lunedì 30 maggio 2016

Stregati: "L'uomo del futuro" di Eraldo Affinati


di Gabriele Santoro

Per la serie dedicata ai dodici libri candidati al Premio Strega, ripubblichiamo un pezzo di Gabriele Santoro sul libro L’uomo del futuro di Eraldo Affinati (Mondadori).

Eraldo Affinati sostiene che spesso per distinguere il buono dal cattivo maestro, basta vedere negli occhi dei suoi scolari: se brillano, oppure restano spenti. Due anni fa gli occhi dello scrittore brillavano, quando nel corso di un’intervista accennò alla personale ricerca di don Lorenzo Milani, suo riferimento culturale fondamentale. La visione e le gambe per camminare, assumendo il senso del limite: «don Milani continua a essere inafferrabile: è una domanda inevasa, la spina nel nostro fianco, un pensiero in movimento. Non ci lascia un’opera, una filosofia, un sistema, un progetto, ma energia allo stato puro. L’inquietudine che c’è prima dell’azione. Come se non fosse possibile tenerlo fermo per esaminarlo, sfugge a qualsiasi definizione», scrive Affinati.


Da qualche giorno nelle librerie è arrivato L’uomo del futuro (Mondadori, 177 pagine, 18 euro): dieci capitoli in seconda persona nei luoghi e nel fuoco della controversia accesa dal priore, e altrettanti capitoli per i diari di viaggio dal Gambia a Volgograd in soggettiva sulle tracce dello spirito di Barbiana. Con la scelta della seconda persona l’autore sembra mettersi di fronte a sé stesso, però a corta distanza, nel tentativo di fondere azione e riflessione. È un testimone della propria esperienza: «Un amico mi ha detto che in questo modo è come se avessi fatto un esame di coscienza. Per me scrivere e leggere significa anche questo. Ecco perché nei miei testi c’è spesso una bibliografia: serve a lasciare le tracce del cammino che ho compiuto», spiega. Barbiana oggi si propone in chiave multiculturale con la questione posta da Milani con radicalità: l’uguaglianza delle posizioni di partenza, che non assomiglia neanche un po’ all’egualitarismo e al solidarismo retorico.

Affinati ci illustra ancora una volta la propria idea di letteratura che vive sull’esperienza e in cui la scrittura rappresenta l’elaborazione, il momento ultimo. Come credi possibile che una terza persona, per di più esterna, quale sei tu, possa riuscire a percepire, se non a raccogliere un lascito incredibile?, si domanda. E risponde: «D’istinto quasi schiacci il pulsante interiore dei tuoi vent’anni: la letteratura serve a questo, altrimenti non avrebbe senso né leggere, né scrivere».

Stavolta la traccia è un’esistenza che non è scomparsa. Ridefinisce la sconcertante attualità del carisma pedagogico di don Milani: «Non vuoi ammettere che ogni cosa finisce in polvere? No, altrimenti non potresti trovare la forza di scrivere». Ritroviamo la sintassi di Romoletto, lo spirito primigenio de La città dei ragazzi e quell’urgenza di paternità mai sopita. La solitudine della propria adolescenza, che ancora interroga, quella dello scrittore, impastate nella coralità vivificata dalla scuola di Barbiana. Il lavoro che più lo appassiona, ce lo ripete: «Cercare i rapporti, ricucire gli strappi; mettere in relazione libri e destini».

Questo testo, che non percorre la scorciatoia del romanzo, commuove dopo la lettura non solo Aldo Bozzolini, il più piccolo fra gli allievi del priore, ma chiunque sia nato o abbia deciso di rinunciare al privilegio per condividere il cammino sul lato polveroso della strada, della vita. Il maestro, scrittore, politico, educatore; prete ribelle e rispettosissimo rinunciò innanzitutto ai privilegi della propria estrazione sociale alto borghese, senza sostituire l’aristocrazia materiale con quella morale. Lacerare i tessuti, rovesciare i banchi del tempio: è la necessità per immaginare di poter guardare chi non è come te, per guardare dentro a Il quartiere di Vasco Pratolini.

«Certe fotografie del piccolo Lorenzo fanno impressione: le camicette immacolate, le scarpette bianche, i capelli ben pettinati. Egli, sin dalla più tenera età, sentì tutto questo come una zavorra insopportabile, altrimenti non avrebbe chiesto al fattore di Montespertoli, dove la sua famiglia aveva una lussuosa residenza, di far entrare in quel giardino dorato i bambini poveri», racconta Affinati. Non fu dunque una conversione sulla via di Damasco, ma già percepibile nelle stagioni dell’infanzia e dell’adolescenza.

Visitando la Tenuta La Gigliola, casa di campagna della famiglia Milani, distante dieci chilometri da Firenze, si sofferma sul campo da tennis posto accanto alla villa padronale, dove Lorenzo pare che spingesse a giocare a pallone i suoi amici. Qui evoca un confronto con Giorgio Bassani e il Giardino dei Finzi Contini: «Sì, mi ha procurato una serie di risonanze emotive e culturali sulle quali ho lavorato. Insomma la rivoluzione bisogna farla prima dentro noi stessi: ecco cosa ci dice il priore».
Quando uno liberamente regala la sua libertà è più libero di uno che è costretto a tenersela, scrisse Milani alla madre. Per essere veramente liberi s’incarna un limite, quale nucleo di ogni vera tensione pedagogica. Andare oltre l’efficacia; a scuola si cerca l’efficacia prima della giustizia.

