martedì 17 gennaio 2017

Quello che succede in Turchia. Una conversazione con Pinar Selek


di Gabriele Santoro

«Quando, ogni lunedì mattina e ogni venerdì pomeriggio, ci mettono in riga come soldati, mi rifiuto di cantare l’inno nazionale piegando ostentatamente le ginocchia. Stringo le labbra mentre i miei compagni cantano a squarciagola: “Che la mia esistenza sia dedita alla nazione. Felice chi si dice turco!”. Rifiuto tutto ciò che mi ricorda l’uniforme. Sono i militari ad aver arrestato mio padre. Ed è lo Stato che ha sbattuto in prigione tutti quelli che amavo», scrive Pinar Selek nel memoir La maschera della verità (Fandango libri, 96 pagine, 13.50 euro), che irride la negazione del genocidio armeno.


Come si può raccontare che si è soli al mondo? Selek, sociologa e scrittrice, ha sempre vissuto difendendo mediante lo studio e la scrittura la ricchezza transculturale delle minoranze in Turchia: «Io, anche solo a sentire la parola “armeno”, ho paura. Per fortuna non esistono. Se esistessero ci divorerebbero tutti, stando al nostro professore di storia. Sarebbero tutti terroristi, e avrebbero sicuramente minacciato l’unità del paese. E ora farebbero di tutto per istigare i turchi mettendoli gli uni contro gli altri sostenendo che un genocidio c’è stato».

All’età di 9 anni il colpo di stato del 12 settembre 1980 le ha sottratto il padre, arrestato insieme a centinaia di migliaia di oppositori, che trascorse cinque anni in carcere. Nell’ambito delle sue ricerche sulla questione curda le è toccata la stessa sorte, poiché Selek realizzò alla fine degli anni Novanta una sessantina di interviste in Kurdistan, Francia e Germania. L’11 luglio 1998 è arrestata dalla polizia a Istanbul, accusata di complicità col PKK, e dopo il sequestro del materiale attinente alla ricerca, torturata affinché confessasse i nomi dei propri contatti. Mantenne, tutelò la segretezza delle fonti, e nella prigione Ümraniye venne a sapere dalla televisione dell’accusa di essere associata all’attentato terroristico dello Spice Bazaar, avvenuto un mese e mezzo prima. Il processo non è chiuso, malgrado le tre assoluzioni pronunciate. Selek è costretta di vivere in esilio dal 2009, ora in Francia.

Negli ultimi mesi è stata in prima fila nel chiedere la liberazione dell’amica scrittrice Asli Erdoğan, alla quale è stato ritirato fisicamente il passaporto, che a sua volta si era esposta pubblicamente per Selek. La prossima udienza del processo che vede imputata Erdoğan, insieme ad altre dieci persone, si terrà il 14 marzo. Uscita dal penitenziario femminile di Bakirköy, a Istanbul, dove era reclusa dallo scorso agosto, beneficia dal 29 dicembre del regime di libertà provvisoria.

«Nella mia vita ora c’è una grossa macchia nera e l’unico modo per affrontarla è la scrittura – dice Asli Erdoğan, intervenuta via Skype all’anteprima milanese di Tempo di libri –. Viviamo in un momento in cui bisogna chiedersi cosa significhino le parole reato, diritto, colpa, condanna, libertà, innocenza; tutte parole che in Turchia sono rimesse in discussione. Mi hanno pesato moltissimo l’incriminazione e la carcerazione del tutto ingiuste e infondate, fuori dal diritto, legate a una mia manifestazione di solidarietà e a motivi politici».

Erdoğan non crede che la nuova udienza sarà l’epilogo della vicenda giudiziaria. Dei capi d’imputazione contestati permane quello di propaganda terroristica. È sostanzialmente accusata per aver espresso la propria solidarietà al giornale filo-curdo Özgür Gündem, col quale in passato ha collaborato la stessa Selek.

Nel mese di marzo a Milano nella grande area verde del Monte Stella, dove è situato il giardino dei Giusti di tutto il mondo, verrà piantato un albero col nome di Selek. Nel giardino ogni anno vengono piantati nuovi alberi per onorare gli uomini e le donne che hanno aiutato le vittime delle persecuzioni, difeso i diritti umani ovunque fossero calpestati, testimoniato contro i tentativi di negare i crimini perpetrati.

