venerdì 29 luglio 2016

mercoledì 27 luglio 2016

La lezione di volo dei Fratelli Wright


di Gabriele Santoro

«Successo quattro voli giovedì mattina tutti contro vento trentatré chilometri partiti da terra solo con potere motore velocità media cinquanta chilometri orari più lungo cinquantasette secondi informa la stampa torniamo», recitava il telegramma dei fratelli Wright. Correva l’anno 1903, era una gelida mattina di dicembre, quando il testimone oculare John T. Daniels raccolse in una fotografia la ricerca della sensazione che l’uomo anelava da secoli. Il Flyer, la creatura di Orville e Wilbur Wright, volò al quarto test con quest’ultimo a bordo poco più di ottocento metri in aria, arrivando a una distanza di duecentosessanta metri sul terreno in 59 secondi.


Dopo quattro anni di studi, di dialettica tra teoria ed esperienza pratica, di costante messa in discussione, avevano maturato la consapevolezza di aver intrapreso la strada giusta, che avrebbe rivoluzionato il modo di muoversi, di comunicare, di propagare la guerra, che significava globalizzazione in anticipo sul nostro stupore tecnologico. Tra il 1900 e il 1903 le spese dei fratelli per materiali, viaggi tra l’hangar costruito nella ventosa e remota Kitty Hawk, sugli Outer Banks nella North Carolina, e la natia Dayton in Ohio ammontavano a meno di mille dollari, sovvenzionati  con i guadagni della loro impresa di biciclette. Erano considerati un po’ svitati, trascurati dalla stampa e dal governo statunitense che con il denaro pubblico investiva cifre decuplicate in progetti affondati puntualmente al decollo.

Agli albori del millecinquecento l’ingegnere Leonardo da Vinci era animato dall’idea che il volo umano fosse possibile mediante l’imitazione meccanica della natura. Osservava il volo degli uccelli, lo disegnava. Come racconta David McCullough nella interessante e acclamata biografia I fratelli Wright (Nutrimenti, 444 pagine, 19 euro, traduzione curata da Dora Di Marco), che è anche saggio di alta qualità, accadde qualcosa di simile in una cittadina di provincia d’oltreoceano, in un’epoca ricca di invenzioni e innovazioni tecniche.

Era una stagione di piena occupazione, senza debito, quando George Eastman presentava la macchina fotografica a cassetta Kodak, Singer la prima macchina da cucire elettrica e la Otis aveva installato il primo ascensore in un edificio a New York. A Dayton la necessità d’inventare era il verbo. La cittadina si classificò al primo posto nel Paese nel rapporto tra abitanti e creazione di brevetti. Il 22 maggio 1906 venne emesso il brevetto, numero 821.393, per il Flyer. Tre anni prima avevano depositato la richiesta per la loro macchina volante, il suo sistema di torsione delle ali, la novità fondamentale, e il timone.

Citando Delacroix, McCullough, classe 1933, storico e saggista due volte vincitore del Premio Pulitzer e del National Book Award, a proposito del suo mestiere dice: «Quel che chiedo è l’accuratezza in ragione, per amore dell’immaginazione». I suoi lavori si fondano su un’amplissima fase di documentazione. Ha impiegato dieci anni per scrivere la biografia del presidente Harry Truman, che gli è valsa il Pulitzer nel 1992. Poi ha raddoppiato nel 2002 con quella sul secondo presidente, John Adams. Spiega di lavorare non sul, ma nel libro. La documentazione corrisponde soprattutto all’esigenza di calarsi nell’epoca che raffigura: «La sfida grandiosa nello scrivere una storia o una biografia non sta tanto nella ricerca. La cosa più difficile è catturare la tensione e la drammaturgia degli eventi». Ed è ciò che ha fatto anche con I fratelli Wright, riuscendo con la scrittura a restituire vita piena all’ambizione, alle paure, alle speranze ed emozioni di quelle due esistenze.

A Yale lo scrittore studiò ritrattistica, e non ha mai smesso di preparare schizzi e dipingere. Sostiene che nulla può prescindere da o prendere il posto di lettere e diari, che costituiscono il corpus portante nella ricerca sugli Wright, affinché un ritratto entri nell’anima. McCullough, già presidente dell’American Society of Historians, ha pubblicato il primo libro nel 1968, The Johnstown Flood, per poi diventare uno dei più celebrati biografi dei presidenti statunitensi. È stato insignito della Presidential Medal of Freedom, creata proprio da Truman dopo la Seconda Guerra Mondiale, il più alto riconoscimento per un civile. Durante la sua carriera ha conosciuto sei presidenti, Jimmy Carter è stato il primo.

Non ha mai dimenticato la natia Pittsburgh, dove ha sostenuto anche economicamente servizi per l’istruzione pubblica. Ha sempre battuto a macchina i suoi testi con la fidata Royal. All’inizio del Novecento la McCullough Electric Co fu l’avventura di famiglia, di discendenza scozzese-irlandese,  non affossata dal crollo del ’29. Padre e nonno si erano ritirati per tempo da Wall Street. Nel 1995 in occasione della cerimonia di consegna del National Book Award l’autore ha scandito quel che è il segno lasciato dalle sue opere: «Stiamo smarrendo la nostra storia, dimenticando chi siamo e per che cosa siamo venuti. Abbiamo bisogno di testi e biografie migliori per una nazione che sta diventando illetterata sulla storia. Essere indifferenti alla storia non è solo ignoranza. È una forma di ingratitudine, che non consente di commisurare la propria vita».

La famiglia Wright, mediante la quale McCullough parla di un Paese, non era ricca, ma istruita. Il pastore evangelista Milton Wright trasmise, costruendo in una casa modesta una fornitissima libreria, la cultura della lettura che considerava ben più decisiva di quella scolastica. La sorella Katharine fu l’unica laureata in casa. McCullough scrive che il talento dei ragazzi nel campo della meccanica veniva direttamente dalla madre.

Nell’estate del 1896 una febbre tiroidea stava per uccidere l’allora venticinquenne Orville. Durante la convalescenza Wilbur lo intrattenne con letture ad alta voce degli scritti del tedesco appassionato di alianti Otto Lilienthal. La tragica fine in volo di Lilienthal risvegliò un sogno mai sopito dall’infanzia dei due: la locomozione aerea, risolvere il problema del volo era una missione. Molti anni prima tutto era cominciato con un giocattolo, un piccolo elicottero di Pénaud arrivato dalla Francia. Si rivolsero all’autorità scientifica, la Smithsonian Institution di Washington, per conoscere la bibliografia del noto e attrezzarsi per accedere all’ignoto.

