sabato 27 maggio 2017

«Sono un sindacalista di cuore». Intervista a Paco Ignacio Taibo II


(l’autore ringrazia Maria Pina Iannuzzi per la traduzione)

di Gabriele Santoro

«Il nemico non sarà chi è nato dall’altra parte della frontiera, né chi parla una lingua diversa dalla nostra, bensì colui che non ha la ragione, colui che vuole violare la libertà e l’indipendenza degli altri». Paco Ignacio Taibo II ha costruito a immagine e somiglianza di queste sue parole i quattro protagonisti della novela negra y policiaca L’ombra dell’ombra (la Nuova frontiera, 235 pagine, 16.50 euro), ambientata a Città del Messico all’alba degli anni Venti del secolo scorso, quando al potere c’era il generale Álvaro Obregón che promise agli statunitensi di non espropriare gli interessi delle compagnie petrolifere.


I quattro tipi intorno ai quali lo scrittore costruisce il romanzo sono un giornalista di alta levatura, Manterola che nella cronaca nera ritiene vi sia la vera letteratura della vita e vi ritrova l’anima del mestiere; Tomás Wong, ex operaio di una compagnia petrolifera, cittadino di molti mondi e sindacalista sulla barricata; l’avvocato Alberto Verdugo ribellatosi al destino da latifondista previsto dalla famiglia per difendere prostitute e Fermín Valencia, poeta per vocazione e pubblicitario per fame.

I personaggi sono coerenti nella volontà di andare avanti sulle tracce della lotta politica a sinistra, quando tutto sembra svanire: «E se si può chiamare illusione quel miscuglio di vaghe aspirazioni che, a mano a mano che passano gli anni, finiscono col diventare pretesti per continuare a vivere». Si narra quel che succede quando una rivoluzione, come quella messicana, viene sconfitta. I quattro investigano su una serie di attentati, nei quali sono coinvolti casualmente, nel contesto di un tentativo di un gruppo di militari di occultare il fallito piano per la creazione di una repubblica indipendente nell’area petrolifera nel nord del paese. L’intreccio è altamente frammentato, riuscendo nell’ambizione di raffigurare il tumulto degli eventi politici e sociali di un’epoca.

Paco Taibo, le dissero che era impossibile radicare il romanzo polar in Messico, perché era un genere anglosassone. Lei ha mostrato che non era così, mischiando le carte col romanzo storico e d’avventura. Quanto considera ancora il giallo in grado di appropriarsi di frammenti di mondo e saperli raccontare?
«L’immaginazione di uno scrittore noir o di romanzi polizieschi è superiore a quella di tutti i comandanti di carabinieri, questura e riesce così ad andare più in profondità; perciò il romanzo noir ha la strana virtù di essere più realista della realtà. Credo che abbia la stessa virtù che ha caratterizzato la comparsa del neopolar negli anni ’70 – ’80 del secolo scorso, è la cosiddetta teoria dell’iceberg: viviamo in una società nella quale l’iceberg è visibile al 10%, mentre il 90% rimane sott’acqua. La visione prodotta dal giornalismo, la sociologia, l’analisi politica percepiscono soltanto quel 10% e non arrivano a comprendere il restante. Il giallo ben fatto approfondisce molti aspetti, anzitutto consente l’uso della visione soggettiva e si entra nella psicologia, collegando il mondo soggettivo dei personaggi. La seconda virtù del romanzo noir di qualità è la capacità di riunire elementi apparentemente dispersi e accostarli, metterli in relazione. L’ombra dell’ombra è in effetti un romanzo storico di avventure con un cuore giallo poliziesco, che racconta il dopo la sconfitta della rivoluzione messicana negli anni Venti».

La prima edizione del romanzo risale al 1986 e ha segnato una svolta nel suo percorso letterario. In che modo lo guarda oggi?
«Temevo per il linguaggio, la storia e che a nessuno importasse più quello che è accaduto in Messico negli anni Venti. In vista della riedizione italiana, ho riletto la versione spagnola del libro e mi è sembrato che, stranamente, il linguaggio non fosse affatto invecchiato. Ho la sensazione di unire generazioni di lettori. La trama della cospirazione, complotti per impadronirsi delle risorse paese, nella cospirazione continua a essere di grande attualità nella nostra società, perciò mi è parso un libro notevolmente moderno. Doveva essere una cospirazione messicana, che assomiglia a quelle italiane: ogni apparenza di realtà è falsa, ogni spiegazione plausibile è falsa, ogni spiegazione ufficiale è una grandissima menzogna».