Quando anche la vostra rivoluzione avrà trionfato, scrive nella lettera a Pipetta, il comunista di San Donato di Calenzano, il mio posto sarà sempre al fianco degli assetati e degli affamati della giustizia. Il senso della sconfitta storicizzata del mito novecentesco dell’uguaglianza non è ragione sufficiente per smettere di essere una spina nel fianco del privilegio che fa scandalo.

Ci emancipa dallo stereotipo di don Camillo e Peppone. Nella prefazione di Esperienze spirituali l’Arcivescovo di Camerino, Giuseppe D’Avack, evidenzia come: «La doverosa e urgente difesa dai pericoli del comunismo ateo ha trascinato molti nella politica in senso tecnico, o addirittura in senso deteriore. Talvolta ci si è convinti che oggi la cosa a cui occorre dare ogni energia, a cui occorre tutto coordinare e subordinare e perfino sacrificare, è la questione elettorale, e la politica; e per far questo efficacemente è necessario – si dice – prendere le difese del governo e della DC e del suo operato, e dei suoi uomini. E Lei ci dice che tutto questo occorre abbandonarlo!» Affinati riporta una frase di don Milani: «Abbiamo fornicato col liberalismo di De Gasperi, coi congressi eucaristici di Franco».

 La pretesa di giustizia milaniana si realizza nel qui e ora, nell’insegnamento della lingua, nel farsi carico dello sguardo dell’altro e nel far entrare nella Storia gli esclusi, rompendo il conformismo didattico. Il priore considerava povertà la mancanza di parole indispensabili per sciogliere i nodi dell’esistenza: «Io ho insegnato loro soltanto a esprimersi, mentre loro mi hanno insegnato a vivere». Fare scuola ai diseredati vuol dire raddrizzare le strade storte. A Barbiana la scuola riguadagnava il senso del tempo. Dodici ore al giorno, 365 giorni all’anno. Nella nota Lettera ai Giudici leggiamo:

«La mia è una parrocchia di montagna. Quando ci arrivai c’era solo una scuola elementare. Cinque classi in un’aula sola. I ragazzi uscivano dalla quinta semianalfabeti e andavano a lavorare. Timidi e disprezzati. Decisi allora che avrei speso la mia vita di parroco per la loro elevazione civile e non solo religiosa. Così da undici anni in qua, la più gran parte del mio ministero consiste in una scuola. Quelli che stanno in città usano meravigliarsi del suo orario. Prima che arrivassi io i ragazzi facevano lo stesso orario (e in più tanta fatica) per procurare lana e cacio a quelli che stanno in città. Nessuno aveva da ridire. Ora che quell’orario glielo faccio fare a scuola dicono che li sacrifico. La questione appartiene a questo processo solo perché vi sarebbe difficile capire il mio modo di argomentare se non sapete che i ragazzi vivono praticamente con me. Riceviamo le visite insieme. Leggiamo insieme: i libri, il giornale, la posta. Scriviamo insieme». Tutto si legava dentro la vita del maestro e dei suoi allievi, piccoli montanari da non tradire. Era un modo nuovo di vivere. Stare giù in basso, alla maniera di Simone Weil quando lavorava nelle officine Renault di Boulogne Billancourt, scrive Affinati.

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martedì 24 maggio 2016

Identità molteplici. "Appartenersi" di Karim Miské

http://www.minimaetmoralia.it/wp/identita-molteplici-appartenersi-di-karim-miske/

di Gabriele Santoro

Questa intervista è stata realizzata all’ultimo Salone del libro di Torino.

Karim Miské non ha sostituito l’appartenenza all’essere. Regista di documentari e scrittore, nelle pagine dense di Appartenersi (Fazi, 96 pagine, 15 euro) racconta una conquista faticosa, dolorosa e feconda: ostinarsi a rifiutare quel posto di bastardo che il nonno francese, prima della società, gli assegnò.

Tutti pensavano che si fosse abituato alla figlia insieme a quell’arabo. All’ultima curva della vita invece scaricò sul nipote quella parola, bastardo, che secca negava quell’unione e la dote di un amore bicolore.

Miské, classe 1964, è nato ad Abidjan; padre mauritano, diplomatico, musulmano e madre francese, atea, femminista e militante comunista. È cresciuto a Parigi, per poi trasferirsi a Dakar per gli studi di giornalismo. Lui, affetto da una sana impossibilità di aderire, si è addossato il peso della differenza, tenendolo alla giusta distanza. Se Arab Jazz è il romanzo poliziesco d’esordio che l’ha fatto conoscere, Appartenersi sfugge a una classificazione univoca: è saggio di alta qualità, memoir intenso, nonché testimonianza politica.


Miské, il suo libro è pieno di domande simboliche, alle quali lei nel tempo si è sottratto. Ne cito una su tutte: «Dove vuoi fare il servizio militare, in Francia o in Mauritania?»
«C’è qualcosa di impossibile in questo conflitto. Tutte le società si attendono un’adesione piena a un’identità dominante. La domanda mi venne posta da un’amica di mia nonna, francese, bianca, colta e ricca. E aggiunse: “Con ti schiereresti in caso di guerra fra i due paesi?” Mi sono formato nel rifiuto delle domande errate. La stessa società francese, in cui sono cresciuto, mi collocava nel posto riservato agli stranieri. Mi guardava come uno straniero per la mia quota parte di origine araba. Non posso essere trattato come un paria e al contempo dovrei rivendicare pienamente un’identità francese.
La mia storia personale costituisce una problematica universale. Le società sottopongono scelte troppo grandi e contrarie a quel che servirebbe per risolvere l’impossibilità dell’identità. E dunque ho dovuto inventare uno spazio per un’esistenza piena. Penso che tuttavia si possa arrivare a costruire sé stessi dentro a questo combattimento».