Imparare il segreto del volo da un uccello, diceva Orville. Sulle dune di Kitty Hawk dedicarono ore a studiare il movimento di aquile, falchi, avvoltoi e riempirono quaderni con appunti e disegni. L’arte di usare il vento, il miracolo degli uccelli: «Ci riempe di stupore l’abilità meravigliosa con cui sono usate le ali degli uccelli», spiegò Wilbur a Chicago nel consesso della Western Society of Engineers. Rispetto ai predecessori, come l’ammirato Lilienthal, compresero che l’equilibrio costituiva il fattore di maggiore importanza. La complessità era rimanere in aria, occorreva dunque bilanciare la macchina in aria.

Per avere successo con una macchina volante, l’abilità consisteva nel cavalcare il vento, dunque mantenere l’equilibrio e sterzare nell’aria. Progettarono e costruirono un tunnel del vento in scala, che si sarebbe rivelato decisivo per provare superfici veliche, fissando bilanciamenti e i profili alari. Modelli di metallo che illustrarono come procedere nella costruzione delle versioni del Flyer. Facevano andare la macchina da cucire. Predisposero un unico timone mobile con l’operatore steso sul ventre, che avrebbe gestito sia il timone sia le ali per mezzo di un nuovo sostegno per le anche. Erano inseparabili, lavoravano in due, ma per quel che è possibile erano inclini agli scambi di conoscenze con la comunità scientifica.

Alla mancata risposta dei costruttori automobilistici, Charlie Taylor, aiutante nella bottega della Wright Cycle Company, sopperì creando in casa il primo motore: 4 cilindri, potenza di otto cavalli, sessantanove chilogrammi per sostenere un totale di trecentosei chilogrammi. Il piccolo motore a benzina e la grande sfida della progettazione delle eliche mai costruite prime.

Nell’estate del 1899 in una stanza al piano di sopra del negozio di biciclette i fratelli iniziarono a costruire il loro primo velivolo, un aquilone fatto di bambù spezzato e carta con un’apertura alare di un metro e mezzo. Era un biplano e l’operatore a terra poteva controllare la curvatura delle ali. Sostenevano che contava soprattutto fare esperienza dell’aria, stare in volo più ore possibili per sviluppare l’abilità. Il Flyer del 1905, il primo vero aeroplano al mondo, prese il volo da un’altra piattaforma ricercata e attrezzata da loro, Huffman Prairie, con Orville in cabina di comando. Il calendario segnava 29 settembre 1905, volò per quasi venti chilometri in un tempo di venti minuti. Qualche giorno più tardi Wilbur ne percorse trentotto in trentanove minuti. I fratelli avevano investito anche nella fotografia, dotandosi di apparecchi costosi, come un elemento essenziale per i loro esperimenti in volo.

L’apicoltore di successo Amos Ives Root assistette alla magia di Huffman Prairie, aggiungendo: «Non erano solo quel tipo di persone che amano i macchinari, ma erano interessati nei moderni sviluppi di scienza e arte». Wilbur, dotato di spiccato spirito imprenditoriale e notevole ingegno meccanico, durante il primo soggiorno parigino visitò quindici volte il Louvre.

Di particolare interesse, in quel che McCullough ricostruisce, c’è la delicata fase di passaggio dalla scoperta alla sua commercializzazione. Il 18 gennaio 1905 scrissero al segretario alla guerra statunitense William Howard Taft, proponendo l’affidabilità della macchina volante. In nove anni si registrò una sola rottura meccanica in volo. Ricevettero un rifiuto formale. Un ufficiale della sezione mongolfiere dell’esercito britannico, il tenente colonnello John Edward Capper, si presentò invece a Dayton e non esitò a informare i fratelli che era venuto su richiesta del suo governo.

Poi si mosse Parigi. Arnold Fordyce rappresentava un’associazione di ricchi uomini di affari, ma a decidere sarebbe stato l’esercito francese. La Germania offrì 500mila dollari per 50 Flyer e i fratelli accettarono che la Flint & Company facesse da agente commerciale. L’8 febbraio 1908 la loro offerta di venticinquemila dollari per un Flyer fu finalmente accettata dal Dipartimento della guerra statunitense. Meno di un mese dopo il 3 marzo firmarono un contratto con un’azienda francese che sarebbe diventata nota come Compagnie générale de navigation aérienne. Proprio Oltralpe, sul Camp d’Avours a Le Mans, l’8 agosto dello stesso anno arrivò la consacrazione mondiale del Flyer. Sulle tribune erano assiepate meno di centocinquanta persone ancora dominate dallo scetticismo. Wilbur, fluttuando nell’aria, lasciò spazio solo all’incanto o per dirla con le sue parole: «E più di ogni altra cosa è la sensazione di pace assoluta, mista con l’emozione che tende al massimo ogni nervo».

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martedì 12 luglio 2016

Manook racconta il successo di Yeruldelgger: «Io, cittadino del mondo in noir»

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 23
12 luglio 2016

di Gabriele Santoro



di Gabriele Santoro

Patrick Manoukian, classe 1949, è un figlio dell'emigrazione, della diasporta armena in Francia. Cresciuto a Meudon, sobborgo a sudovest di Parigi, in una famiglia operaia è stato uno scrittore prolifico fin dall'adolescenza, ma non aveva pubblicato nulla fino al 2013, quando la casa editrice Albin Michel ha puntato sul noir dall'ambientazione esotica Yeruldelgger (Fazi, 524 pagine, 16.50 euro, traduzione a cura di Maurizio Ferrara). Il primo volume di una trilogia che ha conquistato i lettori francesi: 150mila copie vendute, insignito di tutti i premi letterari dedicati al giallo ed è in corso di pubblicazione in dieci paesi.

Ian Manook, il nome d'arte, dopo una giovinezza da sessantottino, nel 1987 ha creato un'agenzia di pubblicità specializzata nella comunicazione per il turismo, che dirige col figlio Julien, e le  Éditions de Tournon, a lungo leader del mercato editoriale francese dell'animazione e del fumetto. Yeruldelgger è strettamente legato al rapporto con la figlia Zoe, che prima ha sfidato l'autore a non lasciare finalmente incompiuto un romanzo, e poi nel 2007 l'ha portato in Mongolia per verificare da vicino il lavoro dell'associazione per l'adozione a distanza che finanziavano.