Lei articola la dinamica del rapporto tra oppresso e oppressore, e anche la sua sovversione. La scelta di non avere uno sviluppo lineare del giallo con quattro protagonisti, al posto del classico personaggio centrale che domina tutta la trama, corrisponde all’intenzione di costruire un’identità collettiva?
«Nei miei incubi peggiori riguardanti la letteratura ci sono le etichette affisse sul petto, c’è la figura di colui che attacca i prezzi ai prodotti al supermercato. Il libro è nato come una contraddizione, la letteratura è scontro, è conflitto senza gerarchia. In tutti i miei romanzi ci sono dei disobbedienti al discorso che ci viene imposto e asfissia. Dicevano che non potevo cambiare il mio modello, perché stava funzionando bene, i libri vendevano con un grande impatto sui lettori. E io ho cambiato.
Ho detto no a un solo personaggio che assorbisse la scena per un romanzo che dividesse la centralità. Ne volevo quattro, molto diversi tra loro e straordinariamente forti, che con la stessa grande intensità si contendessero il cuore del libro. Questo mi avrebbe permesso di distribuire l’informazione, di farla arrivare in maniera frammentaria in modo da costringerli a sedersi per rimettere ogni tassello al proprio posto. È un po’ la sensazione con cui vivo, abbiamo bisogno di sederci per riunire l’informazione, perché ciò che ci arriva frammentariamente non dà una visione d’insieme. Ciò era essenziale per toccare i problemi sociali del 1922, momento in cui la rivoluzione messicana è stata sconfitta, con quattro punti di vista indomiti».

Quanto le interessava che L’ombra dell’ombra fosse anche una rilettura critica della Rivoluzione messicana, una reazione al disincanto della fase istituzionale?
«Pancho Villa è morto, Zapata è morto, la rivoluzione era ormai perduta e i problemi sociali persistevano. Desideravo, quindi, che i quattro personaggi ricostruissero una visione d’insieme della tensione sociale del Messico post-rivoluzionario. Mi aiutava a fare la domanda che il libro esprime: chi ha vinto la rivoluzione messicana? Noi no, noi l’abbiamo persa. Le buone intenzioni della rivoluzione furono manipolate dagli opportunisti dell’antico regime col proposito di conservare il potere. Ho maneggiato la nostalgia dell’utopia. La letteratura mi ha aperto la porta e a partire da ciò, ho cominciato a studiare seriamente la rivoluzione, finendo per scrivere la biografia di Pancho Villa».

Nel romanzo è molto importante la dimensione del gioco. Qual è il senso del domino?
«Ho una relazione interessante con il domino, me lo propose mio nonno, che l’aveva appreso in una carcere spagnola condannato a morte perché era un commissario politico di un battaglione socialista. Come tutti i socialisti era un po’ autoritario, gli piaceva tantissimo vincere sul nipote e mi massacrava senza spiegare nulla. Negli anni Settanta ho imparato a giocare a domino sul serio durante gli scioperi davanti alle fabbriche in Messico. Tra dibattiti e altro giocavamo in modo quasi violento. Fondamentalmente avevo bisogno di un posto, dove i personaggi potessero riunirsi e raccogliere informazioni e dove si creasse un metalinguaggio. Si parla del gioco, ma al tempo stesso si parla di ciò che sta accadendo e il pretesto è il domino che è un gioco d’astuzia, di riflessione, per indovinare che cosa hanno i nemici».

