giovedì 27 aprile 2017

L'arte a fumetti di Peter Kuper


di Gabriele Santoro

Peter Kuper, classe 1958, vincitore con Ruins nel 2016 dell’Eisner Award per il miglior graphic novel dell’anno, diventato bestseller internazionale, racconta di aver preso abbastanza tardi coscienza del proprio potere creativo. «Ho cominciato all’età di 15 anni col mio primo album, ma solo due anni dopo mi sono accorto dell’ispirazione. Ho capito di avere abilità limitate per il mondo che mi circondava. In un evento totale come la guerra sarei stato un semplice ostaggio quanto un tifoso sportivo. Pensai che il fumetto e le arti figurative in generale rappresentassero la mia opportunità di dire qualcosa sul mondo, l’unico mestiere che mi avrebbe reso felice», spiega.

La casa editrice Tunué ha portato da poco in libreria, col titolo Rovine (328 pagine, 34.90 euro, traduzione a cura di Vanni Santoni), l’opera potente per qualità dei disegni, uso del colore e sostanza della storia di uno dei principali fumettisti d’oltreoceano, pubblicato tra gli altri da Time, Newsweek, The New Yorker, The Nation e New York Times. Per comprendere il tratto e l’impegno occorre risalire della rivista World War 3 Illustrated, nella quale si rintracciano i temi e le prerogative artistiche, sociali e politiche di Kuper, che sta lavorando a un nuovo adattamento scenico dei testi di Kafka.

«Stare qui mi fa sentire come quando ero bambino./ Il modo in cui il mio cuore schizzò la prima volta che vidi il battito d’ali di una farfalla./ Fu ciò che mi fece desiderare di diventare un pittore./ Provare a catturare la bellezza della natura su una tela./ È come aver varcato un portale verso il passato./ In mezzo a tanta distruzione, avevo dimenticato quanto la vita persista…». A parlare è George, che ha deciso con Samantha di trasferirsi da New York per vivere insieme un anno sabbatico nel centro messicano di Oaxaca, nel quale incontrano la resistenza, repressa nel 2006 con la violenza, degli insegnanti in sciopero. Lei deve finire il proprio romanzo e rielaborare una tragedia del passato. Lui vuole riscoprire la propria vocazione. È un graphic che ti pone davanti alla necessità di misurare quel che hai fatto e quello che potrai ancora fare.

Al loro viaggio si sovrappone quello di una farfalla monarca che migra dal Canada in Messico. «Rovine è il frutto di tanti anni di gestazione e svariati altri di matita, penna e acquerelli, più un tocco di “polvere magica digitale”», dice Kuper. E sembra volerci ricordare, come la farfalla con la propria levità, quanto tutta la bellezza consista nella fatica e nella resistenza lungo il nostro viaggio.

                               

Kuper, il suo essere artista è anche una storia di amicizia e indipendenza fin dai primi passi. Ci descrive la fertilità del rapporto con Seth Tobocman, col quale fondò nel 1979 World War 3?

«Siamo cresciuti insieme a Cleveland in Ohio e appena adolescenti abbiamo realizzato la prima fanzine. Ci siamo trasferiti a New York accomunati dalla passione per i comics e per coincidenza frequentammo anche la stessa scuola di arte presso il Pratt Institute. Da subito disegnavamo fumetti dai contenuti politici e sociali. Vedevamo i nostri lavori appesi sui muri, stampati sui flyer. Tutto ciò all’alba del potere di Reagan, dal quale non potevamo astrarci. Sentivamo di voler intercettare e catturare la prospettiva di chi intendeva resistere, una direzione contraria a quella che stavano prendendo gli Stati Uniti. Nell’underground il fumetto era morto, la sua distribuzione relegata a spazi angusti, e molti avevano dismesso i panni dei rivoluzionari. Saremmo potuti appassire, aspettando che qualche movimento risorgesse intorno a noi. Ma avevamo già esperienza di che cosa significasse stampare e ci siamo organizzati. Creavamo e stampavamo, allargando il campo delle collaborazioni con chi iniziava ad apprezzare la nostra libertà».

World War 3, giunta quasi ai 40 anni di pubblicazioni, si sporcava le mani con temi più che mai attuali: il clima della Guerra Fredda, il conflitto nucleare, la questione ambientale e le crescenti disuguaglianze sociali, l’arretramento dopo un periodo di conquiste.

«Percepisco la stessa urgenza di quando concepimmo il primo numero della rivista. Reagan è stato rimpiazzato da Trump, cambiano le facce ma i problemi non solo sono uguali ma in alcuni casi si sono espansi. Nel 1979 ero preoccupato dalla guerra nucleare e dai disastri ambientali che oggi sono al centro dell’agenda mondiale. Tanti artisti sono confluiti nella rivista e l’entusiasmo per la sua creazione è forte come lo era in principio».