Con la qualità della propria scrittura Manook ci introduce con grande competenza e passione in un universo che poco conosciamo, la Mongolia sospesa tra le tradizioni ancestrali dei nomadi della steppa selvaggia e la modernità violenta della capitale Ulan Bator. Il libro propone di viaggiare dietro lo schermo della violenza per comprendere le contraddizioni di un paese schiacciato da appetiti neocolonialisti. Yeruldelgger, un commissario di polizia mongolo, è il nostro eroe che dalle prime pagine si trova a indagare sul ritrovamento in una fabbrica alla periferia della città dei cadaveri di tre cinesi. E a poche ore da Ulan Bator, nel cuore della steppa, è alle prese col mistero dei resti di una bambina seppellita con il suo triciclo. Le inchieste sembrano del tutto disgiunte, ma sarà così? Yeruldelgger dovrà fronteggiare le minacce e gli ostacoli posti da politici e potenti locali, magnati stranieri in cerca di investimenti e divertimenti illeciti, poliziotti corrotti e delinquenti neonazisti.

Con Ian Manook a Radio 3
Manook, che cosa ha rappresentato la diaspora nella sua vita?
«Esiste un dolore grande: non essere in grado o non avere il permesso di ricordare, l'essere schiacciati sulle contingenze attuali. Gli armeni sono sopravvissuti anche alla negazione della parola genocidio, dunque alla censura della memoria. La cultura della diaspora è speciale e ha costruito il mio sguardo composito sul mondo, il modo in cui ho vissuto, pensato e scritto». 

Dal Bronx alla Mongolia, passando per la Woodstock mancata, ci disegna la mappa così particolare dei suoi viaggi?
«Avevo vent'anni quando viaggiare significava aprirsi al mondo ed essendo un figlio della diaspora, come tutti gli armeni o le persone costrette a fuggire, ho fatto del mondo la mia casa. A sedici anni sono partito per la prima volta destinazione New York, lavorando in un ristorante. Il viaggio che mi ha cambiato risale a quando ho finito i miei studi nel 1973: 27 mesi dall'Islanda all'Amazzonia. A scuola ero sempre il primo della classe, fiero di essere il proletario istruito. Poi ho capito che là fuori c'era un mondo da scoprire».

Perché del suo personaggio,  Yeruldelgger, descrive fisicamente solo le mani?
«L'ho fatto per lasciare al lettore la propria immagine di Yeruldelgger. Mi colpisce la coincidenza delle descrizioni di chi ha letto il libro. Quando parlo di lui mi riferisco alla Mongolia e viceversa. Vuol dire che sembra un personaggio solido, capace di battersi contro tutti, nel contempo nella sua vastità è molto fragile. Yeruldelgger era nella mia penna da vent'anni. All'epoca era un poliziotto americano di Brooklyn, che si chiamava Donelli, dall'esistenza complessa. L'ho ripreso, calandolo nel contesto generale della Mongolia. Subito ho capito una cosa importantissima: la cultura sciamanica della Mongolia dà alle cose importanti di un giallo, la morte, la fedeltà, la vendetta una nozione diversa del nostro modo di pensare occidentale. Questa differenza garantiva ai miei personaggi una asperità maggiore».

La violenza nella fiction letteraria: lei si spinge molto in avanti.
«È un personaggio pienamente inscritto nella modernità. Col suo mestiere si misura con gli aspetti più tribolati e violenti della vita del suo paese, che dopo lo scontro con l'URSS, subisce altre influenze, in particolare cinesi e coreane. Manifesta la volontà di conservare le tradizioni millenarie mongole, legate all'educazione ricevuta in un monastero buddista. In un giallo si deve andare un po' più lontano dell'ultima linea della violenza, oltrepassarla. Il mio personaggio a volte è troppo violento. Il mondo intorno lo spinge alla violenza alla quale lui non vorrebbe cedere. Nello sviluppo della trilogia, a ottobre uscirà in Francia il terzo volume, evolve con esiti inattesi il suo rapporto con la rabbia vendicativa che gli cresceva dentro a ogni delitto».

L'intrigo poliziesco si rivela anche nella complessità delle questioni geopolitiche, ai rapporti della Mongolia con gli interessi economici ingombranti di Russia e Cina con la scoperta di terre rare, ricche di minerali necessari ad alimentare l'industria tecnologica. 
«La Mongolia sembra un paese indistruttibile, eterno, che in realtà potrebbe sparire nei prossimi venti anni, economicamente, politicamente e fisicamente. La Mongolia è come qualcosa che non sarebbe dovuto esistere. Un paese grande due volte e mezzo la Francia con solamente tre milioni di persone, di cui circa il 40% vive in una sola grande città. È una zona sismica terribile. Yeru l'ho scritto come un'incarnazione del suo paese. Spesso abbiamo coscienza dei luoghi come cartoline postali. Quando scrivo il giallo mi piace servirmi della conoscenza approfondita che ho del paese, della quotidianità quanto dei suoi problemi geopolitici. Questo genere letterario, meno soggetto a censure, è un ottimo strumento per occuparsi di sentimenti universali attraverso destini personali».

Qual è il compito della letteratura?
«L'immaginazione è la risorsa migliore del mondo. Serve a varcare le frontiere dell'immaginazione che è un'attivazione della curiosità. Senza di essa non vale la pena vivere. Se vivere è accettare l'idea che gli altri hanno imposto come indiscutibile non vale la pena. La curiosità è il motore di tutto. In quanti vivono senza mai chiedersi l'origine delle parole che pronunciano? Incuriosirsi cambia la vita».

I premi letterari valorizzano un libro?
«Ancora non mi è chiaro. Il riconoscimento ovviamente gratifica, ma non cambiano la vita, soprattutto a 65 anni».

venerdì 8 luglio 2016

Storia di Nino e Ida, vittime di mafia in attesa di giustizia dallo Stato


di Gabriele Santoro

La storia di Augusta Schiera e Vincenzo Agostino è iniziata a bordo di un autobus, il numero tre. Palermo stava affacciata alla finestra del boom economico italiano. Lei giovane sarta, lui muratore, è stata una questione di sguardi lungo il comune tragitto quotidiano. Correva l’anno 1956, entrambi orfani di padre, un giorno hanno fatto finta di perdere quell’autobus, il tempo piccolo di una passeggiata e quello lungo di un amore che continua a sfidare uno degli inestricabili misteri italiani.

Ida Castelluccio e Antonino Agostino
Vincenzo racconta come i suoi occhi azzurri lucidi, mentre nella stanza attigua della casa palermitana il quindicenne Nino gioca. Augusta sostiene che le coincidenze abbiano un’anima. Il nipote sarebbe dovuto nascere nel settembre del 2001. È venuto al mondo il 5 agosto, a dodici anni esatti dall’assassinio del figlio, il poliziotto Antonino Agostino, assegnato al Commissariato San Lorenzo, e della nuora Giovanna Ida Castelluccio. Nino, nato prematuro di un mese e mezzo, è un ragazzino vivace, che vive nel nome dello zio ucciso. Ida, un’altra nipote, ai nonni dice: «Non siate tristi perché sarò, saremo i vostri testimoni».

