sabato 25 giugno 2016

Desaparecidos: quello che cambia con il nuovo governo argentino


di Gabriele Santoro

Preoccupazione è la parola che ricorre fra le associazioni per i diritti umani, con in testa Estela de Carlotto e le Abuelas de Plaza de Mayo, per il nuovo corso dell’Argentina del presidente Mauricio Macri, paventando in modo particolare l’indebolimento del sostegno politico al processo di memoria, verdad y justicia. In un clima generale tutt’altro che disteso, la scorsa settimana a Buenos Aires la presentazione di tre libri, che ripercorrono la storia delle Abuelas, è saltata a causa di un allarme bomba all’ex Escuela De Mecanica de la Armada, oggi Espacio para la Memoria, Promoción y Defensa de los Derechos Humanos.


C’è una statistica che raffigura il percorso compiuto nell’ultimo decennio dall’Argentina per assicurare alla giustizia i criminali resesi responsabili di delitti durante la dittatura. Dal 1988 al 2005, dunque a trent’anni dal colpo di Stato, le condanne per crimini contro l’umanità, e altre fattispecie di reato, erano appena ventitré. Dal 2006 a oggi, a dieci anni dalla caduta delle leggi per l’impunità e dalla riapertura dei processi, quel numero è salito a 669 condannati e 62 assolti in seguito a 162 sentenze, la più recente delle quali nell’interessantissimo Dossier de sentencias pronunciadas en juicios de lesa humanidad en Argentina risale al 4 maggio a Rosario. Il 14 maggio del 1983 i militanti peronisti Eduardo Pereyra Rossi e Osvaldo Cambiasso furono sequestrati da militari in borghese presso il Bar Magnun, per poi essere torturati con l’elettricità in un capannone industriale. Successivamente li assassinarono, simulando uno scontro a fuoco. I loro corpi sono riemersi da una fossa comune. Per il duplice delitto il tribunale di Rosario ha condannato due poliziotti e altrettanti militari, assolvendone sei.

Sempre nel mese di maggio al Tribunal Oral en lo Criminal Federal n°1 di Buenos Aires è arrivato a destinazione dopo tre anni e sei mesi un processo chiave, storico. Sono state emesse condanne tra gli 8 e i 25 anni di reclusione per 15 dei 17 imputati. Reynaldo Bignone, il capo dell’ultima giunta militare argentina, è fra i condannati per l’Operacion Condor, l’associazione illecita transnazionale, riconosciuta dalla sentenza, dedita all’interscambio di informazioni d’intelligence, persecuzione, sequestro, tortura, omicidio e/o sparizione di dissidenti politici nel Cono Sur.

Parliamo della fragile costruzione teorica della dottrina della Sicurezza Nazionale, basata sulla dedizione completa, indiscutibile del cittadino alla nazione per il raggiungimento delle mete prefisse da potentissime strutture economiche e politiche contrarie agli interessi della grande maggioranza dell’umanità, ai principi di rispetto della dignità umana e dunque alimentate dalla strategia del terrore che superò i confini di un singolo paese per propagarsi come una malattia sociale.

Per comprendere la discrepanza statistica che intercorre tra il periodo 1988-2005 e il decennio 2006-2016, tornano utili le parole in un libro intervista (Editori riuniti/1988) dell’ex presidente Raúl Alfonsín, candidato radicale eletto nel 1983 al ripristino del sistema democratico. Alfonsín, il padre della Comisión Nacional sobre la Desaparición de Personas che mandò a giudizio le Giunte militari, rilevando l’intima ripugnanza di vasti settori militari a svolgere una funzione subordinata al potere civile, spiega la genesi della Ley de Punto Final e del principio dell’obbedienza dovuta, che circoscriveva ai vertici delle forze armate tutta la responsabilità per le violazioni dei diritti umani. Nell’intenzione del legislatore questi leggi non avrebbero costituito un oblio ma la distinzione dell’autonomia decisionale dei militari.

Insomma occorreva dare una risposta politica ai processi, agire con maggiore prudenza per non mettere a rischio la democrazia a fronte dei focolai rivoltosi dei militari, che opponevano il proprio diniego alle citazioni giudiziarie.

«A metà marzo 1987 sono giunto alla conclusione che era necessario prendere misure drastiche perché a quel punto era prevedibile che la giustizia non sarebbe stata in grado di agire entro termini tali da non esporre a un grave rischio il già disgregato sistema di gerarchie all’interno dei vertici delle forze armate con immaginabili conseguenze per il sistema costituzionale», spiegò Alfonsín.