Che cosa significa fare giornalismo con i fumetti e la satira?
«Nella sua manifestazione migliore, quando l’arte muove le idee, è uno strumento per comunicare con le persone e non solo di condivisione tra una cerchia ristretta. Informare col compito di lasciare se non altro documenti storici che testimonino a chi verrà il sentimento e i pensieri che caratterizzano ciascuna stagione. Oggi credo che l’arte giochi un ruolo determinante nello scegliere i soggetti e tematizzare le istanze più urgenti».

Gli eventi traumatici dell’Undici Settembre statunitense hanno portato all’arruolamento politico anche degli artisti e che cosa è cambiato?
«All’epoca dominava l’impossibilità di pubblicare qualsiasi idea che non corrispondesse alla chiamata alle armi in ogni luogo di espressione convenzionale. Disegnare ha aiutato molti di noi a misurarsi e riprendersi dalla tragedia. Scrivere o appunto disegnarne è stata una grande forma di catarsi e di connessione con le altre persone, dicendo cose diverse dal richiamo alla guerra. La Biblioteca del Congresso ha incluso la mia cover per World War 3. Oggi all’inizio della presidenza Trump, arruolarsi equivale a resistere, per non restare sotto le coperte del proprio letto terrorizzati. Disegnare costituisce la mia motivazione per alzarmi la mattina e sento che specialmente ora per gli artisti sia il momento di sventolare una bandiera nella quale le persone possano riconoscersi, per non smarrire la mente al cospetto dell’insanità».

Il racconto del Messico confinante appare spesso superficiale e appunto irrazionale. Lei non nasconde l’oscurità, sapendo però illuminare e talvolta abbagliare con tutta la vita che c’è.

«Dopo aver vissuto là per quasi due anni è come fosse diventata la mia seconda casa, dunque la prospettiva personale è cambiata completamente. Mi imbatto spesso nella distanza tra quello che leggo sui giornali e la vita. La criminalità è diffusa ovunque ci sia l’uomo, non è associabile solo al Messico. È assurdo rappresentarlo con una prospettiva tanto xenofoba, ci priva di tutte le connessioni culturali, le bellezze non solo del Messico ma del Sud America. Per me si sono dischiuse porte di comprensione di una cultura e arte che ha influenzato fortemente la mia. Mi sono sentito inadeguato davanti a un patrimonio culturale e di storie vasto. Rovine è stata l’opportunità di esplorare quella storia, disegnarla: due anni di vita racchiusi dentro a un libro».

Ha percorso qualche traccia autobiografica particolare?

«Sì, con la migrazione della farfalla pongo uno sguardo potente sulla mia infanzia. Prima dei fumetti ero interessato agli insetti e alle farfalle in particolare, e sentii raccontare di questo luogo in Messico dove tutte queste farfalle monarca si accoppiavano. È stato come un sogno pensato, vidi qualcosa su National Geographic e potevo solo immaginare come sarebbero state. Vedere dal vivo milioni di farfalle mi ha trasmesso una quantità inattesa di speranza. È tantissima vita concentrata, aiuta ad avvertire una connessione spirituale con la bellezza del mondo. Sono riuscito a portare e rinnovare la passione infantile per gli insetti. Negli Stati Uniti stanno scomparendo, se ne vedono sempre meno a causa della chimica».

«Pensa a quanto hanno viaggiato queste farfalle per potersi accoppiare…Hanno volato migliaia di chilometri e tutto per riprodursi». La farfalla, creatura così minuta, giunge così lontana, simbolo di resistenza e bellezza.
«Uso la farfalla monarca come una metafora, un insetto minuscolo che sorvola dal Canada per duemila, tremila miglia sfidando l’inquinamento, i problemi ambientali, le calamità naturali che uccidono altri animali. La guida una sorta di miracolo: il cibo di cui si nutre contiene un veleno, per questo le altre specie non vogliono mangiarla ed è una ragione della sopravvivenza in una marcia così lunga. Ci sono anche altri livelli di lettura narrativa, l’idea della sostanziale porosità delle frontiere rispetto all’esigenza di chi emigra e la stessa volontà del viaggio in Messico della coppia, George e Samantha. In fondo il libro è dedicato agli impollinatori d’ogni dove».

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venerdì 21 aprile 2017

Un'educazione milanese, operaia


di Gabriele Santoro

«Allora non sapevo che la mia era una famiglia proletaria. L’aggettivo mi sarebbe suonato ostico. Perché mio padre preferiva l’aggettivo “operaia”. Sapevo che da una parte c’erano i poveri dall’altra i ricchi, e in mezzo noi». Un’educazione milanese (Manni, 317 pagine, 16 euro), tra i dodici titoli in lizza per il Premio Strega, è il romanzo intimo di Alberto Rollo, che sa mantenere la responsabilità di raccontare una città, Milano, che fatica a dirsi.