A ventisette anni di distanza dal duplice delitto, per Antonino e Ida non c’è ancora una verità processuale, che ricostruisca gli eventi. Non c’è pace per una famiglia, che attende di sapere quale intreccio di interessi abbia prodotto un crimine così efferato. Per riannodare i fili contorti di questa vicenda si può cominciare da una dichiarazione rilasciata da Mimmo La Monica, collega di Agostino fino all’ultimo turno di pattuglia svolto insieme, dopo poche ore dalle esecuzioni attentamente pianificate: «Non si capisce più che sta succedendo in città. Siamo bersagli mobili e non sappiamo chi ci ammazza». Sullo stesso tono il magistrato Giusto Sciacchitano, che da subito coordinò l’inchiesta, in un virgolettato riportato da La Stampa: «A Palermo viviamo male come giudici e come cittadini, mi auguro che questo delitto così grave raffreddi l’atmosfera e ci faccia ritrovare serenità per ottenere di nuovo buoni risultati».

Al Palazzo di giustizia era la stagione del discredito delle istituzioni, dell’indebolimento del pool antimafia, delle guerre intestine fra magistrati. Era l’estate del fallito attentato all’Addaura, che avrebbe dovuto anticipare la strage di Capaci, e quella caldissima della delegittimazione delle lettere del Corvo che allarmò anche gli americani, così attenti e interessati al lavoro di Giovanni Falcone. È significativo che tra la documentazione declassificata dal Dipartimento di Stato statunitense non compaia la specifica informativa sull’attentato dell’Addaura. Quei 58 candelotti di esplosivo rinvenuti il 21 giugno 1989 nel tratto di scogliera tra la casa presa in affitto da Falcone e il mare. Quel giorno all’Addaura c’era anche il magistrato svizzero Carla Del Ponte, che stava indagando sul riciclaggio di denaro sporco.

I diplomatici statunitensi non si capacitavano di come il sistema Italia ostacolasse, denigrasse all’apice della lotta la sua migliore risorsa contro la piaga del crimine organizzato. «I giudici antimafia hanno speso più tempo attardandosi nel combattere fra loro che nel contrastare la mafia. Accuse senza fine e controaccuse hanno così intorbidito le acque che ogni significativa misura contro sospettati di mafia ha dovuto essere pretermessa», recita il cablo E65 – Confidential del 13 ottobre 1989. Il cablogramma E54 – Confidential, intercorso tra l’Ambasciata statunitense e il Dipartimento di Stato, cita anche l’oscuro duplice omicidio commesso a Villagrazia di Carini.

In quelle settimane il ministro dell’Interno Gava ammette che la mafia finanzia il debito pubblico italiano, che aveva già esondato gli argini in una crescita incontrollata, mentre il ministro del Lavoro Donat Cattin esterna che il problema del contrasto alla mafia dipende dall’anagrafe: servono magistrati non siciliani. Sette mesi dopo l’insediamento di Meli, nel ruolo ricoperto da Antonino Caponnetto al vertice del pool, Paolo Borsellino tuonò con due interviste: in buona sostanza «dalle uccisioni di Cassarà e Montana non esisteva una sola struttura di polizia in grado di consegnare ai giudici un rapporto sulla mafia degno di questo nome».

Nel cuore dell’agosto 1989 i principali quotidiani nazionali associarono per giorni i veleni a quelle due morti apparentemente prive di movente. Il clima è riassumibile nel titolo: «Palermo litiga, la mafia uccide». Ma che cos’è la mafia? Dopo il funerale, celebrato nella Chiesa di Sant’Eugenio, Vincenzo Agostino affidò le proprie sensazioni lucide al Corriere della sera. Parole che oggi leggiamo nell’analisi (Storia dell’Italia mafiosa/2015) di Isaia Sales: «Una criminalità di tipo mafioso è tale se coloro che sono preposti alla repressione e al governo della cosa pubblica sono con essa in rapporti. Un mafioso è, dunque, tale se intreccia relazioni di ogni tipo con parte di coloro che dovrebbero reprimerlo, allontanarlo, giudicarlo».

Vincenzo ripete l’espressione “mele marce”, che avrebbero ostacolato la ricerca della verità fin dalla  notte fra il 5 e il 6 agosto 1989. La definisce una storia di depistaggi, di documenti mancanti, sottratti come in molti misteri collegati alla mafia. «Ho paura che la cronaca, la gente, lo Stato inghiotta anche questi due cadaveri innocenti senza che cambi nulla», disse al Corriere della sera.

Attualmente a Palermo, dopo il respingimento della precedente richiesta di archiviazione da parte dei pm, il Gip Maria Pino ha accolto la richiesta della Procura di Palermo di prorogare le indagini sul caso per sei mesi. Si sono tenuti importanti incidenti probatori come l’esame dei pentiti Vito Lo Forte e Vito Galatolo, e il confronto all’americana tra Agostino e l’ex poliziotto Giovanni Aiello riconosciuto, che nella ricostruzione qualche giorno prima dell’omicidio sarebbe andato a cercare Nino a casa, trovando Vincenzo. Quest’ultimo colloca l’incontro nel luglio 1989, circa venti giorni dopo i fatti dell’Addaura e ricorda:

«Stavo facendo qualche riparazione nella casetta al mare, vicino a Punta Raisi, quando si introdusse senza bussare un maleducato. Mi guardò e domandò: “C’è suo figlio, il poliziotto?”. Risposi di no e se ne andò senza salutare. Era Nino Madonia. Lo rincorsi chiedendo chi fosse: “Digli che siamo colleghi”. C’era un altro personaggio biondastro, bassino, con il volto deformato come se avesse il vaiolo, ad aspettarlo sulla moto. Questa scena e le parole mi restarono impresse. Mi preoccupai molto, ma a Nino non raccontai l’episodio. Successivamente l’ho fatto con i magistrati».

Aiello è fra gli indagati con i boss Nino Madonia e Gaetano Scotto. Secondo la versione di Lo Forte i tre avrebbero preso parte all’omicidio e le ragioni andrebbero cercate fuori da Cosa nostra e dentro alle forze di polizia.

La voce di Vincenzo si incrina ancora, quando sussurra con rabbia e dolore di essere l’unico padre vivente ad avere visto cadere il figlio sotto i colpi dei killer. Antonino amava il mare. Augusta lo ripete, come se fosse un’emozione particolare: «Lui trascorreva al mare tutti i suoi momenti liberi. Rappresentava un elemento indispensabile alla sua vita. Era la sua passione. Pescava ed era un sub esperto».