Poi, a cavallo del Novanta, si concretizzò la stagione degli indulti di Carlos Menem, bocciati nel 2006 per incostituzionalità dalla Cámara de Casación Penal.

Attualmente sono 537 le cause penali pendenti nei tribunali federali del paese, il 30% è giunto a prima sentenza, mentre il 47% è ancora nella fase istruttoria. Tra le cause in marcia spicca il maxi procedimento Esma, cominciato nel 2012.

Il picco delle sentenze, complessivamente cinquanta, è stato raggiunto nel biennio 2012-’13. Sempre nel 2013 si è impennata la curva degli imputati condannati, trentaquattro, per violenze sessuali. Nel biennio successivo è stato registrato un calo (21 nel 2014, 20 nel 2015).

Quest’anno la giustizia argentina, nell’ambito della Megacausa Menéndez La Rioja, ha emesso la prima condanna per aborto forzato, al quale fu costretta una detenuta. In un libro essenziale per capire, Strategia del terrore: il modello brasiliano (di Ettore Biocca – De Donato editore), pubblicato due anni prima del golpe argentino, colpisce al cuore la testimonianza dell’allora ventunenne Denise Peres Crispim. Viveva in clandestinità col compagno Eduardo. Fu arrestata il 23 giugno del 1970. Era gravida di sei mesi. Il resto è la cronaca di torture psicologiche e fisiche con le incessanti minacce di aborto.

Risuonano, insieme alla cronaca, le parole di Eduardo Galeano per dirsi quanto mai sia attuale la questione del rimedio all’impunità dei regimi dispotici: «La tortura presuppone una struttura malata incapace di governare senza di essa», (Biocca/1974). Correva l’anno 2006:

«(…) Nelle sale dove si tortura, un sistema, che pratica il crimine per spogliare paesi, si toglie la maschera. I burocrati del dolore, soldati e polizie sono solo strumenti di un potere che ha bisogno della tortura per assicurarsi ed estendere i suoi confini. Un sistema atrocemente ingiusto utilizza metodi atroci per durare. Questa macchina, che si nutre di carne umana, non serve per proteggere ma per terrorizzare la popolazione. Non serve per ottenere informazioni, si pratica per prevenire ribellioni, per castigare eresie, per umiliare dignità e seminare la paura», scrisse Galeano.

Il tempo delle lacrime non è quello della giustizia. In Argentina un passaggio critico è rappresentato dagli ultimi gradi del giudizio. La Cámara Federal de Casacion Penal ha revisionato il 25% del totale delle cause, confermando tutte le condanne e revocando qualche assoluzione. All’ultima tappa, la Corte Suprema di Giustizia, la percentuale scende al 17%. I dati della Procuraduria de Crimenes contra la Humanidad sembrano smentire le accuse di giustizialismo, secondo le quali i repressori sarebbero detenuti senza criteri ed eccezioni. Il 36% dei 2354 imputati è in libertà. Del 48% che è sottoposto a misura di carcerazione preventiva, circa la metà usufruisce degli arresti domiciliari.
Fra gli attuali 57 latitanti spicca il condannato in via definitiva Jorge Antonio Olivera, sul quale il Ministerio de Justicia y Derechos Humanos ha posto una taglia da due milioni di pesos, coinvolto nella vicenda della scomparsa di Marie-Anne Erize.

Carolina Varsky è un’avvocatessa, laureata alla Facoltà di Diritto dell’Università di Buenos Aires. Per una decade ha svolto la propria professione presso il Centro de Estudios Legales y Sociales. Dall’agosto 2013, dopo l’incarico nella Procuraduria de Narcocriminalidad, è la procuratrice e coordinatrice del Procuratorato di Crimini contro l’Umanità del Ministero Público Fiscal,  un organo straordinario che gestisce non la giustizia ordinaria, bensì si focalizza sui crimini contro la vita e l’umanità, il narcotraffico.

Il MPF (Ministero Público Fiscal) non è un organo di nomina politica. Conforme alla Costituzione Nazionale Argentina, art. 120, è un organo indipendente con autonomia funzionale e autarchia finanziaria, che promuove atti di giustizia in difesa della legalità, degli interessi generali della società in coordinamento con le altre autorità della Repubblica. È guidato da un Procuratore generale della Nazione e dagli altri membri secondo legge, che godono di immunità funzionali e intangibilità di remunerazioni.