Selek, è possibile comparare la sua complessa vicenda giudiziaria con quella che coinvolge Erdoğan?
«Non è la stessa cosa, ma ci sono dei punti in comune senza dubbi. Vogliono punire gli intellettuali che si impegnano nella dimensione pubblica, civile. Le punizioni sono varie e non riservate solamente alle personalità più esposte come me e Asli. Il processo penale a mio carico viene reiterato di assoluzione in assoluzione da 18 anni, ed è divenuto un caso internazionale solo dopo che ho lasciato la Turchia. Prima ero una delle tante e dei tanti perseguiti per la libera manifestazione del proprio pensiero. I libri di Asli sono tradotti in francese e italiano, dunque la si legge e conosce. Moltissime persone come noi sono in prigione, torturate o uccise e fuori dal paese nessuno sa il loro nome. In fondo siamo due piccoli punti noti in quadro repressivo purtroppo vasto».

In che modo il processo è stato protratto per diciotto anni?
«La mia esperienza è stata un po’ particolare e ancora non è finita, si protrae da tanto tempo. Il processo è difficile perché sono stata accusata di aver compiuto un attentato, sbattuta con questa incriminazione infamante in prima pagina dalla stampa. Dopo l’arresto mi hanno torturata, ho trascorso due anni e mezzo in prigione senza che la pubblica autorità ammettesse che era a causa del mio lavoro accademico, universitario di ricercatrice, ma adducevano altre ragioni in tutta evidenza fittizie. Il processo può andare così a lungo, perché perdura e si riproduce la medesima struttura di potere che lo anima. Risulto sempre assolta, tuttavia la necessità è di non archiviare il caso. Quando diventi veramente un simbolo come me, non lo possono permettere. L’essere conosciuta a livello mediatico ti protegge e al contempo assumi tuo malgrado il ruolo dell’icona, che influisce in modo negativo ai fini della risoluzione».

Lei scriveva per il giornale Özgür Gündem, perché quelle pagine, le cronache sono così temute?
«È un giornale che fornisce notizie sulla situazione dei curdi. Non bisogna mai dimenticare che la Turchia è in guerra, e su entrambe i fronti quotidianamente ci sono dei morti. È un contesto di violenza assoluta e fino a quando non c’è la pace con la volontà bilaterale di risoluzione del conflitto, questa repressione straordinaria appare normale in un contesto bellico. Senza la discussione, la circolazione delle idee non c’è alcuna possibilità di stabilità e convivenza pacifica. Fino a qualche anno fa coltivavamo questa speranza in Turchia, perché con la violenza nulla si risolve. Ora il paese sta sprofondando in una spirale mediorientale e non solo per i curdi, per i siriani e poi gli iracheni. In questo momento non sussistono le condizioni per poter affrontare nel dibattito pubblico la questione curda».

Che cosa ricorda del giorno nel quale l’arrestarono?
«È stato l’inizio di un incubo e della resistenza. Ciò che non dimenticherò mai è la tortura, colpa delle scariche elettriche che mi hanno inflitto. Appena arrestata hanno perpetrato queste pratiche insieme alle botte, in assenza della mia volontà di delazione delle fonti intervistate per le mie ricerche e pubblicazioni. Hanno atteso non più di mezz’ora prima di torturarmi a livello fisico e psicologico. Resistenza perché non immaginavo giungessero a quel punto. Credevo potessero imprigionarmi a lungo. In Turchia, dopo la mia infanzia, tutti i principali sociologi, scrittori coscienti hanno provato la solitudine del carcere. Mio padre vi ha trascorso cinque anni. Non ritenevo di poter essere mai etichettata come una terrorista e di subire quel tipo di violenza».