Appartenersi danza sull’ambivalenza dell’assimilazione, talvolta mossa dal desiderio di percepirsi inclusi, e il senso di estraneità che inquieta. In che modo ha risolto tale condizione complessa?
«La società contemporanea avrebbe dovuto superare tutto ciò, mentre si ritorna a forme arcaiche di appartenenza tribale. L’uomo è un animale sociale, che vuole profondamente appartenere per non ritrovarsi davanti alla propria nudità. L’estraneità è un sentimento pericoloso, davanti al dominio dell’idea della maggioranza silenziosa, una sorta di totalitarismo. In epoche di crisi la differenza non passa sotto silenzio, non la si contempla: diventa un rischio da marginalizzare. La società fatica ad accettare le eccezioni. Accettare di fermarsi su un’identità, quando tutti ne abbiamo molteplici, equivale ad accettare una violenza contro sé stessi. Questa visione dell’identità sdogana la violenza contro l’altro. La considero un modo di esternare la stessa violenza subita accettando di essere interamente dentro a una identità. Ho deciso che sarei stato il granello di sabbia nell’ingranaggio dell’identità».

Qual è la sua reazione davanti allo specchio fisico e a quello ambiguo dello sguardo degli altri?
«Lo specchio ha rappresentato sempre qualcosa di pericoloso, perché ricordava la mia diversità. Non assomigliavo agli altri nonostante crescessi nello stesso paese, frequentassi le stesse scuole e vivessi in una famiglia anche francese, bianca. Quando mi guardavo allo specchio volevo dimenticare, però c’erano gli sguardi degli altri a sostituirlo, a rinviare alla mia estraneità. L’unico specchio che non può essere rotto è lo sguardo altrui. Era davvero troppo accettare di essere uno straniero nella mia società. È troppo da domandare a un bambino a un adolescente di essere straniero fra i propri coetanei. Ho avuto la tentazione di ricercare l’alterità a cui mi si rimandava. A quindici anni andai per la prima volta in Mauritania. Lì non accettai di essere membro di un gruppo dominante, che conservava tracce profonde del periodo schiavista. L’inclusione sarebbe equivalsa alla negazione di me stesso: ho coltivato l’arte del rifiuto».

Suo padre seppe stare dentro alla contraddizione?
«Ha subito il razzismo per quanto fosse un nobile del deserto appassionato di poesia, un diplomatico, un giornalista e un rivoluzionario. Viveva la contraddizione a modo suo. Si era sempre opposto alla schiavitù, pur essendo capace di vivervi dentro, al suo posto di padrone. Una posizione dentro-fuori che gli calzava a pennello e che ereditavo mio malgrado».

Che cosa intende quando qualifica come disfunzionale l’amore della sua famiglia?
«Devo premettere che definisco la famiglia come un’unione di follie. Disfunzionale perché sono cresciuto come se non avessi problemi. Ma un problema c’era ed ero io, il bastardo. E non lo si poteva ammettere, perché dirlo avrebbe significato non accettarmi. I miei nonni materni francesi mi amavano profondamente, quanto mio padre. Mio nonno mi ha dato molto affetto, ma ero inaccettabile alla radice. Amava anche sua figlia, che era mia madre. Era moderno, non si permise di non accettare il matrimonio. Era però schiacciato da una contraddizione per lui irrisolvibile».

Nella letteratura ha trovato una patria utopica, che non le chiede scelte impossibili?
«Sì, una patria elettiva, un’utopia che non sarà mai realizzata. È una maniera di resistere a questa ipertrofia odierna delle identità e delle appartenenze. Trovare un luogo che sia comune. Appartenere al paese della letteratura, quello cartografato da Bradbury e Truffaut. Farenheit 41, un mondo distopico dove i libri sono vietati, spietatamente distrutti e dove un pugno di resistenti ostinati li imparano a memoria, diventando uomini-libri, i portatori del meglio dell’umanità; il senso della trasmissione a qualcuno che un giorno potrà nuovamente scrivere. Oskar Werner, Julie Christie e gli altri che girano in cerchio nella foresta declamando Guerra e Pace o Madame Bovary, ecco un’umanità profonda, una patria degna di questo nome, minimalista e desiderabile. Forse per diventare un cittadino a modo mio mi sedetti davanti a una tastiera e si presentò, Ahmed, l’eroe sentimentale e borderline di Arab Jazz, il mio primo romanzo».

Appartenersi non è un racconto di tribolazioni, c’è dentro tanta ricchezza. La può illustrare?
«La mia formazione è stata estremamente ricca, è la ricchezza che mi ha alimentato e mi ha donato l’opportunità di conoscere due mondi dall’interno. Questo libro non è una lamentazione. C’è stata un’asprezza che mi ha segnato e ha contribuito alla persona che sono. Devo ammettere che la volontà inclusiva della società mauritana, quand’anche era evidente che non fossi uno di loro, è stata seducente e toccante».

Perché avverte distanza da Barack Obama?
«La scelta di appartenere che è stata anche di Obama, cioè di scegliere come identità una sola delle due parti, non faceva al caso mio. Nel contesto americano non aveva altre scelte. In Francia la credenza sull’universalità è fondata su una menzogna niente male, qualcuno ci crede e si può rivendicarla. Negli Stati Uniti la razza è una realtà. Dalla mia storia ho preteso di potermi considerare in modo differente, mi sono sottratto al ricatto identitario».