La PCCH (Procuraduria de Crimenes contra la Humanidad), che non dispone di una polizia giudiziaria, è stata presentata nel giugno del 2013, ereditando e strutturando il lavoro della Unidad de coordinacion y seguimiento de los causas por la violacion a los derechos humanos, messa in funzione nel 2007 dal procuratore Esteban Righi. L’attività di collaborazione della Procura è anche internazionale, inclusa l’Italia, per sostenere indagini e procedimenti che interessano alla giustizia argentina.

Varsky, è corretto sostenere che negli ultimi anni l’Argentina sia stata all’avanguardia, se la compariamo alla Germania o alla Spagna con i franchisti, nella battaglia pubblica per il riconoscimento delle responsabilità penali individuali negli anni della dittatura?
«Assolutamente sì. E sottolineo che i crimini del Franchismo vengono investigati anche in Argentina con l’applicazione del principio di giurisdizione universale».

Le Abuelas de Plaza de Mayo denunciano il depotenziamento di aree sensibili del Ministerio de Seguridad de la Nación, dedicate al sostegno delle politiche per i diritti umani, e hanno lanciato un allarme sulla disarticolazione del Grupo Especializado de Asistencia Judicial (GEAJ). Che cosa succede a oltre sei mesi dall’insediamento del presidente Macri?
«Sì, anche noi avvertiamo cambiamenti enormi, non solo per lo smantellamento di questo ufficio, ma anche per lo svuotamento di altri uffici nell’ambito dello stesso Ministero per la Sicurezza, nella Segreteria dei Diritti Umani. Si percepiscono cambiamenti nell’Unità del DDHH del Consiglio della Magistratura e della Corte Suprema di Giustizia. Posso solo dire che il nuovo governo, in conformità con la sospensione dell’implementazione della nuova legge del Ministero, ha diminuito gli investimenti. Le inquietudini per il clima, creato da questa volontà politica, sono state discusse e analizzate nell’ultimo incontro convocato da questa PCCH nell’aprile scorso».

Il sistema di relazioni, le complicità, aperte o nascoste, tessute per molti decenni per fare in modo che tutto fosse dimenticato sono ancora attive e quale potere esprimono?
«Continuano a essere attive e negli ultimi mesi sono cresciute. Tale situazione è visibile mediante svariate pubblicazioni sui quotidiani di diffusione nazionale. Le organizzazioni, che difendono gli imputati, hanno tenuto riunioni con funzionari politici, ponendo come questione centrale l’assenza per i loro clienti delle garanzie processuali. Sarebbero giudicati senza il rispetto delle prerogative della difesa. Lamentano di essere trattenuti in carcere, anche quando ritengono che potrebbero beneficiare degli arresti domiciliari. Negli ultimi anni hanno presentato ricorsi al sistema interamericano del DDHH».

Qual è la traccia più profonda del terrorismo di Stato tuttora ravvisabile nella società argentina?
«Non è soltanto una questione che concerne i sopravvissuti o i familiari delle vittime, anche se si cerca di addossare a loro ogni cosa. Le conseguenze della dittatura si avvertono nella vita quotidiana. Per esempio alcuni funzionari pubblici, non solo quelli appartenenti alle forze militari o di sicurezza, sono persone collegate e denunciate per crimini riguardanti il periodo della dittatura».

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giovedì 23 giugno 2016

Teju Cole a Roma con il Punto d'ombra: «Le poesie tra parole e fotografie»

Il Messaggero, sezione Tutta Roma Agenda, pag. 64
23 giugno 2016

di Gabriele Santoro


Teju Cole e Gabriele Santoro
Courtesy photo: 2016 Rino Bianchi
di Gabriele Santoro

Teju Cole, scrittore, fotografo e critico per il New York Times, una delle voci più interessanti della letteratura e delle arti d'oltreoceano, sarà il protagonista della terza serata del Festival Letterature, organizzata con l'Ambasciata degli Stati Uniti e l'American Academy, presso la Basilica di Massenzio (ingresso dalle ore 20.30). L'autore d'origine nigeriana, classe 1975, che, dopo l'esordio brillante di Ogni giorno è per il ladro, un ritorno alle proprie origini, ha stregato la critica e i lettori su scala mondiale con il libro bellissimo Città aperta, leggerà un testo inedito dal titolo Memoria e uguaglianza. Cole dividerà il palco con Wu Ming 2 e 4 e Vitaliano Trevisan, accompagnati dalla musica di Mokadelic. La casa editrice Contrasto ha da poco pubblicato un nuovo lavoro di Cole: un diario visivo che testimonia le sue peregrinazioni nel mondo e ne offre la cifra stilistica.