L’esilio è l’unica cura efficace contro l’oppressione?
«Non penso, dipende dalle esperienze individuali. Non c’è una ricetta unica, ciascuno può decidere solo insieme alla propria coscienza. Se si cercava la giustizia in Turchia, bisognava esiliarsi, o rassegnarsi alla prigione, o ancora morire. Io non sono voluta fuggire. Ho resistito a lungo fino al 2009 pur di non lasciare la Turchia, dopo essere uscita dalla prigione nel 2002. In questo periodo ho lottato insieme a Hrant Dink, agli altri militanti, affermando che occorreva restare in Turchia. Tuttavia davanti al rischio dell’ergastolo ho maturato l’idea di partire. Non credo alle frontiere, sono immaginarie, non credo al concetto di Stato-nazione. Sono femminista, antimilitarista, libertaria e sento di appartenere a movimenti transnazionali: le lotte sono universali».

Nel libro La maschera della verità ricorda come il suo professore di lettere a scuola affermasse che le parole terrorista e armeno avessero una radice comune. È cambiato qualcosa?
«Terrorista è chi utilizza la violenza per terrorizzare l’altro e incutere la paura allo scopo di imporre le proprie idee e politiche. Anche gli Stati lo fanno. Spesso si fa un uso improprio di questa parola per squalificare dal dibattito pubblico chi contesta senza commettere delitti. Il pericolo più grave che corriamo è la legittimazione della violenza da una parte e dall’altra del fronte».

Lo Stato turco potrebbe sopravvivere al riconoscimento dei drammi e violenze del passato novecentesco?
«Il riconoscimento dei crimini commessi nel passato non ha indebolito la Germania. Al contrario dà la forza per l’avvenire. I potenti necessitano del negazionismo quanto della paura per dominare. Hanno paura della giustizia e dei suoi riflessi sul potere. Il negazionismo è decisivo per comprendere la continuità del sistema repressivo, della struttura politica repressiva in Turchia. Niente di nuovo, tutti immaginano che sia cominciato ora con Recep Tayyip Erdoğan e con le sue mire neoimperiali. Sono stata torturata diciotto anni fa e in precedenza la stessa sorte è toccata a mio padre. Bisogna capire la continuità del nazionalismo turco, la struttura nazionalista dello Stato, basandosi sul genocidio degli armeni rimosso e poi sul massacro dei curdi, sull’esclusione dei greci. Ripeto il genocidio è fondamentale per interpretare l’odierna struttura politica».

La dimensione multiculturale negata della società turca è stata distrutta senza ritorno?
«Ritengo sia già distrutta e non si possa tornare indietro, tuttavia si può creare qualcosa di nuovo, nuove ricomposizioni, il passato però non torna».

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giovedì 5 gennaio 2017

L'alfabeto di Gonçalo M. Tavares


di Gabriele Santoro

«Lavori lì da sei mesi e ancora non ti sei abituato?»
Matteo non risponde. Solo un no con la testa.
«Nessuno si abitua a quella roba», dice al suo amico Guzi.


È difficile, forse superfluo, il tentativo di classificare Matteo ha perso il lavoro (nottetempo, 150 pagine, 16 euro, traduzione a cura di Marika Marianello), che ne limiterebbe la potenza espressiva, valorizzata dal controllo che Gonçalo Manuel Tavares mostra sulla scrittura. L’esistenza di Matteo, l’unico che Tavares chiama per nome nel libro, costituisce il corpo centrale di un testo costruito in tre parti, che lo scrittore sostiene di tenere insieme con la ricchezza della cosa più preziosa: l’alfabeto. Nella prima parte leggiamo microstorie concatenate in rigoroso ordine alfabetico, da Aaronson fino a Levy, poi c’è la M, ed entriamo nella vita del personaggio nucleare.

Tra le figure precedenti nessuna lascia indifferenti, colpisce la maestria nel narrare il rapporto tra il cieco Goldstein e il suo amante, il prostituto Gottlieb, che per lui si è fatto tatuare sulla schiena la tavola periodica di Mendeleev in Braille. Colpisce il maestro Diamond che insegna, in una scuola sempre più assediata dall’immondizia, ai propri studenti a cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio. Matteo ci interroga sul dialogo con la realtà, sulla sua accettazione: «Comunque Matteo adesso aveva un lavoro. Tutto il resto era, malgrado tutto, secondario». Il libro si chiude con una postfazione, che è una riflessione aperta dell’autore sulla propria opera.