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giovedì 19 maggio 2016

Murat Uyurkulak, viaggio nelle viscere della Turchia

http://www.minimaetmoralia.it/wp/murat-uyurkulak-viaggio-nelle-viscere-della-turchia/

di Gabriele Santoro


Questa intervista è stata realizzata all’ultimo Salone del libro di Torino.

Little Miss Sunshine.
Murat Uyurkulak, scrittore e giornalista, classe ’72, è nato ad Aydin in una famiglia comunista impegnata politicamente negli anni Settanta e Ottanta nella Turchia dei golpe militari. Si è formato nel cuore di una storia violenta di oppressione, che non ha sopito la voglia di rivoluzione e l’anelito di liberazione da un blocco di potere che si perpetua. La tortura, che colpiva gli oppositori, è un racconto familiare, divenuto poi un romanzo. Un dolore che Uyurkulak ha affidato alle pagine dell’opera prima Tol – Storia di una vendetta (Passigli editori, 296 pagine, 19.50 euro) pubblicata nel 2002 dopo una gestazione durata sei anni.

Tradotto in lingua francese nel 2010 da Galaade Éditions, oggi arriva nelle librerie italiane con l’ottima traduzione di Luis Miguel Selvelli. In Turchia Tol, vendetta in curdo, ha ottenuto l’attenzione dei lettori, superando le 50mila copie vendute. Nel 2010 è stato insignito del premio quale miglior romanzo turco del decennio. Il testo ha avuto successo anche nell’adattamento per il teatro.


Il padre è stato un insegnante di letteratura e Uyurkulak, che aveva 8 anni all’epoca del golpe del 1980, racconta di essersi nutrito di politica, storia e letteratura in una casa piena di libri. Nel tempo ha maturato la passione che anima l’esordio letterario: indagare la storia rimossa della Turchia, quella che a scuola non insegnano. Uyurkulak, lettore appassionato di Hikmet, è stato escluso dall’università. Cameriere, fotografo, tecnico, giornalista è anche traduttore, soprattutto di Bakunin, per varie case editrici.

Tol è un viaggio linguistico nelle viscere della geografia e nelle vicende violente del paese, che evolve per mille chilometri da Istanbul a Diyarbakir in terra curda. La struttura del romanzo è stratificata, sono vari i registri linguistici e le storie si sovrappongono, ma appaiono condotte dallo stesso io. Uyurkulak sembra voler raccogliere la sfida della frammentazione, reagendo al prodotto di una violenza disgregatrice. Yusuf è la voce narrante che apre. Non ha mai conosciuto suo padre, la madre è uscita di senno fino alle estreme conseguenze: «C’hanno fottuto. E fotteranno anche i nostri figli. Non importa quanta storia, preghiere, onore e armi ci portiamo appresso, loro ci vomiteranno addosso…».

Yusuf, poeta e correttore di bozze in una casa editrice, alla ricerca della propria identità, è sospettato di terrorismo e viene licenziato. È costretto ad abbandonare Istanbul. Sul treno che lo deve portare lontano c’è Poeta (Sair), attivista rivoluzionario negli anni Sessanta e Settanta, poi esiliato a Parigi e rientrato in Turchia dopo l’amnistia. Poi c’è Oguz, che ha perso la memoria a causa delle torture del regime, padre di Yusuf, studente di estrema sinistra finito a combattere come ribelle sui monti di Gabar nel sud-est curdo del paese. Oguz, che a causa dell’amnesia si riconosce come Ahmed, ritrova lampi di memoria e l’esigenza di tornare in prima linea.

Yusuf e il Poeta sono due vinti e affogano il dolore nell’alcol. Davanti allo smarrimento intergenerazionale resta nell’aria uno spirito di rivoluzione alimentato dai sollevamenti popolari. Storie individuali e storia collettiva si mescolano con tre elementi fondanti: l’impegno politico, la violenza di Stato e la rivoluzione agognata. In che rapporto stanno i figli con gli intenti rivoluzionari dei padri?

Uyurkulak, le succede ancora di volgere lo sguardo al romanzo d’esordio e ai suoi trent’anni, età in cui scrisse Tol?
«Finire un libro è sempre difficile. Ho fatto molto fatica a dire basta, perché il libro evolveva durante la scrittura. Dal momento che l’ho chiuso, non ho voluto intrattenere alcun legame. Gli anni passano, ne sono trascorsi già quattordici dalla prima edizione. Dopo la pubblicazione, quando ci pensavo, affioravano i dubbi. Forse avrei dovuto cambiare tantissime cose, fare in un altro modo. Si affollavano questi pensieri. Per tale ragione non lo leggo più. Ora è una storia conclusa. Tol è emerso dal calderone del mio percorso formativo, dalle influenze culturali con cui sono cresciuto fin dalla tenera età. Credo che il primo libro abbia quasi sempre una qualche traccia autobiografica profonda».