Augusta Schiera e Vincenzo Agostino
La sera del 4 agosto 1989 Agostino, già sposato con Ida, prese la barca e la rete con un altro giovane amico e il padre, con i quali era solito andare a pescare in mare aperto. Alle due di notte, rientrato nella casa in affitto sul litorale a Villagrazia di Carini, comunicò a Vincenzo il cambio di turno al commissariato. Flora, la sorella minore, la sera del 5 avrebbe voluto iniziare a festeggiare in discoteca il proprio diciottesimo compleanno, che ricorre il 6. «Lo svegliai la mattina presto. Facemmo colazione guardando il mare. Poi Antonino mi mise una mano sulla spalla, aggiungendo: “Si chiamerà come te, Vicè”. E se ne andò a lavoro con un sorriso». Ida aveva appena saputo di essere all’inizio della gravidanza. Augusta lo chiama un semino piantato, al quale non è stato concesso di crescere.

Alle 14 del 5 agosto Nino concluse il turno di servizio con una gioia. Con Ida dovevano recarsi dal fotografo a ritirare l’album del matrimonio e avrebbero dato la buona notizia della dolce attesa a tutti i familiari. Da Altofonte, dove gli sposi vivevano in affitto, raggiunsero la casa al mare degli Agostino a Villagrazia di Carini. Vincenzo ha nel cuore il silenzio assordante, la calma relativa prima della guerra: «Nino era uscito per mostrare alla vicina di casa le fotografie. Ero davanti al televisore e ricordo il silenzio assoluto della strada. Quella sera non c’era traffico. All’improvviso sento un botto, pensavo si trattasse di un petardo, poi un altro e un altro ancora». Una voce non smette di rimbombargli nella testa. È quella di Ida che emise un urlo buio, straziante: «Stanno ammazzando mio marito».

Vincenzo scattò dalla poltrona per raggiungere l’uscio di casa. Nino cercava di schivare i colpi, entrando nel cancello: «Riuscì a spalancarlo. Veniva verso di me. Ho visto come lo penetravano quei proiettili, che mi fischiavano nelle orecchie». Nino buttò a terra Ida nel tentativo estremo di salvarla. Nella dinamica impressa nella memoria di Vincenzo, lei si rialzò gridando: «Io so chi siete». Poi le hanno sparato un colpo al cuore: «Avevo adagiato Nino, mentre lei cercava di raggiungerlo a carponi».

Ida, appena ventenne, occhi azzurri e capelli neri, aveva da poco ottenuto la maturità classica. Si sarebbe voluta iscrivere all’università e diventare un’insegnante. Era un’amica di Flora. Aveva conosciuto Nino nel 1986 in occasione del quindicesimo compleanno di Flora. Il loro matrimonio è durato un mese e quattro giorni. Al civico 699 di via Cristoforo Colombo è finito tutto.
Per Ida ci fu una corsa disperata in ospedale. Augusta e un vicino la caricarono in macchina, illudendosi che ci fosse una qualche speranza di sopravvivenza. Le immagini televisive di archivio dell’epoca mostrano il cancello azzurro con tre segni di gessetto a rilevare i fori dei proiettili e si scorge una coperta appena varcato l’ingresso. Augusta di ritorno dall’ospedale, calatasi fra le gambe di poliziotti e carabinieri, alla vista del corpo inanimato senza uno straccio addosso, entrò in casa a prendere quella coperta. Sul posto giunse anche Paolo Borsellino, che era in villeggiatura a poca distanza.

A caldo il fratello maggiore di Nino lo girò sottosopra per cercare la pistola di ordinanza. Era disarmato. I due killer scapparono a bordo di una motocicletta, una Honda di grossa cilindrata, poi ritrovata bruciata, che risultò essere stata rubata due mesi prima a un pregiudicato. «In quegli anni, in quel punto non era mai, mai, passata una macchina della polizia. Pochi istanti dopo l’esecuzione vidi arrivare in senso di marcia inverso una volante. Stranamente c’era un solo uomo. Voleva sapere che cosa fosse successo. Mi pose domande strane, stupide. Mi arrabbiai e presi il baracchino per le comunicazioni all’interno dell’auto. Quest’ultima si allontanò e in breve tempo dalla centrale molte volanti raggiunsero via Cristoforo Colombo 699». Il primo lancio dell’Ansa, che diede la notizia, è delle 20.26.

In quella notte di tempesta Vincenzo fissa un punto che ritiene decisivo. Dalla scena del delitto, dal portafogli di Nino caddero vari biglietti. In uno dei quali ci sarebbe stato scritto: «Qualora mi succedesse qualcosa andate a guardare nel mio armadio». La stessa notte Flora venne portata a casa del fratello, che fu perquisita. «Le mele marce non hanno avuto nessun rispetto, neanche per mia figlia», dice Vincenzo. Anche Flora sognava di entrare in Polizia. A settembre sarebbe partita per il concorso. Era spesso al Commissariato San Lorenzo, era curiosa, incalzava il fratello: «Lui però non raccontava nulla. Quella sera i colleghi mi hanno portata a casa sua. Essendo molto legata a Nino avrei dovuto sapere qualcosa. Mi interrogarono per molte ore. Mio padre venne a riprendermi tra le tre e le quattro. Completarono la perquisizione dicendo: “Abbiamo trovato, possiamo andarcene”».
Gli appunti di Nino sono spariti. Del suo memoriale sono rimaste poche tracce scritte, ora di pubblico dominio, in una delle quali leggiamo:

«La mafia è un fenomeno in evoluzione. Da rozzo venditore il mafioso manda adesso i figli a scuola. Si istruiscono a spese di questo Stato in cui loro stessi sono parassiti. La mafia è come un cancro inestricabile che sta lentamente infettando la società. Adesso capisco il disprezzo dei settentrionali verso i meridionali. Provo disprezzo contro quella parte di siciliani, di cui purtroppo ero parte anch’io, che si estranea da questa realtà come se a loro non interessasse niente. Un giorno la mafia arriverà ad avere un peso maggiore nella politica».

La famiglia Agostino ha sempre creduto e ripete che in quelle pagine sottratte potrebbero esserci le risposte, gli atti mancanti.