Cole, nel memoir Punto d'ombra scrive che utilizza la macchina fotografica come un'estensione della memoria. Qual è la relazione creativa con la scrittura?
«Questo libro assomiglia a una raccolta di poesie, alla quale chiediamo innanzitutto se abbia espresso la verità. Le foto non sono manipolate. Mi interessa creare un momento, un luogo dove avvenga qualcosa di intenso. Foto e parole emettono vibrazioni differenti, che metto insieme. Il sentimento, la storia e la fotografia sono reali, ma la costruzione della relazione fra di esse è costruita come una poesia».

In che modo sappiamo quando un fotografo ci immerge, procaccia la vita e non riproduce pregiudizi preesistenti?
«La fotografia mantiene una grande potenza quale forza di testimonianza, ma sappiamo che può mentire tanto con l'analogico quanto col digitale. Per il fotografo credo sia più importante la ricerca della giustizia rispetto alla neutralità, che è il linguaggio del potere. La questione è complessa, tuttavia occorre affrontarla. Più che Photoshop, il problema consiste nella mancanza di immaginazione nel mostrare con attenzione e rispetto la vita. Recentemente ho trascorso tre settimane in Libano e la presenza dei rifugiati siriani rappresentava anche un'occasione per un reportage fotografico. La sfida che dovremmo porci è trovare nuove modalità per raccontare fuori dal circuito economico censorio delle immagini».

A proposito del Libano, in Punto d'ombra lei rivela l'ammirazione per Gabriele Basilico.
«Sì, è uno dei fotografi che più ammiro. Mi ha fornito la risposta alla nozione del ritrarre uno spazio vuoto. La figura umana con Basilico sa attivare lo spazio, e quand'anche questa sia assente lo stesso spazio emana energia. Ho pensato molto al suo lavoro rispettoso delle rovine di Beirut».

Il cosmopolitismo è un tratto fondamentale della sua biografia e prende sostanza nei suoi scritti. In un mondo così individualista e pieno di dolore, quali condizioni consentono la conversazione fra diversi?
«Il senso dell'uguaglianza fra gli interlocutori: non parliamo a, ma con. Il discorso deve essere inclusivo oltre le differenze. L'uguaglianza, letteralmente intesa, fra le persone è la condizione irrinunciabile».

Ha commentato l'elezione del nuovo sindaco di Londra, Sadiq Khan, musulmano cosmopolita, dicendo: «I simboli sono importanti, ma vediamolo all'opera». Per che cosa ricorderemo Obama?
«È stato un presidente migliore di chi lo ha preceduto, ma credo avrebbe potuto fare di più. Obama è l'espressione massima del pensiero neoliberale. Il nodo centrale irrisolto è la guerra senza fine. Sarà ricordato come il primo presidente nero, per il suo stile molto attrattivo ma anche per l'espansione dei poteri presidenziali che si riverberà sulla prossima elezione».

mercoledì 15 giugno 2016

Il sogno di Verdad


di Gabriele Santoro

«È stato un sogno», disse l’anarchica Soler a Paolo Gobetti, già presidente dell’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza, che raccoglieva testimonianze preziose sulla guerra civile spagnola. Quel sogno di giustizia e libertà Lorena Canottiere, autrice e illustratrice che lavora con le maggiori case editrici italiane, l’ha disegnato nelle tavole struggenti della graphic novel Verdad (Coconino Press/Fandango, 160 pagine a colori, 19 euro).


Verdad è una giovane donna, che ha imparato a ribellarsi. Una ribellione che poi non conosce il compromesso. Il suo ideale non è stato reciso dall’abisso della storia. Canottiere ci presenta la protagonista, una bambina di otto anni che vive insieme alla nonna in un paesino sui Pirenei. Sfoglia curiosa l’album di famiglia, quasi alla ricerca delle ragioni della propria inquietudine precoce. Di sua madre sa poco. Lei se n’è andata alla ricerca di un’altra vita a Monte Verità, in Svizzera, sulle rive del Lago Maggiore. Una comune anarchica organizzata su base matriarcale dove all’inizio del Novecento si praticavano il vegetalianesimo, il nudismo e l’amore libero, e dove intellettuali e artisti come Otto Gross, Bakunin, Hermann Hesse si ritrovarono per coltivare il sogno di una società più libera e più giusta.

All’età in cui si comincia a scegliere senza ritorno, Verdad va alla guerra sostenuta dalla vividezza, dalla pienezza, dal romanticismo dell’idea di costruire la storia e di cambiare il mondo. Allo scoppio della guerra civile giunge a Barcellona per combattere con le Brigate internazionali contro il fascismo. Durante un assalto resta gravemente ferita da una bomba. Quel braccio mutilato racconta l’esigenza, il diritto di una donna di essere soggetto della storia e non solo vittima. La narrazione musicale di Canottiere in fondo dà il segno di una grande rottura: il comportamento della donna miliziana durante la guerra, questione centrale nella vicenda spagnola, nella lotta antifranchista. Rompere con la propria immagine di donna per costruirne una nuova.