L’incipit recita: «La rivoluzione a quel tempo era possibile, bella e possibile». Lei ci presenta un rivoluzionario fallito, che aveva coltivato il sogno e si trova costretto alla resa, emarginato anche dal suo mondo militante. La sua scrittura densa, al contrario, non sembra aver abbandonato l’esigenza: «Vita, mi farai un favore? Offrirai anche a me del distillato di rivoluzione? Immischiarmi con te equivale a morire, ma in fondo un uomo a cosa dovrebbe donare la propria esistenza». Crede ancora alle promesse della parola rivoluzione?
«Non penso che le sue possibilità si siano esaurite, nonostante la sensazione di aver lottato una vita per un mondo che non ha posto per molti. Continuo a credere che una rivoluzione sia necessaria, la si debba fare. Il senso del romanzo, la bellezza che intravedo nei suoi personaggi, che sono degli sconfitti, consiste nell’aver vissuto con quell’urgenza rivoluzionaria. La rivoluzione quando si compie purtroppo degenera e diventa un’altra forma di potere. La cosa più bella della rivoluzione è il vivere impegnandosi per renderla possibile. Al contempo però dovremmo cominciare a immaginare una rivoluzione che, una volta concretizzata, non perda la propria anima. Non ho mai smesso di immaginarla».

Che cosa rappresenta per lei la bandiera rossa con la stella e la mezzaluna rispetto al sistema simbolico, educativo turco?
«Premetto che considero qualunque bandiera nazionale qualcosa di cui l’umanità dovrebbe liberarsi al più presto. Qualunque distorsione funzionale del nazionalismo andrebbe buttata nella spazzatura della storia. Nel caso di specie turco, pensando al sangue degli armeni, dei greci e dei curdi che macchia questa bandiera, è il simbolo degli orrori compiuti da uno Stato. Come cittadino turco, nato come tale, tutto ciò mi fa guardare con ancora più antipatia al simbolo nazionale, alla nostra idea di nazione. Ci eravamo illusi di non dover più pensare quotidianamente a che cosa evocasse la nostra bandiera, mentre l’attualità ci ripiomba nell’incubo. L’idea che Erdoğan stia cercando di istituire una forma di dittatura e il conflitto nel Sud-est del paese costituiscono ulteriori macchie».

I personaggi “combattenti” del quartiere sono tutti morti o fuggiti all’estero. L’esilio è l’unica cura nota all’oppressione, alla sensazione di avere parole ormai errate per cause giuste, alla sensazione della nave che si inabissa sui fondali dei pensieri pesanti?
«Non mi sento uno straniero, un fuggitivo in patria, seppure non voglia far parte in alcun modo di questa idea nazionale. Mi sottraggo alla competizione di chi rappresenta meglio il proprio paese, di chi ama di più il proprio paese. Mi ispiro alle parole di Nazim Hikmet, che aveva un orgoglio patriottico. Consisteva nell’aspirazione di un paese che appartenesse agli esclusi, ai poveri, ai lavoratori, a quelli che non sono al potere, agli oppressi, agli stranieri e a tutte le forme di cultura del diverso che compongono il paese. L’unica Turchia possibile, nella quale credo, è inclusiva di tutte queste diversità, affinché siano parte della costruzione di un paese e non di una nazione. Per questa ragione continuo a stare nel mio paese. Non ho mai pensato di andarmene, nonostante le difficoltà perché voglio contribuire a migliorare la Turchia».

Nella prima parte del libro c’è una scena significativa, che coinvolge il giovane Yusuf in treno. Racconta e rivendica letture considerate eversive, provocando un funzionario di Stato in pensione che dice: «In questa battaglia (si riferisce al rafforzamento della nazione, ndr) i giovani sono la nostra maggiore speranza». Che cosa vuol dire essere giovani in Turchia?
«L’oppressione culturale, educativa, religiosa, politica fatta di tanti schemi rigidi che controllano il paese rende travagliata la stagione delle scoperte e della formazione. Il sistema educativo è drammatico, a causa del tentativo di elaborare un cittadino modello nel senso di nazionalista che creda ciecamente nella bandiera, in Ataturk. In Turchia tuttavia per quanto complesso i giovani sono stati sempre portatori di una potenzialità rivoluzionaria. Non ho mai perso la speranza quando lo ero e non lo faccio oggi ammirando la rivolta di Gezi Park.

Lì all’improvviso le mie speranze sono rifiorite. Ho visto nei giovani turchi la possibilità di concepire una Turchia nuova. È stato l’effetto dell’unione delle minoranze in un fuoco d’artificio straordinario. L’involuzione antidemocratica è dovuta a quel sogno antiautoritario. Lo Stato profondo, che da novant’anni opprime, non cambia. Eppure il sistema educativo non è riuscito a imporre un’idea di società calata dall’alto. L’HDP è il prodotto politico di Gezi Park: unire quello che dall’alto si tenta di tenere separato. I sei milioni di voti ottenuti dal partito sono stati qualcosa di spaventoso per l’establishment».

Quali bombe raffigura nel romanzo rispetto a quelle che hanno spezzato giovani esistenze ad Ankara?
«Sono estremamente diverse, perché le mie bombe sono un po’ fuori dalla realtà. Nella costruzione del romanzo ho fatto in modo che non uccidessero mai nessuno, che scoppiassero sempre quando l’edificio è vuoto e fossero in un certo senso anche fuori dalla politica. Quasi una cosa fantastica affinché aiutassero un sommovimento rivoluzionario che era già in corso nel paese. Sono come dei fuochi d’artificio che sostengono il processo rivoluzionario. Dunque, quando immaginavo quelle bombe, non c’erano né la rabbia né la paura. Ovviamente invece le bombe che stiamo vivendo in questi ultimi mesi sono bombe che creano rabbia e paura. Purtroppo non possiamo farci nulla e dovremo anche imparare a conviverci».