Anche Vincenzo fu interrogato dall’allora Capo della Squadra Mobile, Arnaldo La Barbera. Uno scambio acceso: «Voleva sapere quello che sapevo. Ripeto, siccome mio figlio a proposito del lavoro era riservatissimo, non avevamo alcuna informazione. La Barbera ha insistito con arroganza, minacciando l’arresto. A questa parola me ne sono andato via. Dovevo vegliare la salma di mio figlio. Sono corso al cimitero di Carini, dove avevano portato i due cadaveri. Quella notte ci siamo sentiti soli, abbandonati dallo Stato». Alle prime luci dell’alba la famiglia Agostino venne raggiunta dal Capo della Polizia di Stato Vincenzo Parisi e dal ministro dell’Interno Gava. Vincenzo accenna alle pacche sulle spalle, ma ha sempre la stessa domanda: «Che cosa c’era scritto dentro agli appunti, ritrovati a casa, che lasciò mio figlio?»

Parisi, visibilmente scosso, si concesse ai microfoni Rai: «La mafia vuole fermare lo Stato. Colpisce con la sua mano vile affinché lo Stato si fermi». Il primo elemento dirimente della vicenda è che nessuno dentro alla Polizia fa luce su quale fosse il ruolo dell’agente Antonino Agostino. Sulla stampa filtrano ipotesi del tutto discordanti. Nei primi due giorni successivi al delitto il cognome diventa Agostini ed è rappresentato come un agente senza alcun incarico di rilievo, mai occupatosi di indagini di mafia. Nelle parole dell’allora questore Fernando Masone: «Non è possibile dare un giudizio, perché non mi risulta che la vittima avesse partecipato a indagini su attività mafiose».

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lunedì 4 luglio 2016

I giorni selvaggi del Pulitzer Finnegan: «Il surf è un giardino segreto, una struggente ragione di vita»


di Gabriele Santoro

Il surf può essere una struggente ragione di vita, fisicamente estenuante e intrisa di gioia. Lo testimoniano le pagine dell'appassionante memoir Giorni selvaggi (66thand2nd, 25 euro, 496 pagine) del giornalista e scrittore William Finnegan, dal 1987 staff writer al The New Yorker. È appena arrivato in libreria, ma è un progetto letterario che ha alle spalle una gestazione lunga vent'anni. L'autore, cresciuto tra Los Angeles e le Hawaii, dà ai lettori la misura di un'ossessione, di un incanto, di una fede assoluta per la tavola e per le onde che rappresentano un modo di stare, rapportarsi e al contempo fuggire dal mondo.


Finnegan ha cominciato a surfare all'età di dieci anni, alle Hawaii dove il padre trasferì la famiglia, conquistando in acqua il rispetto dei coetanei nativi e cavalcando poi da grande viaggiatore le onde migliori nel Sud del Pacifico, in Australia, Asia e Africa. «In natura le onde non sono oggetti stazionari come le rose o i diamanti. Al contrario sono contemporaneamente l'oggetto del più profondo desiderio, dell'adorazione e anche il tuo avversario, la tua nemesi, finanche al tuo nemico mortale. Cavalcarle è una soluzione teoretica all'impossibilità di un problema complesso», dice lo scrittore.

L'autobiografia, che è anche storia sociale e una straordinaria esplorazione tanto fisica quanto intellettuale on the road, è stata insignita del Premio Pulitzer 2016 per il genere. Il surf è anche la costruzione di un linguaggio, di mappe ancora non disegnate: ed è esattamente quel che ci restituisce Finnegan, protagonista martedì alle 21 di un nuovo appuntamento del Festival Letterature, curato da Maria Ida Gaeta, presso la Basilica di Massenzio. Sul palco saliranno anche i cinque candidati al Premio Strega Europeo, giunto alla terza edizione: Mircea Cartarescu, Annie Ernaux, Kerry Hudson, Ralf Rothmann e Ricardo Menendez Salmon. Tutti gli autori leggeranno un proprio testo inedito sul tema della memoria, accompagnati dalla musica di Enrico Pierannunzi.

Finnegan, quali sfide le ha posto la scrittura di un memoir?
«Da giornalista è strano indagare le proprie memorie, e parlare della propria vita privata. D'abitudine il lavoro consiste nell'investigare, nel porre domande fuori di me. Si attinge a quello che restituiscono gli archivi dei giornali, ai diari e alle lettere per ricercare una verità storica. Ed è scioccante constatare quante lacune abbia la nostra memoria. Allora vai a rintracciare gli amici, i nemici e provi a negoziare tra quello che ricordano loro e quello che ricordi tu. The New Yorker Magazine, dove lavoro, è un dipartimento formidabile per il fact checking. Ho provato a fare lo stesso con la memoria. I momenti condivisi con gli amici, le persone amate, i familiari ovviamente erano fuori di registrazione. Li ho incisi per chiunque legga, raffigurando tutto ciò. Scegliere cosa mettere e cosa lasciare nella sfera della privacy è un processo creativo complesso».

Il surfista utilizza un linguaggio vernacolare vivido. In che modo ha reso accessibile quel lessico al lettore neofita?
«Questa è stata un'altra sfida decisiva: non rinunciare ai termini tecnici del lessico surfista senza inficiare la struttura e la leggibilità del testo. Ho fatto molte prove, sottoponendo spesso lo scritto al mio editor, a mia moglie, persone del tutto distanti dal surf: chiedevo loro di indicarmi i passaggi poco comprensibili, ed era una frustrazione. Credo sia una possibilità per avvicinare, educare il lettore generalista al linguaggio dell'oceano, delle onde e del mestiere del surfista. Già dopo i primi due capitoli si familiarizza con le descrizioni e penso si apprezzi la ricchezza del linguaggio. Era un'esigenza irrinunciabile per entrare nelle scene, per capire cosa significhi, cosa importi e le ragioni che animano la ricerca errante della cresta d'onda perfetta. La costruzione dell'aspetto psicologico nel rapporto con l'oceano è un processo lungo».

La ricezione di un enorme pacco di lettere, inviate da un amico d'infanzia, alimenta l'inizio del libro. Che cosa hanno rappresentato?
«L'arrivo di questo pacco è stato il punto di rottura, che in qualche modo mi ha costretto a misurarmi con quell'esperienza senza il timore dello stereotipo del surfista. Hanno avuto l'effetto della madeleine in Proust. Non avrei potuto archiviare l'apparizione di tutte queste lettere, relative all'adolescenza, così ricche di dettagli, centinaia di pagine. Quando ho pensato a come organizzare il testo, ho deciso che sarebbero state la spina dorsale del primo capitolo».