L’autrice nel brillante uso dei colori ha attinto alla funzione comunicativa e persuasiva dell’iconografia repubblicana: immagini e colori vivaci che animarono la resistenza da Madrid a Barcellona.

A ventisei anni deve fare già i conti con una storia sbagliata, con un regime, quello franchista, che per decenni riuscirà a ingabbiare la società. La clandestinità è l’unico rimedio, che lenisce le ferite di Verdad.

Lorena, la narrazione non è lineare, si caratterizza per i salti temporali, andate e ritorni. Come dialogano disegno e scrittura?
«Dipende, è sempre una questione singolare, molto legata al libro in sé. C’è sempre una stratificazione di influenze, di storie che si vogliono raccontare e che si incastrano con altre suggestioni, ricordi. Poi la storia si sedimenta. Oche, il mio lavoro precedente, aveva una linearità, un metodo classico nella costruzione. Essendo autrice non devo preoccuparmi di affidare, di far capire il soggetto a chi si occupa della sceneggiatura. In realtà quattro anni fa non avevo maturato subito l’idea originale di ritrarre una storia nella guerra di Spagna. È un’urgenza subentrata in un secondo momento, stravolgendo un altro soggetto considerato.

Invidio un po’ gli autori che riescono a partire dall’inizio per giungere alla fine, senza fare salti temporali. Ho bisogno di scrivere storie più stratificate. Prima di scrivere arrivo alla saturazione degli elementi che vorrei farci entrare. Ho cominciato a scrivere a blocchi, a sequenze, che solo successivamente hanno trovato un proprio ordine. La prima sequenza è quella in cui Verdad da piccola chiede alla nonna che cos’è Monte Verità. Quella sequenza è nata per immagini con Verdad in questa casa di montagna, dove entra poca luce. L’architettura rurale mi ha dato una suggestione di partenza. Ovviamente per non perdermi seguivo una sorta di scaletta, ma quando poi ho dovuto mettere in ordine tutte le immagini per mandarle in stampa…».

In che modo si è rapportata all’estetica che distingueva il movimento anarchico spagnolo?
«All’inizio anche la scelta del colore è stata molto istintiva, non sapevo spiegarmela. Ora, essendo riuscita in parte a razionalizzare il lavoro, mi rendo conto che è venuta dalle stampe dell’epoca. Le stampe della propaganda erano quasi tutte serigrafie e c’era l’uso del colore serigrafico: due, tre colori con sempre un colore che si sovrapponeva a un altro. Ero certa di non voler utilizzare il nero. Immaginavo il rosso e il giallo, poi si è aggiunto il blu ed è stato proprio il completamento di quella tecnica lì. Mentre l’adottavo ho capito che sarebbe stata quella giusta».


La graphic novel raffigura anche una rottura fra le donne di una famiglia, che coinvolge tre generazioni. C’è qualcosa di autobiografico?
«In qualche modo sì. Provengo da una famiglia contadina, che abitava in un paesino. Ho vissuto a lungo con i miei nonni. Mia madre era la rivoluzionaria, colei che se n’è andata. Ha fatto delle scelte che non sono state apprezzate e accettate. Io non sono Verdad, ma mi piaceva far vedere, contrapporre l’estrema dolcezza di questa piccola bambina a contatto da subito con una situazione molto ruvida: il paesino piccolo dove nulla è permesso, tutto viene giudicato, non c’è intimità, né il rispetto delle identità, dell’umanità di ciascuno».

Gli animali e la natura appaiono determinanti ai fini della narrazione, anzi sono narrazione.
«La natura è molto presente nel libro sia nella parte dell’infanzia sia nel finale, diventando un personaggio. La natura è sempre selvaggia, misteriosa come nelle favole, ed è un punto di appoggio per Verdad. Lo scambio è simbolico, le consente di non rinnegarsi, di affrontare la solitudine, che sceglie, col sollievo della montagna che è il suo ambiente, da cui arriva e si rifugia».

E la volpe?
«L’incontro da piccola con questa volpe vecchia le dona il primo libro. La leggenda della volpe vecchia raffigura una donna, che esce dagli schemi del paese ed è costretta ad abbandonarlo insieme al compagno. Come tutte le donne, che vivevano in maniera differente, veniva additata come strega, portatrice di sfortuna alla comunità perché non si adeguava. La volpe è un simbolo selvatico rappresentativo della non omologazione alla quale si ispira e muove Verdad».