Lei affida qualche compito alla letteratura?
«Non credo nel ruolo politico di cambiamento sociale della letteratura. Non penso che questo sia il compito di cui debba farsi carico: non deve e non può cambiare il mondo a livello di struttura sociale. La letteratura, soprattutto in Turchia, dovrebbe permettere di confrontarsi con il passato del proprio paese, di mettere il lettore a confronto con tutta una serie di cose da cui la storia ufficiale ti ha escluso, che non ti ha raccontato. A livello molto più intimo invece la letteratura ha la possibilità di svelare le oscurità delle cose nascoste. Deve avere il compito di mostrare al lettore l’essere umano, tutta una serie di caratteristiche dell’umano che di solito nella vita rimangono più in superficie, che non vengono scavate e affrontate dai media e dal sistema dell’educazione. Poi c’è un terzo livello. Non riesco a immaginare una letteratura che non provochi piacere nel lettore. È la precondizione: prima di essere uno scrittore, sono un lettore che cerca il piacere».

Nel romanzo l’alcol è disperazione nera, uno strumento di oblio. In che rapporto sta l’alcol con la sua scrittura?
«Provengo da una famiglia di forti bevitori da generazioni. In particolare tutti gli uomini della mia famiglia sono morti a causa di patologie (cirrosi epatica, crisi cardiaca, cancro al fegato) correlate all’abuso di alcol. Amo bere, però quando scrivo ritengo doveroso avere invece una disciplina quasi militare. Quando mi è successo di scrivere da alticcio, ubriaco, la sensazione dominante era di non avere sotto controllo tutte le mie capacità, di non riuscire a tenere tutte le fila della mia immaginazione. Al mattino da sobrio buttavo via pagine che la notte mi sembravano meravigliose.
Quando entro in un periodo di scrittura, o quanto meno nei giorni che dedico seriamente alla scrittura, mi mantengo rigorosamente pulito. La storia della letteratura è piena di autori che riuscivano a scrivere cose bellissime sotto l’effetto dell’alcol. Li invidio».

Ha creato un personaggio meraviglioso, che funziona benissimo nella narrazione. Atakan Koral è un giovane intellettuale omosessuale, al quale la madre impone matrimoni di convenienza. In seguito a una fortuita successione di eventi ricopre il ruolo di redattore capo della pagina culturale del giornale, cedendo all’autocensura e alla lingua opprimente di Stato.
«Le condizioni attuali del mondo dei media nella società turca ci costringono quasi a ritenere Atakan Koral come un giornalista da desiderare. All’epoca in cui lo immaginai era un rappresentante della vecchia generazione di giornalisti, quella precedente alla nostra, comunque molto impegnati, ma che a causa della difficoltà della struttura sociale della Turchia avevano difficoltà a emergere davvero nella loro individualità. Rimanevano schiacciati tra l’essere un giornalista molto istituzionale, ufficioso di Stato e la volontà di esprimersi al di fuori di questi schemi. La necessità di Stato spinge Koral a reprimere anche il proprio orientamento sessuale. L’attuale panorama dell’informazione in Turchia è deprimente. Ho sempre ritenuto, vissuto il mestiere del giornalista come qualcosa di degno. In Italia arriva qualche notizia sulla censura. Ma la triste realtà racconta dei tantissimi giornalisti che abdicano al proprio lavoro, accettano di abbassare la testa, quali semplici altoparlanti del regime. In Turchia stiamo assistendo al funerale del giornalismo».

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domenica 1 maggio 2016

Chiedi alla polvere: storia dell'Isochimica


di Gabriele Santoro

Gli sguardi dei periti dell’Istituto di Medicina del Lavoro dell’Università Sacro Cuore di Roma rappresentavano la paura. Era il 19 marzo del 1985 quando si fermarono davanti a una nube di polvere d’amianto, dopo aver varcato la soglia dello stabilimento Isochimica, situato nel quartiere Borgo Ferrovia ad Avellino. Da circa tre anni operai, poco più che maggiorenni, raschiavano a mani nude con mascherine di carta sulla bocca la varietà più pericolosa del minerale, il tipo crocidolite, dalle carrozze dei treni delle Ferrovie dello Stato. Le fibre di crocidolite, aghiformi, sono in grado di penetrare a fondo nei tessuti, dove rimangono per tutta la vita, provocando alterazioni irreversibili.

Già nel 1985 Carlo, Nicola, Antonio, Francesco e il gruppo di operai consapevoli avevano iniziato una lotta senza ritorno, che significa ampliare il bagaglio del proprio sapere. Sapevano quel che chiesero di certificare, in un clima generale di omertà che attanagliava la città, ai tecnici del Sacro Cuore: «Quanto abbiamo potuto constatare di persona in fabbrica ci permette già di affermare che non esistono sufficienti condizioni di tutela della salute occupazionale dei lavoratori».

Nel mese di febbraio Alessandro Manganiello, contaminato e ammalatosi a causa dell’amianto inalato, se n’è andato. È morto all’età di sessantasette anni. Era uno dei più anziani, ne aveva 36, quando entrò all’Isochimica. È stato fra i primi e i più attivi nella lotta condotta per denunciare quel che è stato e quel che è sepolto sotto a una fabbrica figlia di un processo di delocalizzazione e del ricatto occupazionale in una terra senza lavoro. Prima di lui nel luglio del 2015 il cinquantaduenne Salvatore Altiero si è arreso alla leucemia. Le Tac toraciche raffigurano i sette anni di lavoro, dal 1983 al 1990, vissuti dentro alla fabbrica d’amianto. Questa è una storia italiana poco raccontata, che si sta costellando di lapidi.