Che cosa vuol dire leggere un'onda e in che modo si sviluppa il lavoro intellettuale del surfista?
«Significa essere in qualche modo un oceanografo, avere memoria dell'acqua e delle onde in un posto specifico e negli altri luoghi esplorati, una sorta di mappa mentale. Si sviluppa una libreria immensa, un archivio di esperienze con l'oceano per comprendere che cosa farà l'onda in termini specifici, quanto sarà veloce, quanto potenza avrà, tutti i differenti angoli dell'acqua e sapere come verrà, dunque come surfare. Questa è la principale occupazione di un surfista, tutto sta nel pensare a che cosa farà poi l'oceano: essere nel posto giusto, sulla costa giusta al momento giusto. Ma anche nel punto esatto in acqua. Guardando i surfisti migliori ti domandi come sappiano, come prendano decisioni così velocemente. Essere i migliori equivale a comprendere il posto, le onde in generale prima e meglio di chiunque altro. L'ambiente diventa quasi un'estensione anatomica dei surfisti».

venerdì 1 luglio 2016

Frammenti di Africa, tra calcio e felicità

Il Venerdì di Repubblica, numero 1476, sezione Cultura pag. 89,

1 luglio 2016

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

Leggendo l'antologia La felicità degli uomini semplici (66thand2nd, 192 pagine, 18 euro), curata da Alain Mabanckou su un'idea dell'editrice Isabella Ferretti, l'immagine pura di un rettangolo di gioco polveroso, che continua a nutrire sogni, storie e speranze, si mischia alla vita fuor di metafore stanche.

Il letterato di Pointe-Noire ha coinvolto quindici scrittori per tessere un mosaico di racconti brevi, che non tradiscono l'ambizione di narrare, osservando il calcio, frammenti intimi e politici della complessità africana. In un passaggio della lezione inaugurale, nel giorno dell'insediamento al Collège de France nella cattedra di Creazione artistica, Mabanckou ha detto: «Accogliendomi, dimostrate la vostra determinazione nel combattere l'oscurantismo e nell'assumere la diversità della conoscenza. Non avrei accettato la cattedra di Creazione artistica, qualora fosse dipesa dalle mie origini africane. Ho saputo che l'elezione è singolare, in quanto per la prima volta la cattedra è stata affidata a uno scrittore».

Sessant'anni dopo il Congresso degli scrittori e degli artisti neri, evidenzia Mabanckou, la Francia s'interroga ancora sulla doppia nazionalità, incapace di pensare una nazione molteplice, dunque ricca e grande. Dalle lettere al calcio, questo libro è utile a ricordare anche che, con tutte le implicazioni culturali del caso, agli Europei partecipano trentacinque calciatori di origine africana.

Jean Bofane apre La felicità degli uomini semplici con un racconto nel quale ritroviamo gli elementi del suo romanzo polifonico Congo Inc, che denuncia le forme varie della neocolonizzazione. Perché il dittatore Mobutu si affida solo ad allenatori bianchi, dunque a una sorta di neocolonizzazione? Blagoja Vidinic non ha l'estro di Bora Milutinovic, e allo Zaire manca quel genio di Jay-Jay Okocha. La scrittura brillante di Noo Saro-Wiwa ci porta nell'adolescenza di Kwame. La sua passione per il calcio rifugge il machismo e il dovere dell'appartenenza. Nella Soweto ebbra per l'assegnazione dei Mondiali del 2010, Mhlongo penetra l'oscurità di una famiglia, che ha atteso il nascituro albino per dirsi una qualche verità. Couao-Zotti e Helon Habila confermano quanto la dimensione del campetto sia quel che resta dell'infanzia, dove giocare a calcio vuol dire ridere, ma anche piangere.

Mabanckou ci riporta nella sua Pointe-Noire, inizio e fine di tutto, nella disillusione delle promesse mancate dell'indipendenza, raffigurata dal raccomandato Mayalama, l'attaccante senza talento dei Diavoli verdi. Ebodé non fa indossare il velo alla centravanti Fantamady, che tratta con la gioia degli eletti l'oggetto del desiderio in cuoio. Boualem Sansal giunge infine alla meta di Eduardo Galeano: spiegare la felicità a un bambino consiste nel dargli un pallone per farlo giocare.

Punto d'ombra: le foto di Teju Cole


di Gabriele Santoro

(le immagini sono tratte dal libro: ringraziamo la casa editrice Contrasto)

«Una mattina del 2011 mi sono svegliato, dopo aver letto la sera prima Virginia Woolf, ma non sto dando la colpa a lei, e non ci vedevo dall’occhio sinistro. Raggiungo il lavandino, mi sciacquo, non mi faceva male però non ci vedevo. Dopo due giorni la visione è tornata. Il responso di accurati consulti medici è stato: “Boh, però se ne andrà”. La chiamano sindrome della grande macchia cieca, della quale non si conosce la causa e può ripresentarsi. La relazione con il mio lavoro è segnata, influenzata anche dal fatto che potrei svegliarmi la mattina e non vederci da un occhio», racconta Teju Cole.


Lo scrittore d’origine nigeriana, classe 1975, fotografo e critico per il New York Times, una delle voci più interessanti della letteratura e delle arti d’oltreoceano che, dopo l’esordio brillante di Ogni giorno è per il ladro, un ritorno politico alle proprie origini, ha stregato la critica e i lettori su scala mondiale con il libro bellissimo Città aperta non abbandona mai l’urgenza di assecondare la propria sensibilità visiva. Cole tira fuori dalla propria borsa la macchina fotografica, che l’ha già accompagnato in trenta paesi, lì sempre alla ricerca della prossima immagine da scattare quasi a curare l’ossessione per il vedere. Dopo un passaggio romano per il Festival Letterature, l’autore ha raggiunto il Sud Italia e poi approderà a Malta.

La casa editrice Contrasto ha da poco pubblicato Punto d’ombra (230 pagine, 22 euro, traduzione di Gioia Guerzoni) un nuovo lavoro di Cole: un diario visivo che testimonia le sue peregrinazioni nel mondo e ne offre la cifra stilistica. Sembra ricordarci che siamo corpi nel mondo e la scrittura è sempre un’esperienza corporea. Le foto scattate nell’arco temporale tra il settembre 2011 e novembre 2015 non sono disposte in ordine cronologico né geografico, ma per comprendere il filo della creazione tra scrittura e fotografia di Cole si può cominciare da pagina 196.

Cattura, a Zurigo nel 2014 sul tram n.15 per Bucheggplatz, una luce all’imbrunire che racconta una storia di sette anni prima. Cole fotografa una donna sui trenta, capelli raccolti e un tatuaggio che emerge limpidamente dal collo: due righe, il nome di una donna e una data. Lui li annota entrambi, e in seguito a una ricerca li trova associati in un vecchio articolo di giornale: una donna, morta in un paesino vicino a Phoenix, proprio nella data del tatuaggio. Quella notte c’erano altre due persone in macchina. Entrambe erano sopravvissute all’incidente e avevano come la vittima poco più di vent’anni: un uomo, diceva l’articolo, e un’altra donna.

