giovedì 29 giugno 2017

Sopravvivere all'assenza. "Il ritorno" di Hisham Matar


di Gabriele Santoro 


«Si ha bisogno di un padre a cui ribellarsi. Quando un padre non è né morto né vivo, quando è un fantasma, la volontà è impotente. (…) Le mie aspettative riguardo a mio padre erano molto normali. Come quel famoso figlio nell’Odissea – come la maggior parte dei figli, credo – desideravo essere “figlio di un uomo felice, che arriva alla vecchiaia con tutti i suoi beni”. Invece, a differenza di Telemaco, io continuo, dopo venticinque anni, a sopportare che mio padre sia “scomparso nel nulla, ignoto”».



In che modo si può sopravvivere all’assenza, quando il potere riesce a rendere ancora più labile il confine tra la vita e la morte? Hisham Matar aveva diciannove anni, era uno studente universitario già in condizione d’esilio, quando suo padre, Jaballa, fu rapito nel suo appartamento al Cairo e recluso nella prigione libica di Abu Salim. Il regime di Muammar Gheddafi temeva l’autorevolezza e le qualità poliedriche di questo oppositore fiero e colto. Al collasso della dittatura, dunque a ventidue anni di distanza dal rapimento, non vi è stata una parola di verità sulla sorte di Jaballa. Il compito dei burocrati dell’orrore consiste nel non lasciare alcuna traccia. L’ipotesi più accreditata lo vuole vittima dell’eccidio compiuto nel 1996 ad Abu Salim, dove si consumò l’esecuzione di 1270 prigionieri.

L’autobiografia Il ritorno (Einaudi, 246 pagine, 19.50 euro, traduzione di Anna Nadotti) è valsa a Matar il Premio Pulitzer 2017. Lo scrittore intreccia il dolore intimo, che è un’impresa attiva, «è un lavoro duro, onesto», con quello di un popolo che dopo aver vissuto la tregua della rivoluzione, sempre piena di promesse sospese, è piombato nel buio della guerra civile.

Matar è tornato in Libia nella primavera del 2012, in seguito alla destituzione di Gheddafi, per la prima volta in trentatré anni. Associa l’esilio a una forma di senso di colpa e alla rieducazione all’ascolto di voci divenute echi lontani nel tempo. Ci restituisce la misura di quanto una dittatura e il suo sistema ramificato di sorveglianza possano compromettere la fiducia di un popolo in se stesso e al contempo sviluppare cellule straordinarie di resistenza. Impariamo a esplorare l’assenza che – ci ricorda Matar – è un luogo privato di corpo. E solo il tempo può coltivare l’ambizione di riempire quel vuoto:

«Il corpo di mio padre se n’è andato, ma il suo spazio è qui ed è occupato da qualcosa che non può essere considerato semplicemente un ricordo. È vivo e vitale. Come potrebbero la complessità dell’essere, la meccanica della nostra anatomia, l’intelligenza della nostra biologia, e lo sconfinato firmamento della nostra interiorità – pensieri, domande, struggimenti, speranze, bramosia e desiderio e le mille e una contraddizioni che ci abitano in ogni momento – avere una fine che si possa segnare con una data sul calendario? Mio padre è morto ed è anche vivo. Non possiedo una grammatica per lui. È nel passato, nel presente e nel futuro».

La rabbia per l’ingiustizia, che attanagliava il ventenne, si trasforma negli anni senza tuttavia possibilità di essere sopita: «Ogni volta che posavo gli occhi sul ritratto di mio padre, il mio cuore si faceva piccolo e duro». Matar ci conduce alla radice plurisecolare di legami familiari. In questo senso è fondamentale la figura del nonno Hamed dalla vita così lunga e avventurosa. Figlio unico, nato nella Libia ottomana, conobbe la brutalità dell’invasione colonialista italiana, il regno di re Idris, e i due decenni seguiti al colpo di Stato di Gheddafi. Matar qualifica come disperato il desiderio di radunare i pezzi della propria famiglia, che non ha mai smesso di sognare una Libia libera come la sua vastità severa e incantevole, ben ritratta dall’autore:

«Un libico che voglia dare un’occhiata a tale passato deve, come un un intruso a una festa privata, entrare in tali libri con la piena consapevolezza che per la maggior parte sono stati scritti da e per chi ha occupato la Libia, e quindi sono, in buona sostanza, narrazioni che riguardano la vita degli altri, le loro avventure e disavventure in Libia come se il proprio paese non fosse che un’occasione per gli stranieri di esorcizzare i loro demoni e realizzare le loro ambizioni».

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mercoledì 21 giugno 2017

Paesaggi contaminati: letteratura e reportage secondo Martin Pollack



di Gabriele Santoro

«Lavorare a Il morto nel bunker. Inchiesta su mio padre ha significato anche distruggere la mia infanzia. Ho avuto un’infanzia meravigliosa, tanto amato dai miei nonni che mi hanno allevato. La mia ricerca mi ha messo spietatamente davanti agli occhi il fatto che essi non erano solo affettuosi nonni, ma anche protervi nazisti, pieni di odio e disprezzo per gli altri, slavi ed ebrei. La distruzione della propria infanzia è un’impresa pericolosa e non so se riuscirò mai a superarla», ha raccontato una volta Martin Pollack a Claudio Magris.