Giunta a Barcellona per arruolarsi, Verdad, incontra combattenti sui generis, un’umanità in quel contesto per lei inattesa che caratterizzò lo spontaneismo degli anarchici: «Soldati che eseguono ordini…quelli sono i fascisti! Io no. Mentre che sei lì che prendi la mira, smetti di pensare? Smetti di essere un uomo? No!» Ritroviamo molta dell’atmosfera rivoluzionaria riportata da George Orwell in Omaggio alla Catalogna, il suo miglior libro. In particolare quali letture hanno influito?
«Per capire l’epoca e i fatti, la fase di documentazione è stata molto lunga e non ha riguardato solo i testi scritti ma anche l’iconografia. Ho cercato tutto: Barcellona, le varie battaglie, le divise. Nella scena in cui si presenta e pranza insieme ai nuovi compagni, cerco di spiegare l’atmosfera, che cosa succedeva nella Barcellona della collettivizzazione, come funzionava. Una città molto grande che in quel momento era completamente autogestita. Ho cercato di descrivere lo spirito delle persone che combattevano nelle milizie. E soprattutto nella fazione anarchica. C’è un’estetica di vividezza in tutto quello che animava il mondo anarchico. Le persone che lottano senza perdere l’umanità, l’ironia, il piacere di stare con gli altri».

Verdad come si pone nel crinale determinante tra il cercare di vincere la guerra civile e la rivoluzione?
«Il rapporto tra guerra e rivoluzione costituisce il principale nodo problematico, che gli anarchici affrontarono tra le due guerre mondiali. Le tensioni che ne scaturirono sul piano strategico raggiunsero l’apice proprio durante la guerra di Spagna. Lei ha molte sfaccettature, è una figura che assume la complessità degli schieramenti, è consapevole di vivere l’attrito tra l’ideale e il reale, la divaricazione tra guerra e rivoluzione, fino alla stroncatura di quest’ultima. Quel che la domina è la fede nella libertà e nell’utopia di un rinnovamento dell’uomo, della società che doveva passare da un impegno innanzitutto culturale».


La tavola bellissima, che prende pagina 103, dà la misura della drammaticità di quella sconfitta, tanto grande quanto la promessa di riscatto. Verdad sembra volersi mimetizzare nella montagna: «Non riesco a cambiar rotta, forse sono stupida, non riesco a salvarmi la pelle, a curarmi l’anima», dice.
«È facile oggi, per chi ha lottato una vita, avvertire quel senso di smarrimento. Verdad ha la sensazione di aver combattuto per un mondo che non ha posto per lei, per la sua esigenza. È una condizione in cui mi immedesimo spesso. A dispetto del suo nome non ha verità in tasca, è sempre tormentata dal dubbio. La sua non è una resa incondizionata. Sceglie di non tirarsi indietro, pur quando la sua storia individuale sembra fuori dal corso degli eventi. Equivale al non arrendersi alla storia scritta dai vincitori. Quel disegno accompagnato da poche parole rappresenta proprio questo».

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sabato 11 giugno 2016

Letterature torna a Massenzio, apre Hakan Günday: memorie migranti

Il Messaggero, sezione Tutta Roma Agenda, pag. 56
11 giugno 2016

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

«Il nostro paese è un ponte antico, con un piede scalzo a Oriente e l'altro infilato in una scarpa a Occidente, da cui transita qualsiasi merce illegale. Per il nostro ventre passa ogni cosa. Specialmente gli uomini chiamati clandestini...E noi facciamo del nostro meglio...Li ingoiamo e, per non strozzarci, li mandiamo via. Un commercio tra un confine e un altro...Da un muro all'altro...», leggiamo nelle prime pagine necessarie di Ancóra.

Sarà l'autore, il turco Hakan Günday, ad aprire martedì la quindicesima edizione del Festival Internazionale Letterature, che dopo due anni torna nella sede originale della Basilica di Massenzio. Memorie è la parola chiave, il filo conduttore della rassegna. Günday proporrà un testo inedito, che racconta storie di profughi siriani, il loro viaggio attraverso la Turchia. Con lui sul palco interverrà Claudio Magris, che ha scritto qualcosa sulla schiavitù nella contemporaneità. Ad accompagnarli nelle letture Laura Morante e la musicista Rita Marcotulli.