Tavares, di stanza a Lisbona, è nato nel 1970 in Angola, a Luanda, perché il padre lavorava lì. Da
adolescente amava il calcio e le scienze: «A diciotto anni ho veramente esitato sull’idea di diventare un calciatore professionista. O un matematico, la geometria mi ha sempre appassionato», ha raccontato. È diventato professore e scrittore, tra le principali della letteratura contemporanea non solo “portoghese”. Per molti anni ha scritto senza pubblicare nulla, fino al 2001, permettendo ai testi di sedimentarsi. Gli piace tradurre la sua scrittura in disegni, la considera una prova. Quando la trasmissione dei segni fallisce, significa che si è mosso troppo in là nell’astrazione e deve ricollocare i piedi nella realtà.

Tavares, che dice di scrivere per assecondare innanzitutto un bisogno fisico, in questo libro non afferma niente di perfetto, conclusivo sul mondo sospeso tra logica e assurdo, ma riesce nell’intento di investigarlo con una lingua chiara e intensa, restituita dalla traduttrice, che dà il piacere fine a se stesso della lettura.

Tavares, da scrittore, qual è il suo rapporto con le influenze della realtà?
«Mi piace pensare allo scrittore come a un personaggio strabico, un personaggio di un libro di Kurt Tucholsky talmente strabico che il mercoledì riusciva a guardare allo stesso tempo le due domeniche. Credo che lo scrittore debba essere un po’ questo, un personaggio strabico, che il mercoledì guarda sia la domenica passata, ovvero la storia della letteratura, sia la domenica successiva, l’offenen Tür, quello che voglio fare. Ha pertanto due occhi: uno che guarda la domenica passata e l’altro quella seguente, ma è sempre con i piedi piantati nel mercoledì, ossia con i piedi nella realtà, nell’attualità. Ritengo lo scrittore sempre immerso nella realtà, che da una parte legge, conosce la storia della letteratura e dall’altra vuole fare qualcosa di nuovo. Quindi la realtà è sempre presente per uno scrittore».

Qual è il valore aggiunto della short story in termini di intensità, struttura del testo e chiarezza nei confronti del lettore?
«L’intensità deve essere massima indipendentemente da quanto il testo sia grande o piccolo. Scrivere deve essere esigere l’intensità della frase, del testo o della storia. Non mi piace molto pensare in termini di differenze strutturali o di generi letterari, perché la letteratura comincia a partire dall’alfabeto. È importante non in quanto scritta avendo distinzioni nei generi letterari; credo che si scriva per testi e i testi devono essere densi, intensi e devono avere idee».

Gonçalo Manuel Tavares
Ci racconta il lavoro di tessitura che ha concepito per il mosaico di storie e protagonisti che si legano in Matteo ha perso il lavoro?
«È una storia pensata in ordine alfabetico. In primo luogo avevo un insieme di immagini funerarie con nomi e cognomi di origine ebraica: Aaronson, Baumann etc. Queste fotografie erano di un commerciante di lapidi funerarie in differenti formati con appunto cognomi di origine ebraica ed è stata la linea di partenza. Il libro è una specie di finzione in cui i personaggi fanno il loro ingresso in ordine alfabetico, in cui un personaggio si esclude con l’altro, ma chiaramente qui è in gioco una questione fondamentale, molto forte, perché ha a che fare con l’importanza dell’alfabeto e delle iniziali del nome delle persone. In Portogallo gli alunni della scuola primaria, fino ai dieci anni, siedono in ordine alfabetico, ossia: António, Anna siedono nelle prime file, mentre Zakaria e Frinos stanno in fondo. Quindi l’iniziale del primo nome determina il posto dove sedersi e la persona vicino a noi, la cui iniziale del nome è la stessa del nostro».

Che cosa rappresenta l’ordine alfabetico?
«Tale questione a proposito dei nostri nomi ha un ruolo fondamentale anche in situazioni tragiche come nei campi di concentramento. Alcune persone erano chiamate dai loro ghetti per andare nei campi di concentramento o da lì in altri posti persino peggiori in ordine alfabetico. E quindi molto spesso morte o salvezza dipendevano dall’iniziale del nome. L’alfabeto non è pertanto una questione semplice, bensì può determinare la vita delle persone: non è un simbolo né un segno, ma un qualcosa che ha a che vedere con la vita delle persone».