Fra i personaggi c’è una figura a lei cara, che ricorre, quella del sindacalista. Che cosa ne è oggi del sindacato?
«Sono un sindacalista di cuore, sono stato sindacalista militante per molti anni della mia vita e continuo a essere in contatto con i sindacati più vicini alla lotta che ci sono in Messico. Sono cresciuto in una famiglia in cui il massimo rispetto che si poteva ottenere consisteva nel parlare del sindacato asturiano dei minatori. Per me il sindacalismo non è una scelta difensiva, è una scelta offensiva, soprattutto nella misura in cui nelle nostre società sta crescendo in modo brutale, smisurato e assurdo il lavoro precario. Tra dieci anni chiederemo a un giovane cosa significa la parola “vacanza” e non saprà di cosa stiamo parlando. Maledizione! Abbiamo impiegato un secolo ad ottenere tutto questo! Chiederemo ai giovani cosa significa “riposo del settimo giorno” e ci risponderanno “del settimo che?”. Chiederemo loro cosa significa anzianità di servizio e ci risponderanno “quale anzianità se lavoro con contratti di sei giorni, di undici giorni, di un mese e mezzo?”. Tutti quei risultati raggiunti nella vita quotidiana dei lavoratori, del mondo dei lavoratori, si stanno perdendo e il sindacalismo, quello vero, non gli apparati burocratici sindacali, è l’unica possibilità di frenare questo processo di distruzione di valori che considero universali».

martedì 23 maggio 2017

Prima di Capaci. Falcone visto dagli Stati Uniti


di Gabriele Santoro


Alle 17.56 del 23 maggio 1992, su una curva dell’autostrada che dall’aeroporto di Punta Raisi corre verso Palermo, la potentissima deflagrazione di oltre cinquecento chili di tritolo, scavando un cratere, uccise Giovanni Falcone insieme alla moglie Francesca Morvillo e agli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Sopravvissero all’attentato i poliziotti Angelo Corbo, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello, che viaggiavano sulla terza auto blindata di scorta. Con loro è sopravvissuto Giuseppe Costanza, autista di Falcone, che sedeva nel sedile posteriore della vettura guidata dal giudice.

Francesca Morvillo e Giovanni Falcone

A quell’ora i sismografi dell’Osservatorio geofisico di Monte Cammarata (Agrigento) registrarono un piccolo evento sismico con epicentro fra i Comuni di Isola delle Femmine e Capaci dovuto all’esplosione del tritolo.

Nel 1979, quando il terrorismo di stampo mafioso aveva ucciso da non molto il giudice Terranova, Falcone, palermitano classe 1939, nato alla Kalsa in una famiglia della piccola borghesia siciliana, era arrivato al Palazzo di giustizia di Palermo dopo l’esperienza a Trapani, dove si era occupato di giustizia civile. Rocco Chinnici l’aveva chiamato a Palermo e lui passò immediatamente alla magistratura penale.

Il fenomeno mafioso è unico e unitario, e solo in una visione complessiva, globale si possono poi studiare e approfondire le singole strategie, ci ha spiegato innanzitutto Falcone. Follow the money era il suo metodo. Seguire le tracce del denaro, perché il riciclaggio di denaro costituisce il cuore dell’attività mafiosa. Falcone inaugurò un nuovo metodo investigativo che rivoluzionerà la storia della lotta a Cosa Nostra.


Prima di Capaci. Falcone visto dagli Stati Uniti

«(…) L’Ambasciatore ha chiamato il Segretario generale del Presidente Cossiga, Sergio Berlinguer, per manifestargli le proprie preoccupazioni. Berlinguer ha assicurato all’Ambasciatore che la questione sarà chiarita domani e che l’impegno antimafia sarà rafforzato. (…) Gli Stati Uniti hanno un forte interesse a preservare il pool e i magistrati che ne fanno parte. Le nostre agenzie di investigazione hanno una forte e attiva collaborazione con l’Ufficio Istruzione di Palermo.