Giovedì, Massenzio celebrerà con Andrea Camilleri il suo centesimo libro. Lella Costa guiderà il dialogo fra lo scrittore e Renzo Arbore. Anche l'intervento di Camilleri verterà sull'emigrazione, nel caso personale dalla Sicilia a Roma. Il primo giorno d'estate toccherà al candidato al Premio Strega, Edoardo Albinati, insieme a Giancarlo De Cataldo ed Eshkol Nevo.

Il Festival, in un periodo così travagliato per l'amministrazione capitolina, ha ottenuto il via libera definitivo solo negli ultimi giorni, ma come segnala la curatrice Maria Ida Gaeta il programma era blindato da tempo: «Questa edizione mantiene il tratto caratteristico della manifestazione: una presenza internazionale rilevante. Nonostante le difficoltà che affliggono la vita culturale della città, ci siamo». L'ingresso alle serate è come da tradizione gratuito. Occorre ritirare, dalle 20 di ciascuna serata, un tagliando d'ingresso al botteghino per uno dei circa 1500 posti di Massenzio.

A proposito delle presenze internazionali, il 5 luglio arriverà non a bordo del surf il fresco Premio Pulitzer William Finnegan con i suoi Giorni selvaggi (66thand2nd). Nella stessa serata presenzieranno gli autori candidati alla terza edizione del Premio Strega Europeo: Cartarescu, Ernaux, Hudson, Rothmann e Menéndez Salmón. Ad anticiparli nell'ultimo scorcio di giugno Teju Cole, Wu Ming 2 e 4, Vitaliano Trevisan, Simonetta Agnello Hornby e la siriana, scrittrice e architetta, Suad Amiry. L'editore Fazi porta in Italia un fenomeno editoriale francese, Yeruldelgger, il noir insolito, ambientato in Mongolia, di Ian Manook. Condividerà la scena con Sandro Veronesi.

La serata del 4 luglio insieme a Clara Sanchez la rassegna omaggerà la scrittrice americana Lucia Berlin con una maratona di letture. A concludere Letterature sarà Dorit Rabinyan col suo potente Borderlife, una storia d'amore tra un'israeliana e un palestinese. Del romanzo, i cui diritti sono stati venduti in tutti il mondo (Longanesi per l'Italia), ha scritto Amos Oz: «Sono rimasto impressionato. Anche la tragedia asimmetrica di due popoli non schiaccia, non sovrasta questa elegante storia d'amore, raffigurata da una penna raffinata».

martedì 7 giugno 2016

Nicola Pietrangeli racconta la Coppa Davis '76


di Gabriele Santoro

La vittoria della prima e finora unica Coppa Davis per l’Italia è stata una felicità triste. A quarant’anni di distanza da Santiago del Cile, Nicola Pietrangeli definisce così il successo e racconta a Minima et moralia quel viaggio complesso, cominciando da un episodio inedito: «All’inizio sulla targa della Coppa Davis, dove c’è scritto 1976, Italia, apparivano solo i nomi dei quattro giocatori. Sarebbe stata l’unica coppa che non citava anche il capitano. La mostrai al Presidente della Federazione Internazionale, che in cinque minuti rimediò allo sgarbo. Questo per far capire l’atmosfera che regnava nei rapporti fra me e il presidente della Federtennis italiana».


Paolo Galgani si ritrovò fra le mani qualcosa di prezioso, che non aveva contribuito a costruire. Diventato la guida del movimento tennistico nazionale, dopo l’uscita di scena di Giorgio Neri, danzò con interessata ambiguità nel clima scandito dalle grida: «Non si giocano volée contro il boia Pinochet!» Sono partiti solo perché io ancora non ero stato eletto, diceva l’avvocato fiorentino. Accadde una settimana dopo la partenza, poi è stato per un ventennio il presidente della Coppa Davis.

Pietrangeli rievoca un’altra scena, accennando qualcosa sull’essere classe dirigente in Italia: «In Cile Galgani comunicò a me e alla squadra che non avremmo partecipato al pranzo ufficiale. Si trattava di un affronto alla Federazione Internazionale, che minacciò di squalificarci per tre anni dalla Davis. L’ultimo giorno, quando è stata scattata la fotografia della premiazione, lo speaker annunciò la squadra vincitrice. In quel momento vedemmo riapparire il presidente, fino ad allora vestitosi sempre fin troppo casual, in giacca, cravatta e distintivo. Piombò in campo e si avvicinò alla Davis. Il Presidente della Federazione Internazionale la prese e me la consegnò: “La do a Nicola”. Lì sono cominciati i miei guai. Ho imparato che, soprattutto in Italia, le vittorie hanno molti genitori, mentre le sconfitte sono tutte orfane».