Lei dice che la pubblicazione è secondaria soprattutto per un giovane. Quando ha percepito di avere il controllo sulla propria scrittura che mostra qui e può spiegare il processo creativo col quale ha ripreso in mano e lavorato su testi scritti, poi lasciati sedimentare a lungo?
«Il mio metodo di scrittura è davvero un po’ strano: scrivo la cosiddetta brutta copia molto velocemente; poi, dopo aver terminato mi fermo, metto da parte il testo e lo dimentico, a volte per anni, anche sei; dopodiché torno al testo, una volta che me ne sono dimenticato, con lo spirito di un lettore che può interferire nel testo, e lì correggo, taglio, pulisco e solo più tardi lo pubblico. Per esempio Matteo ha perso il lavoro fu pubblicato nel 2010, ma devo averlo scritto nel 2004, 2005 o giù di lì. Ossia passano sempre molti anni dal momento della stesura a quello della pubblicazione. La mia idea di poter interferire in quanto lettore nel mio stesso testo e di dare tempo al testo deriva dal fatto che in qualche modo il testo è natura, è un tema organico».

Riprendendo le parole del personaggio di Cohen, l’uomo dei tic, la scrittura è il luogo dove sentirsi protetti dalla menomazione: quanto conta la scrittura in rapporto al proprio corpo e all’esperienza fisica?
«Scrivere ha molto a che vedere con il corpo. La considero un’esperienza fisica. Scrivere è un verbo simile a correre, camminare, saltare: un verbo fisico, non un verbo intellettuale, è un atto fisico quello di scrivere. Ovvio poi che scrivere coincide con il pensiero. Mi piace scrivere, sono totalmente sincronizzato con il pensiero: scrivere è il lavoro manuale del pensiero, sono le mani che pensano, ma è un lavoro fisico».

In che senso la letteratura è uno spazio dalle infinite possibilità e c’è un legame con la sua passione per la scienza, i numeri e la matematica?
«Tutto mi interessa: la scienza, sì, i numeri, la matematica; la logica, insomma. A otto anni pensavo molto in termini matematici, e in qualche modo conservo questa mia inclinazione per la matematica. Direi che nel Bairro dei signori [Lor signori, Nottetempo 2014, traduzione di Marika Marianello], la questione matematica è molto presente. Forse in Matteo ha perso il lavoro questa inclinazione logica non viene confermata da nessuna storia, ma direi che spesso quello che pervade il testo è un misto tra assurdo e logica».

L’acuirsi di un lungo ciclo economico recessivo ha cambiato la nostra percezione della disoccupazione?
«Direi che è un libro dove la questione, fondamentale da decenni se non da secoli, della disoccupazione è molto presente. Una persona disoccupata da tempo potrebbe accettare di fare qualsiasi cosa: questo è il pericolo. E abbiamo tante testimonianze: persone disoccupate da troppo tempo che accettano condizioni di lavoro sconcertanti. In questo caso Matteo, dopo un lungo periodo di disoccupazione, accetta di lavorare per una donna senza braccia per aiutarla nelle faccende domestiche e non solo, e in qualche modo c’è l’idea di questa violenza che troppo spesso viene esercitata sui disoccupati. La questione della disoccupazione, dell’angoscia a essa collegata, è millenaria, e quindi non è nuova né smetterà mai di essere attuale, purtroppo».

Quali sono le paure della contemporaneità che ritiene più interessanti investigare in qualità di scrittore?
«Ci sono molte paure contemporanee che mi interessano: la paura della disoccupazione è realmente una di queste; le paure create dall’eccitazione degli altri; le paure create dal disagio degli oggetti strani. Insomma: mi interessano paure contemporanee che sono anche paure antiche. Nel senso che spesso il mio studio sugli esseri umani è uno studio quasi animalesco: cercare di studiare le paure animalesche che persistono nell’uomo. Quasi tutte le paure degli esseri umani sono ancora paure animali».