Rollo ha camminato e cammina per la città, esprimendo «la certezza che Milano mi ha voluto, che appartenevo ai suoi sobborghi. Al suo popolo». Quanto siamo esposti all’educazione che la città con la sua vita, le sue forme e stratificazioni sociali anima? Che cosa vuol dire appartenere a una città? Questioni complesse, che l’autore affronta partendo da quella che definisce la lingua parlata dalla città del lavoro; un quartiere, storie e un codice comune senza cesure linguistiche proprie della migrazione. Nel 1909 il nonno arrivò al nord da Lecce. Rollo sostanzia nei ricordi un’appartenenza di classe forte, oggi invece così sfumata, privata della consapevolezza propria di una specie particolare di educazione milanese: «Un’educazione milanese non poteva prescindere dalle officine. È stata certamente una garanzia contro la volgarità», scrive.

L’esplorazione delle linee ferroviarie che intersecano la città coincide col tempo dell’infanzia. Il racconto della scoperta del mondo è un paesaggio dominato da ponti, ferrovie e scali ferroviari «che sono diventati il vero nodo politico ed economico della metamorfosi metropolitana». Rollo volge lo sguardo alla figura paterna, apprendista metalmeccanico all’età di dodici anni, essenziale nella stratificazione di un testo più ricco di un memoir. È domenica, i due perlustrano i luoghi della distruzione e della ricostruzione del secondo dopoguerra mondiale, della città poi d’acciaio del boom economico: «Milano aveva resistito, non lo vedevo? E non era la Milano dei potenti che aveva resistito, loro ci avrebbero mandato al macello».

Il lavoro, che nel lessico di Un’educazione milanese non è alienazione, costituisce il filo conduttore dell’intera riflessione: «Lavoro nel lessico famigliare non ha mai coinciso con “produrre” o “rendere”: significava semplicemente “fare”, “creare” e “sentire la fatica”. Concetti che la mia generazione si è impegnata, giunta la stagione degli eroici furori, a spezzare come aculei ideologici conficcati nel corpo della classe operaia. Col risultato di non comprenderne la specificità e di lasciarli dentro a marcire. E, marcito il concetto, sono marcite anche le parole».

In questo ritratto che è anche politico e sociale dell’Italia del secondo dopoguerra emergono il conflitto e la ribellione alla generazione dei padri, la passione del cinema e le sperimentazioni del teatro, i movimenti e la violenza di matrice politica da dentro o fuori. C’è la Milano attonita dopo la strage di piazza Fontana, e quella che svanisce nella dizione Milano da bere.

Al contempo Rollo esplora in profondità e con levità l’assenza, la potenza di un’amicizia, il venire meno di una generazione che «è stata la prima ad avere occhi diversi». La stessa promessa di rivoluzione, che l’autore storicizza essenzialmente tra il 1967 e il 1975, suggeriva che poi ognuno avrebbe ripreso posto nella classe di origine: «Al di là della tensione genericamente politica, quella necessità di trasformazione era vincolante come una preghiera: i primi a volerla abbattere erano nati dentro quella classe, la conoscevano, e vi sarebbero ritornati, con diversi livelli di consapevolezza». E ancora: «(Chiara) Aveva riconosciuto fra i primi la ricchezza culturale che la mescolanza di generazioni e provenienze sociali aveva provocato e fu tra i primissimi a riconoscere la drammatica evidenza che il gioco stava finendo, che era durato poco perché poco doveva durare, e che era arrivato il momento di serrare le porte, di schierarsi con i suoi diritti di nascita».

La biografia collettiva, che era un noi raffigurato in modo struggente, ora si confronta con gli esiti personali di trasformazioni sociali, urbanistiche ed economiche profondissime nelle quali risultiamo sospesi tra lo smarrimento e la ricerca di nuove identità composite. Rollo nella città che rincorre uno sviluppo verticale e gentrifica, ispeziona cantieri, fotografa lavori in corso, legge i progetti: «Voglio verificare se questo futuro rovesciato in un presente difficile, spesso volgare, spesso politicamente assordato di retorica, sappia rivelare, una volta di più, quel tessuto connettivo vivo e non compromesso che ha consentito a Milano di sopravvivere. Cerco ponti in cui lo spaesamento e il sentirmi a casa coincidano. E su quei ponti finiscono con l’apparire, tenere e meridiane, le figure che mi riconducono là dove io sono cominciato e dove è cominciata per me questa città».