Negli anni della dittatura cilena non abbiamo smesso di importare il rame e c’erano le Fiat da vendere. Ma loro no, quell’unione di talenti non sarebbe dovuta partire, avrebbero dovuto rinunciare a quel che amavano fare in nome di una sorta di resistenza passiva che non assomigliava alla vita.
In libreria c’è Sei chiodi storti (66thand2nd, 150 pagine, 17 euro), firmato dal giornalista Dario Cresto-Dina, un racconto polifonico di un sabato pomeriggio dolce amaro, il 18 dicembre 1976, che si fa ritratto personale e collettivo di una generazione, di un talento tecnico «che mai prima e mai dopo si è trovato tutto assieme così denso e composito in un gruppo e in una stagione: superbia, distacco, poesia, sacrificio e rabbia». La straordinaria coppia di doppio composta da Panatta e Bertolucci regolò in quattro set Cornejo e Fillol. Loro come l’altra metà del cielo azzurro, Tonino Zugarelli e Corrado Barazzutti con Pietrangeli, hanno affidato a Cresto-Dina le sensazioni, le memorie e la propria versione dei fatti, che coincide almeno in un punto: è stato giusto partire per il Cile. Nel caso contrario il regime pinochetista avrebbe celebrato, si sarebbe intestato un titolo del tutto immeritato. L’Italia concluse quell’edizione della Davis con 25 partite vinte e appena 4 sconfitte.

Quel dono all’esistente che è stato Johan Cruiyff, quanto avrebbe voluto incantare per una frazione di pace oltre la vergogna degli assassini della giunta militare argentina? Cruiyff, come egli stesso raccontò, non partecipò al mondiale 1978, a causa di un tentativo di sequestro di cui fu vittima la famiglia a Barcellona. Dunque la scelta non avrebbe avuto alcuna connotazione politica. Chissà con Cruiyff ai tempi supplementari la finale Argentina-Olanda all’Estadio Monumental sarebbe finita diversamente, arginando la propaganda, l’autolegittimazione vana di un regime, infine l’usurpazione del gioco. Cambiando campo, scenario, in fondo Raul Barandiaran e i rugbisti di Mar del Plata hanno difeso anche la libertà di continuare a giocare con la palla ovale.

Raulito calciava forte e con precisione la palla ovale. Un drop che non mirava ai pali, cercava il cielo. La dittatura militare aveva strappato uno a uno i fiori di campo, ribelli, della squadra di rugby La Plata. I torturatori si erano accaniti con ferocia vana sui corpi e sui cuori resistenti dei campioni. I bravi ragazzi del burbero sciancato Hugo Passarella alla fine hanno vinto nel segno di una resistenza vitale. Dal campionato non si sono ritirati; non sono scappati: per ogni titolare ucciso entrava una promessa del vivaio fino alla sconfitta del regime. A Barandarian è toccato il destino di chi sopravvive. A noi la fortuna di ascoltarlo.

Ma resta la domanda di fondo: lo sport se, quando e come dovrebbe fermarsi? Correva l’anno 1976 e Pietrangeli aveva le idee chiare nel merito della questione spinosa. Lea Pericoli, che è stata con lui anche a Santiago, dice che perdere quella Davis lo avrebbe sfregiato. Adriano Panatta non smette di ringraziarlo per averli portati in Cile. L’unico merito che “Er Francia”, così ribattezzarono il tredicenne Nicola a Piazza di Spagna, lui nato a Tunisi da madre russa e padre italiano, si prende in quel successo, che ha dialogato con virtù e dolori propri della solitudine.

In Sei chiodi storti, quelli che Panatta portava con sé per scaramanzia, Pietrangeli ricorda così la buona notizia di Ascenzietto: «Sapevo poco di Barazzutti e Zugarelli, qualcosa in più di Bertolucci. Panatta invece si può dire che lo avevo visto nascere. Il padre Ascenzio era il custode del Circolo Parioli e anche un amico per quella banda di adolescenti padrona del club e della quale facevo parte. Un giorno arriva tutto trafelato e dice: “Ao’ me nasce un fijo”. Ascenzietto automaticamente. Poi mi trasferii all’Eur e lo dimenticai fino a quando il maestro Simon Giordano mi porta in campo un ragazzino che, assicura, riuscirà a stupirmi. Cominciamo a palleggiare e dopo un paio di colpi lui scende a rete. Gli dico: “Ehi vacci piano, fammi riscaldare”. E lui: “Quando famo la partita?” Dieci anni dopo mi strapperà il titolo italiano».

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