oggi più delle parole abbiamo bisogno di testimoni forti come lui. Per sapere di più oggi abbiamo bisogno dei testimoni che condividono il dolore dell’altro, nonostante la diversità religiosa, politica, che non si fermano davanti a nessun muro perché l’altro resta sempre una persona con pari dignità. Testimoni più fedeli al messaggio del nostro nuovo mondo, che parte con la Rivoluzione francese: libertà, fraternità e uguaglianza. L’abbiamo dimenticato in Europa».

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