Questa relazione, sia personale che professionale, è cresciuta negli ultimi otto anni e si è dimostrata indispensabile nel successo di indagini e di procedimenti svolti congiuntamente in Italia e negli Usa in casi di criminalità organizzata e traffico di stupefacenti. Nonostante che l’Ufficio Istruzione di Palermo sia piccolo, si occupa di molte delle più importanti inchieste di comune interesse tra i nostri Paesi. Ogni cambiamento significativo nel personale del pool, e particolarmente la perdita di Giovanni Falcone, danneggerebbe questi procedimenti», si legge in un estratto del cablogramma confidenziale E14, datato 3 agosto 1988, mittente l’Ambasciata statunitense a Roma, destinatario il Dipartimento di Stato.
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino insieme ad Antonino Caponnetto
Agli americani piaceva quel magistrato palermitano tenace. Lo consideravano insostituibile, alla stregua di un proprio eroe nazionale. Falcone era l’unico che potesse offrire una visione d’insieme, completa, del crimine transnazionale. Aveva fatto comprendere loro la proiezione internazionale del metodo mafioso. Per dirla con le parole di William Sessions, già direttore del Federal Bureau of investigations: «Ci aiutò a prendere consapevolezza del fatto che per sconfiggere le mafie era necessaria una più stretta collaborazione di tutte le agenzie di law enforcement». Oltreoceano ammiravano il coraggio, la coerenza dell’impegno, la capacità di soffrire, di sopportare molto più degli altri senza arrendersi mai. Aveva conquistato senza servilismi la fiducia necessaria a soddisfare interessi reciproci. Gli americani amavano la sua concretezza, le capacità di analisi e non hanno dimenticato Falcone.

Le righe d’apertura del cablogramma confidenziale E14, datato 3 agosto 1988, rappresentano molto, ma non tutto, di una relazione speciale, che ha fatto esercitare i professionisti dell’italica arte del sospetto. Lo possiamo leggere grazie al lavoro prezioso di Giannicola Sinisi, all’epoca giovane magistrato pugliese, appena giunto a Roma, che Falcone volle al suo fianco nel lavoro da Direttore degli affari penali del Ministero della Giustizia. Un patriota siciliano, così Rudolph Giuliani soprannominò il Giudice. A sicilian patriot (Cacucci editore, 134 pagine, 10 euro) è il titolo scelto da Sinisi per un contributo davvero originale, seppure parziale per sua stessa ammissione, a una verità ancora da scrivere.

Sinisi, magistrato della Corte di appello di Roma, con un’esperienza parlamentare e da sottosegretario al Ministero dell’Interno, è stato dal 2009 al 2013 consigliere giuridico presso l’Ambasciata italiana a Washington DC. Ha avuto la fortuna di chi sa dove cercare e quella delle coincidenze quando hanno un’anima. Una mail di Daniel Serwer, vice capo missione dell’Ambasciata statunitense a Roma dal 1989 al 1993, gli ha segnalato l’opportunità di chiedere al Dipartimento di Stato i cablogrammi, che a sua memoria contenevano elementi d’interesse, intercorsi tra le due capitali negli ultimi anni di vita di Falcone. Ma il tempo non tradisce ancora ragioni di riservatezza, motivi di classificazione, ostativi alla completa divulgazione. In un primo momento la richiesta di Sinisi, datata 26 ottobre 2010, s’inabissò nel polverone della vicenda Wikileaks.

Un incontro fortuito, una svolta, in qualche modo ha sbloccato poi la pratica. Dopo una lezione tenuta al Foreign Service Institute, dove vengono addestrati i diplomatici statunitensi e funzionari delle agenzie federali, una studentessa riconobbe nel docente Sinisi il mittente dell’istanza depositata al Dipartimento di Stato. Una pratica che la stava occupando. Non toccarono l’argomento, ma a un mese di distanza, nel mese di marzo 2011, il magistrato pugliese ha ricevuto il plico con parte dei documenti richiesti. Ventisette cablogrammi rilasciati integralmente, quattro con degli omissis, uno non rilasciato, ancora disposto il mantenimento della classificazione di segreto, nove da rintracciare e richiedere ad altre agenzie originatrici, che avrebbero dovuto autorizzare la declassificazione. Nell’aprile 2012, disattendendo abbondantemente i tempi tecnici, il Fbi consentì l’accesso a solo uno di quei nove documenti.

«Così moriva la mia fiducia nel sistema amministrativo statunitense, il mio apprezzamento per l’intuizione democratica di Lyndon Johnson del Freedom of information act e del tempo trascorso per cui un’indagine del 1989 non avrebbe potuto essere considerata ancora soggetta a segreto», ha scritto l’autore.