Cole, nel memoir Punto d’ombra scrive che utilizza la macchina fotografica come un’estensione della memoria. Qual è la relazione creativa con la scrittura?
«Questo libro assomiglia a una raccolta di poesie, alla quale chiediamo innanzitutto se abbia espresso la verità. Le foto non sono manipolate. Mi interessa creare un momento, un luogo dove avvenga qualcosa di intenso. Foto e parole emettono vibrazioni differenti, che metto insieme. Il sentimento, la storia e la fotografia sono reali, ma la costruzione della relazione fra di esse è costruita come una poesia».

In che modo sappiamo quando un fotografo ci immerge, procaccia la vita e non riproduce pregiudizi preesistenti?
«La fotografia mantiene una grande potenza quale forza di testimonianza, ma sappiamo che può mentire tanto con l’analogico quanto col digitale. Per il fotografo credo sia più importante la ricerca della giustizia rispetto alla neutralità, che è il linguaggio del potere. La questione è complessa, tuttavia occorre affrontarla. Più che Photoshop, il problema consiste nella mancanza di immaginazione nel mostrare con attenzione e rispetto la vita. Recentemente ho trascorso tre settimane in Libano e la presenza dei rifugiati siriani rappresentava anche un’occasione per un reportage fotografico. La sfida che dovremmo porci è trovare nuove modalità per raccontare fuori dal circuito economico censorio delle immagini».

A proposito del Libano, in Punto d’ombra lei rivela l’ammirazione per Gabriele Basilico.
«Sì, è uno dei fotografi che più ammiro. Mi ha fornito la risposta alla nozione del ritrarre uno spazio vuoto. La figura umana con Basilico sa attivare lo spazio, e quand’anche questa sia assente lo stesso spazio emana energia. Ho pensato molto al suo lavoro rispettoso delle rovine di Beirut».


Instagram è uno spazio per la creazione?
«Sono interessato a chi lo utilizza come tale per esplorare il linguaggio visuale. Molti fotografi che seguo e apprezzo considerano Instagram un extra studio, dove fare di più. Scattano le fotografie col telefono ma con l’intelligenza pittorica simile a quella che applicano nei lavori formali. Quello che amo della fotografia è la sua disseminazione. Il contributo dei fotografi su Instagram consente in qualche modo di avvicinarsi al loro processo creativo. Al suo meglio può essere una conversazione che si rivela gradualmente».

A pagina 66 c’è una fotografia molto bella. L’ha scattata a Lagos nel dicembre del 2014 e ritrae strumenti musicali a riposo nell’atrio di una scuola elementare. Fa pensare al suo libro d’esordio Ogni giorno è per il ladro, alla sua visita in scuola per musicisti: «I segnali di vita più incoraggianti che vedo in Nigeria sono associati alla pratica delle arti. Ogni volta che, tornando a Lagos, finisco per caso in un angolo di inferno, spunta sempre qualcosa che mi dà speranza». In quel libro le fotografie accompagnavano il testo, oggi viceversa è la stessa esigenza?
«Tra i due libri intercorre un divario di almeno dieci anni, uno spazio intenso in cui rimangono alcuni contenuti. In quel libro ho concepito giornalisticamente la storia. Sono entrato in quella scuola insieme al narratore, ma in quel caso gli strumenti non erano coperti, ma accessibili solo a chi se lo poteva permettere economicamente. La prima cosa che sperimenti è il potere dell’immagine, il mistero, parlo di come il silenzio sia sonoro. Ancora mi sono mosso dal reportage alla poesia. Anche la poesia è importante perché può dirci che anche a Lagos può accadere una poesia. Non viviamo una vita puramente materialistica, stressata dai problemi del governo, dalla corruzione, dal crimine. Ovunque nel mondo c’è una possibilità per la poesia».


Un punto di contatto tra i due i libri è la dimensione del sogno, parola che ricorre molto in Punto d’ombra.

«Sì, c’è anche in Ogni giorno è per il ladro, il sogno accompagna il narratore che si muove attraverso la città. In questo libro equivale a una linea di confine completamente dissolta tra realtà e sogno. Forse è il segno della maturazione del mio pensare di libro in libro. Nei sogni accadono molte cose che mettono alla prova i confini di ciò che è credibile e li testano in termini psicologici meticolosi, eventualmente costringendoci a credere. Sono sempre più aperto su questo confine e credo dipenda dall’insicurezza di che cosa significhi davvero essere al mondo in movimento attraverso lo spazio e talvolta non puoi dire se tu stia sognando o meno. Il giardino in cui ci troviamo è stato disegnato da Borromini nel Seicento, questo è quasi un sogno del quale facciamo esperienza oggi. Fra pochi giorni andrò via da Roma e manterrò solo dei ricordi. Allora per anticipare il futuro, per vivere nel presente, per pensare il passato e poi dormire e sognare siamo costretti a danzare in quel confine. Questo è il dove che esplora il libro».

Che cosa intende quando si dichiara affascinato dalla linea del canto che collega tutti i luoghi?
«La intendo in un senso molto musicale come quando ascolto Schubert. Non si tratta solo di eseguire correttamente le note, ma farlo suonare. È davvero come mantenere, stringere una linea tutta attraverso una canzone. Per me ciascuna di queste foto è una percussione e devono essere un senso del flusso».

Il cosmopolitismo è un tratto fondamentale della sua biografia e prende sostanza nei suoi scritti. In un mondo così individualista e pieno di dolore, quali condizioni consentono la conversazione fra diversi per dirla con Kwame Appiah?
«Il senso dell’uguaglianza fra gli interlocutori: non parliamo a, ma con. Il discorso deve essere inclusivo oltre le differenze. L’uguaglianza, letteralmente intesa, fra le persone è la condizione irrinunciabile».

Ha commentato l’elezione del nuovo sindaco di Londra, Sadiq Khan, musulmano cosmopolita, dicendo: «I simboli sono importanti, ma vediamolo all’opera». Per che cosa ricorderemo Obama?
«È stato un presidente migliore di chi lo ha preceduto, ma credo avrebbe potuto fare di più. Obama è l’espressione massima del pensiero neoliberale. Il nodo centrale irrisolto è la guerra senza fine. Sarà ricordato come il primo presidente nero, per il suo stile molto attrattivo ma anche per l’espansione dei poteri presidenziali che si riverberà sulla prossima elezione. Il governo non dovrebbe spiarci. Credo che gli Stati Uniti possano, debbano aspirare a un presidente che promuova la giustizia e i diritti umani per le persone in tutto il mondo. Nessuno dei due candidati alla presidenza ispira tutto questo».