Manganiello e Altiero risultavano fra le le 237 parti offese riconosciute dalla Procura della Repubblica nel maxi processo ex Isochimica. Il 21 aprile presso il Tribunale di Avellino si è celebrata la quarta udienza preliminare. Tre anni fa il Procuratore della Repubblica irpino, Rosario Cantelmo, da poco insediato, dando seguito all’ennesima denuncia vergata dai lavoratori ha disposto il sequestro dell’ex stabilimento. Il 10 novembre 2014 la Procura aveva reso nota l’ipotesi dei reati di disastro doloso, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, omicidio colposo e lesioni personali gravi e gravissime, omissioni di atto d’ufficio come singoli e in concorso a carico di 29 persone: proprietà, dirigenti e curatore fallimentare dell’impresa, alti funzionari delle Ferrovie dello Stato, amministratori, tecnici comunali e sindaci succedutisi, responsabili della Asl e delle aziende che avrebbero dovuto mettere in sicurezza il sito.

La gran parte degli operai è contaminata, è salito il numero delle morti: otto quelle che avrebbero accertato i magistrati, più di venti secondo gli operai. Le migliaia di particelle di amianto nei polmoni sono una bomba a orologeria. Come è noto le patologie da amianto possono avere una latenza temporale lunga, e dunque è necessario un monitoraggio sanitario costante.

Tra gli indagati appare anche l’attuale primo cittadino Paolo Foti, che non avrebbe attuato gli interventi per mettere in sicurezza il sito produttivo dismesso. Il 18 aprile Foti ha presentato il progetto preliminare e il piano di lavoro per la rimozione delle strutture dei rifiuti superficiali nell’ex stabilimento Isochimica. Come riportano le cronache della conferenza stampa l’ha definita «l’opera pubblica più importante per la città di Avellino dalla ricostruzione post sismica»: cinque anni di lavori per un importo complessivo pari a oltre dodici milioni di euro. La settimana successiva il premier Matteo Renzi e il presidente della Regione Vincenzo De Luca, durante la stipula del Patto per la Campania, hanno annunciato le risorse per finanziare tale bonifica.

In trent’anni raramente è affiorata sui media nazionali la voce degli operai ex Isochimica. È successo quando la malattia ha cominciato a trasformarsi in condanna a morte. L’Unità di ricerca sulle topografie sociali dell’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli invece lo ha fatto accuratamente con un’organica raccolta di saggi curata da Antonello Petrillo, Il silenzio della polvere (Mimesis, 234 pagine, 18 euro), rigorosa e ben scritta. Il titolo della ricerca socioetnografica, realizzata sul campo in oltre due anni di interviste, di partecipazione alle assemblee operaie e di quartiere e con la relativa raccolta dei dati, è quantomai appropriato.

L’Isochimica nasce senza un’inagurazione ufficiale. Nei documenti dell’allora Usl 4 e dell’Ispettorato del lavoro di Avellino non c’è una data d’inizio dei lavori di scoibentazione dell’amianto dalle carrozze delle FFSS, non c’è traccia del primo anno di attività. A quell’epoca i rischi dell’esposizione all’amianto erano già noti e l’argomento aveva una centralità nel dibattito pubblico nazionale. Antonio, ex operaio, ricorda:

«Il lavoro era faticoso, ma nelle pause si scherzava, eravamo tutti giovani, si parlava di fidanzate, del matrimonio che grazie a questo lavoro sembrava possibile. Seduti sui gradini delle carrozze dei treni – piene di polvere di amianto – mangiavamo il nostro panino, un caffè e poi si tornava a grattare i vagoni. Ci sembrava normale che il lavoro fosse faticoso, del resto eravamo operai mica impiegati».

Poi si commuove:

«Scusa se piango, ma in quel luogo di morte ci portai pure mio fratello, più giovane di me; è morto da pochi giorni con un tumore. Non me lo perdonerò mai, anche se lui mi ripeteva sempre, fino agli ultimi giorni di vita, che non dovevo sentirmi in colpa perché la cosa che lo consolava era l’idea di morire per un lavoro socialmente utile, che aveva impedito ai tanti viaggiatori e agli altri lavoratori che stavano in quei maledetti vagoni di ammalarsi».


L’anno zero dell’Isochimica è un binario morto della stazione ferroviaria di Avellino. L’antefatto sono carrozze che arrivavano per istruire gli operai alla bonifica dall’amianto. Era la primavera del 1982 e le Ferrovie dello Stato avevano esternalizzato: i dipendenti della costituenda Isochimica, sotto la guida del ferroviere in pensione Vincenzo Foschi, come egli stesso confermò al magistrato Roca, imparavano a rimuovere l’asbesto. Nella ricostruzione documentale proposta dal libro ciò anticipò la realizzazione del raccordo ferrato fra la stazione ferroviaria e il nascente stabilimento dell’Isochimica, che segnerà lo sviluppo e la crisi del Borgo Ferrovia.

Nel periodo 1982 – novembre 1983 ciò avveniva a meno di centro metri da dove i passeggeri sostavano in attesa dei treni. L’amianto raschiato veniva depositato in sacchetti di plastica portati poi via per lo smaltimento verso destinazioni ignote: «Neanche un grammo dell’amianto scoibentato dall’azienda di Elio Graziano risulta smaltito in una qualche discarica autorizzata. La scoibentazione svolta nell’Isochimica produceva enormi quantità di amianto (una delle perizie giudiziarie stima, sulla base dei contratti reperiti, in 2.276 tonnellate l’amianto raschiato presso l’Isochimica) il cui regolare smaltimento comportava costi di altrettanta grandezza. Furono adottati metodi alternativi».