Il materiale ottenuto tuttavia riesce a ritrarre un punto di vista compiuto, le reazioni del partner atlantico nel susseguirsi degli eventi di una storia italiana cruciale. A sicilian patriot sembra quasi assolvere a una necessità espressa limpidamente anni fa da Maria Falcone, sorella del giudice.
«Molti lo ricordano ancora oggi per il rigore delle sue indagini, riconoscendogli, anche a livello internazionale, la grande professionalità e il merito di avere scoperto cosa significasse Cosa Nostra. Pochi ricordano i momenti più tragici della sua vita e gli attacchi subiti anche da chi riteneva amico e il grande isolamento in cui fu costretto a vivere, rendendo ancora più pericolosa la sua vita».

Queste parole sono tratte dalla prefazione di una raccolta di testi (Falcone e Borsellino, la calunnia, il tradimento, la tragedia) altrettanto interessante, curata da Giommaria Monti. Le numerose battaglie perdute da Falcone, lo sconforto, l’amarezza mitigata dalla fermezza paradossalmente accrebbero la sua figura e la stima delle autorità d’oltreoceano.

A tal proposito Sinisi afferma: «Ho ricavato la sensazione che negli Stati Uniti la considerazione di chi lo ha incontrato sia persino maggiore che in Italia; e ho fatto una grande fatica, anche morale, a darmene una spiegazione. Negli Usa ho constatato un’ammirazione pura, senza riserve e senza interessi. Ho cercato di immaginare un Giovanni Falcone nato e vissuto negli Usa». Per poi aggiungere: «La prima statua di Falcone è stata eretta a Quantico nell’accademia del Fbi, nel 1994, mentre per avere una lapide commemorativa al Ministero della Giustizia si dovette aspettare fino al 2002, e a Capaci anche di più». I colleghi americani non hanno mai mancato una commemorazione, qui e là.

Dopo l’eccidio di Capaci l’ambasciatore Peter Secchia organizzò un incontro privato con i familiari di Falcone, accompagnati in quell’occasione da Sinisi. Fa una certa impressione leggere alcune dichiarazioni dello stesso Secchia riguardanti il rapporto con la famiglia: «“L’ambasciatore è l’unica persona di cui ci fidavamo, il nostro Stato non è stato in grado di proteggere mio zio”. Dagli effetti personali del giudice mi spedirono una penna. Ciò mi commosse profondamente», ha rievocato in un’intervista del giugno 1993 per The Association for Diplomatic Studies and training. Due giorni prima dell’attentatuni Falcone consumò un’ultima cena a Villa Taverna, residenza dell’Ambasciatore degli Stati Uniti a Roma.

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lunedì 1 maggio 2017

Ritorno a Portella della Ginestra

di Gabriele Santoro

A Portella della Ginestra s’incontra la storia d’Italia, titolava un articolo de L’Unità. Era il trenta aprile del 1950. Nel giugno del 1983 Rocco Chinnici, un mese prima di essere ucciso dall’esplosione di un’autobomba, spiegò a Giuseppina Zacco, vedova di Pio La Torre, quanto fossero collegate le indagini su Portella della Ginestra e quelle sui delitti politici Reina, Mattarella e dello stesso La Torre.


Portella della Ginestra rappresenta il primo snodo chiave di vicende repubblicane, che hanno il tratto di episodi politici e al contempo appartengono alla storia criminale del nostro paese. Per usare le parole dello storico Salvatore Lupo è stata la prima strategia della tensione nella storia della Repubblica.

Nei pressi della Piana degli albanesi, gli undici morti, fra i quali due bambini e una donna incinta, e i ventisette feriti in un giorno di festa furono un atto politico reazionario, avverso all’anelito di redenzione e affrancamento dal sottosviluppo delle masse diseredate siciliane. Colpire il latifondo e spingere per una politica economica differente, erano le intenzioni. Un censimento del 1936 rilevava che all’epoca i quattro quinti degli addetti all’agricoltura non possedevano terra o erano contadini poveri. 

Nella prefazione della significativa riflessione di La Torre Comunisti e movimento contadino in Sicilia, Rosario Villari fissa alcuni punti. Innanzitutto quell’esperienza di lotta fu d’ispirazione democratica e riformatrice. Da lì prese l’avvio la costruzione di una struttura politica e associativa moderna, basata sui partiti nazionali e non più su formazioni personalistiche e autonome locali.