Lei ha scritto anche per il cinema. Perché, a parte qualche pellicola ispirata, si fatica sempre più a raccontare il mondo del lavoro?
«Non so perché il cinema non faccia molti più film che trattino il tema del lavoro. Forse oggi il lavoro non è il tema centrale dell’arte, e forse è davvero un’astrazione dell’arte e del cinema. Se pensiamo al momento della rivoluzione industriale, alle grandi macchine, a Chaplin nei Tempi moderni, ci rendiamo conto che si trattava di una fase in cui la questione del lavoro era centrale. Stranamente oggi ci troviamo in tempi molto più moderni di quelli di Charlot, ossia oggi abbiamo molte più macchine che invadono il lavoro delle persone; tuttavia, stranamente, non ci sono molti film come quello di Chaplin: realmente c’è bisogno dei Tempi moderni del ventunesimo secolo. Un nuovo Chaplin che faccia film forti come allora».


La catena di montaggio dell’automobile è forse l’emblema della progressiva automatizzazione dei processi produttivi.
«Trovo che la grande tragedia del ventunesimo secolo consista nelle macchine che stanno soppiantando il lavoro umano. È un qualcosa che sta avvenendo in tutto il mondo e che diventa più grave nella misura in cui il tempo passa: è una grande invasione delle macchine, su questo non c’è dubbio. C’è un tipo di progresso tecnologico che non è progresso umano; quando la macchina sottrae posti di lavoro. Pertanto una delle grandi illusioni del nostro tempo circa il progresso tecnologico è che questo coincida con quello umano. Senza voler essere conservatore, dobbiamo guardare l’invasione delle macchine come fosse quella di un popolo che sembra più arrabbiato del peggiore degli eserciti – una rabbia contenuta e fredda, ma comunque rabbia – e che a poco a poco sta conquistando il nostro spazio».

Qual è l’importanza di dire NO? Nel libro sembra ambivalente: chi cambia il senso di marcia muore, mentre Kashine riesce a sottrarsi alle scelte imposte.
«NO è una parola forte. Per esempio Nietzsche dice che la nostra vita è determinata dai SÌ e dai NO, ma essenzialmente dai NO che segnano di volta in volta le nostre strade. Ed è interessante: molto spesso penso che nella mia vita fondamentalmente ci sono molti NO e due o tre SÌ: SÌ ad alcuni scritti e SÌ a determinate questioni familiari, mentre tutto il resto è NO. E realmente se avessimo due o tre SÌ tutto sarebbe più semplice. Ma concludendo: la parola è molto forte e ambigua: Kashine dice e scrive NO in vari punti e cambia il mondo, un po’ a causa, diciamo, dell’interpretazione che le persone fanno della parola NO. E ciò mi interessava in Matteo ha perso il lavoro, ovvero che il NO non è una parola esatta: può essere suscettibile di molte interpretazioni. Nella storia di Kashine c’è questo: ci sono le interpretazioni e le analisi del NO, le conseguenze, le diverse conseguenze del NO sparso ovunque».

In città tutto si consuma nell’istante, la democrazia come può resistere alla velocità?«Se la democrazia resisterà alla velocità: è una bella domanda. Penso che realmente la velocità sia uno dei nemici della democrazia, intendo persino in termini informativi. Oggi nelle democrazie non c’è censura nel senso classico del termine, di non voler mostrare qualcosa, ma da un altro punto di vista c’è chiaramente censura ed è messa in atto dalla velocità. Quando si mostra qualcosa che è molto importante ma lo si mostra rapidamente, a grande velocità, quando un telegiornale consuma ed esaurisce un tema rilevante in un minuto e poi in modo fugace passa allo sport e altri temi di varietà, quello che si sta facendo è una forma di censura: la velocità è una forma di censura. Quando acceleriamo in qualche modo nascondiamo qualcosa, un po’ come quando viaggiamo in un treno ad alta velocità: se il treno è molto rapido non riusciamo a vedere il paesaggio dal finestrino, giusto? Nessuno copre o nasconde il paesaggio: è la velocità a farlo. Così nelle democrazie la velocità assume in tutta evidenza il ruolo della censura».

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