Il metodo veloce consisteva nell’interramento nel perimetro della fabbrica e successivamente nell’impasto di cubi fatti di cemento e amianto, oggi ruderi progressivamente deteriorati che ancora stanno lì, nei luoghi limitrofi a quel che resta dei due capannoni. «Alle volte io stesso raccoglievo da terra i residui della lavorazione per poi riempire sacchi di plastica, quelli comunissimi per l’immondizia. E questi sacchetti sotterrati fuori, nel recinto della fabbrica, a venti, trenta centimetri di profondità. Basterebbe una semplice pala per portarli alla luce», dichiarava un operaio, sotto anonimato, il 2 aprile 1988 a Il Giornale di Napoli.

Il 26 febbraio 1983 l’Isochimica ottenne dal Comune di Avellino la concessione edilizia. L’impianto si sarebbe dovuto occupare della messa in opera di isolanti chimici termo-acustici, dunque la struttura era esclusa da quelle insalubri. Nel settembre del 1986 Isochimica ricevette l’agibilità per un solo capannone, il B, realizzato in ampliamento di quello esistente. Quello dove si concretizzava la scoibentazione non risultava avere alcun permesso concernente l’agibilità: «L’Isochimica non era nelle condizioni giuridiche di svolgere la sua attività, ma né i tecnici comunali, né l’ufficiale sanitario, né alcun altro organismo di vigilanza se ne accorse», scrive Antonio Petrozziello. Nel libro c’è una cartina molto significativa, commovente; l’ha disegnata a penna l’operaio Antonio.


C’è il binario che collega alla stazione e portava le carrozze dentro allo stabilimento. A sinistra del carro ponte appare il capannone A, dove si effettuava la scoibentazione, mentre a destra il B destinato al montaggio e alle riparazioni delle carrozze che ripartivano. Accanto agli uffici amministrativi spunta l’ufficio degli ispettori delle Ferrovie dello Stato, che dovevano controllare il lavoro: «Istituito presso l’Isochimica un posto fisso di sorveglianza, che aveva il compito di seguire direttamente i lavori ed effettuare collaudi intermedi e finali sulle lavorazioni», scrive ancora Petrozziello. Poi lo spogliatoio con le docce. All’esterno i blocchi di cemento e amianto.

Ma chi è Elio Graziano, il padrone, oggi ottantenne? Si fa chiamare l’ingegnere. Amava mettere in mostra la ricchezza accumulata. A metà degli anni Ottanta comprò, con la benedizione dell’allora Procuratore capo della Repubblica avellinese, l’Avellino Calcio che in serie A dava lustro alla città, doveva sopire il dramma del terremoto. Il calcio alimentò un alone di intoccabilità intorno a Graziano. Gianni Festa, già direttore del Corriere dell’Irpinia lo ritrae così: «È il grande corruttore degli anni ’80 con legami politici non definiti ma affaristici; non si trattava di ideali politici o di partito ma di gente che insomma lo aiutava a scoibentare un po’ d’amianto».

Anna D’Ascienzo ha provato ad avvicinarlo per un’intervista. Lui, figlio di ferroviere, le ha affidato un memoriale in cui si racconta come imprenditore di successo e onesto, ripercorrendo il proprio curriculum: «Superato brillantemente il concorso di dirigente chimico presso le Ferrovie fui inviato a Firenze al laboratorio chimico tecnologico, direzione generale servizio materiale a trazione. Successivamente trasferito a Bologna come caporeparto di produzioni chimiche speciali. Io ero distaccato presso le Officine Grandi Riparazioni delle FFSS dove ho operato per 18 anni».

Nel 1968 il pre pensionato dalle FFSS Graziano tornò al Sud e aprì a Fisciano due fabbriche, poi riunite in una, IDAFF ICG Spa, che realizzavano speciali prodotti chimici destinati quasi per intero alle stesse FFSS (detergenti industriali, agenti per la sverniciatura, prodotti ignoritardanti, diserbanti per i binari). Il salto di qualità negli affari giunse nel 1979 con l’appalto da 140 miliardi di vecchie lire per la fornitura di lenzuola Tessuto non tessuto, una fibra sintetica a base di poliammidi, destinate ai treni notturni delle FFSS.

All’inizio degli Ottanta Graziano era all’apice del proprio successo con la fornitura TNT appaltata alla IDAFF e la decoibentazione all’Isochimica, garantita dal patrimonio di relazioni personali dell’imprenditore. Proprio le lenzuola, pagate a cifre fuori mercato dalle FFSS, segnarono il crollo della fortuna economica di Graziano. Uno scandalo corruttivo che condusse alle dimissioni l’intero consiglio di amministrazione delle FFSS e anticipò Tangentopoli.

D’Ascienzo spiega che il legame tra l’uomo prima dell’azienda pubblica e l’imprenditore privato poi non è scindibile: «Isochimica Spa è il risultato dei lunghi rapporti di successo e di lavoro che egli è stato in grado di costruire e gestire con le FFSS. La traiettoria economica e sociale dell’imprenditore è in uno spazio capitalistico e subalterno, legittimato da FFSS. Egli è oggetto, non soggetto, di pratiche governamentali che scandiscono i tempi del suo essere uomo di successo e criminale all’Isochimica poi».

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