La breccia era stata aperta da Fausto Gullo, un comunista, ministro dell’agricoltura nel secondo governo Badoglio. Nell’ottobre 1944 varò due decreti per l’assegnazione delle terre incolte e mal coltivate ai contadini, ovviando alla necessità di un aumento della produzione di grano, e per il miglioramento della ripartizione dei prodotti della mezzadria impropria a favore dei contadini lavoratori, con potenziali effetti positivi sui redditi. Tali provvedimenti si scontrarono con il potere del gabellotto mafioso, l’intermediario che prendeva in affitto la terra dei grandi agrari assenteisti per poi darla in subconcessione, a condizioni strozzinesche a mezzadri e coloni. In Sicilia alle elezioni del 20 aprile 1947 era accaduto poi un fatto nuovo e detonante: la sinistra, socialisti e comunisti uniti nel Blocco del popolo, aveva vinto, superando la Democrazia cristiana di Alcide De Gasperi.

Di fronte a una vera e propria lotta di liberazione dal dominio dei grandi proprietari terrieri, animata dal movimento contadino siciliano, e al mutare delle condizioni degli equilibri internazionali e interni dopo la Seconda Guerra Mondiale con la rottura dei governi di unità nazionale, dell’unità delle forze del CLN, si scatenò un ampio fronte reazionario di conservazione del quale a settant’anni dalla strage non sono stati delineati tutti i responsabili.

Dopo i morti di Portella della Ginestra in quattro anni furono uccisi 36 dirigenti sindacali. Lo storico Francesco Renda la definì un’ondata di terrorismo agrario mafioso: «La strage di Portella fu un’azione concertata. C’era un’intelligenza politica dietro il fatto che poi non si è riusciti a individuare». Il processo istruito a Palermo e poi spostato a Viterbo per legittima suspicione si concluse nel 1953. I giudici nella loro sentenza esclusero la natura politica dell’eccidio e l’esistenza dei mandanti. Resta la domanda: chi ha armato la banda di Salvatore Giuliano?

«E a Portella della Ginestra, con la presenza di tutto il popolo italiano, sarà data al mondo la testimonianza che la feroce strage del Primo Maggio 1947 – freddamente premeditata dalle classi reazionarie e ferocemente fatta consumare da un bandito che è l’espressione più genuina e nello stesso tempo più abietta dello stato di degradazione e di decomposizione di una casta antisiciliana, antisociale e antinazionale – non ha arrestato il moto dei nostri lavoratori e delle forze democratiche siciliane verso la liberazione», scrisse Girolamo Li Causi, primo segretario del Pci siciliano, il 30 aprile del 1950 su L’Unità.

Lo stesso Li Causi chiese e ottenne un’indagine apposita sulla strage di Portella della Ginestra. Nel febbraio del 1963 si era insediata la Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia e sette mesi più tardi, seppur priva di modalità di indagini ben definite, su spinta di Li Causi iniziò a occuparsi dell’eccidio senza alcun risultato concreto già nei primi cinque anni di attività.
«Non è stata ancora raggiunta la verità, specialmente su chi quella strage ha ordinato. L’Antimafia – ha dichiarato nei giorni scorsi il Presidente del Senato Pietro Grasso – ha deliberato di pubblicare gli atti acquisiti a partire dal 1998. Quelli di prima sono già resi pubblici. Ma ci sono ancora molte zone d’ombra da esplorare. Bisogna che chi sa qualcosa metta a disposizione la propria conoscenza. Si deve pensare non solo agli archivi di stato ma anche a quelli dei singoli ministeri. Su questa ricerca ci sono stati proficui contatti con la presidente della Commissione antimafia, Rosy Bindi».

La strage di Portella della Ginestra è stata rappresentata dalla cultura italiana, dal cinema alla letteratura fino al ruolo divulgativo della televisione. E spesso si rintraccia quel tono assolutorio di riduzione del male, nel quale si disperde qualsiasi urgenza di verità che invece hanno ancora i familiari delle vittime. Di fronte alla negazione, alla commemorazione che assomiglia all’oblio la resistenza consiste nella trasformazione del lutto. E Portella, ieri come oggi, ricorda davvero che cosa significhi lottare per la dignità del lavoro e la dimensione mai svanita dell’oppressore.