Nelle pagine dei libri dello scrittore e giornalista austriaco, traduttore dal polacco di vari reportage di Kapuściński, l’amore per la vita si tocca ovunque ed è inscindibile dalla ricerca di verità così complesse. La letteratura di Pollack non è etichettabile entro confini di genere: è davvero tante cose insieme, romanzo documentario, libro di viaggio, reportage, saggio, omaggio poetico e filosofico. I suoi testi assomigliano al diritto all’identità, che avversa l’inganno e la mimetizzazione nelle pieghe della Grande Storia.

In Paesaggi contaminati (Keller, traduzione a cura di Melissa Maggioni, 138 pagine, 14 euro) l’autore sostanzia con il verbo imboschire l’opera dei carnefici che nel Novecento hanno disseminato l’Europa di fosse, dove è stato disperso e occultato anche il residuo ultimo di umanità. «Modellare il paesaggio era la motivazione, la giustificazione per il genocidio. L’uso del termine apparentemente neutrale, addirittura innocente, “paesaggio”, da parte dei nazisti, è una ragione importante per utilizzarlo con cautela e per indagarlo criticamente».

Pollack trasmette l’urgenza di scavare nelle terre dell’oblio, perché non sono sufficienti i memoriali, di cui abbonda il Vecchio continente, spesso ammantati dalla retorica dell’eroismo che garantisce sempre un futuro alla guerra. All’inizio di Paesaggi contaminati lui ci consegna la necessità del coraggio condensata in Il morto nel bunker. Inchiesta su mio padre, apparso dieci anni fa in Italia e che sarà ripubblicato nel 2018 da Keller. Nel dicembre del 1944 le bombe americane distrussero la sua casa di Linz, e il bambino di allora raccoglie frammenti sparsi. Con maestria Pollack illustra come l’accezione di paesaggio sia in modo inestricabile un groviglio di sensazioni, immaginazione e memoria. I suoi paesaggi interiori producono paradossalmente in lui oggi un contrasto con l’oggettività grigia dei primi anni del dopoguerra pieno di privazioni e dolori.

Pollack non ha mai conosciuto il padre, un nazista capo della Gestapo di Linz e attivo nella Polonia occupata dai nazisti, ricercato dalla polizia federale austriaca per crimini di guerra. Si è messo sulle sue tracce per sapere chi egli fosse veramente stato, che cosa avesse fatto, accettando di pagare il prezzo del disfacimento dell’universo familiare. Nella rottura con l’amata nonna, che gli chiede la promessa di non sposarsi mai con una polacca o un’ebrea, ci sono il senso e il peso del viaggio di Pollack, che ricostruisce l’idea più alta di una cartografia umana dell’Europa scevra da rimozioni forzate.

Ha ragione Magris quando così descrive un’esigenza che li accomuna: «La passione per il paesaggio, per la lettura del paesaggio, guardato e vissuto, letto come si legge un viso, o un manoscritto su cui la Storia e le storie hanno continuato a scrivere, a incidere vicende dolorose e avventurose, senza mai cancellare il passato inciso indelebilmente ma correggendolo e modificandolo di continuo».

La bellezza a tratti struggente di Galizia (Keller, traduzione a cura di Fabio Cremonesi, 247 pagine, 18 euro) esprime questa apertura dello scrittore al mondo, che ha saputo muoversi con onestà e pietas dentro paesaggi appunto contaminati. Nelle cronache e nelle leggende che animano la Galizia, esperimento di convivenza etnica e culturale che evade il concetto stesso di confine, c’è molto di più del tentativo di trasmettere l’eredità della Mitteleuropa perduta. Pollack narra nient’altro che la sfida dell’oggi, quello che intendiamo essere rispetto al diverso dentro al movimento incessante dei popoli.

Per usare ancora le parole di Magris: «La conoscenza, l’incontro, la mescolanza sono necessari, ma non sufficienti; possono favorire l’amicizia e l’amore ma anche l’insofferenza, il rifiuto e l’odio. Questa Babele di tanti popoli, di tante innumerevoli e affascinanti diversità descritte in Galizia è un crogiolo che si fonde e ci si scinde, un alambicco che crea e può distruggere. Un universo inesauribile, meraviglioso e miserabile, vario come la vita stessa o forse anche più, ma anche talora feroce come la vita».

Con la bussola, così densa di umanità, costruita da Pollack ci si orienta dentro a luoghi di aspri contrasti sociali, povertà e analfabetismo radicati ai confini dell’Impero, dove i nomi stessi delle città cambiano come le forme di sovranità. Città nelle quali coabitavano il polacco, il tedesco, lo yiddish, il ruteno, e si parlava anche il romeno, l’ungherese, il russo. Respiriamo la ricca fragilità del multiculturalismo e l’ombra sempre incombente dei totalitarismi, derive esangui in tutte le proprie declinazioni.

Nel 1772 con la prima spartizione della Polonia, il regno di Galizia e Lodomiria, come veniva denominata la più grande tra le terre della Corona d’Asburgo, era passato all’Austria. Dal 1849 Galizia e Bucovina, la cui realtà era molto distante da Vienna, costituivano una terra della Corona con rango pari a quello di un ducato. «Quando un ufficiale o un funzionario veniva mandato in Galizia per portare l’ordine imperiale in quelle terre inospitali, si sentiva come se l’avessero esiliato. Con la Prima Guerra Mondiale molti tedeschi e austriaci entrarono per la prima volta in contatto con queste regioni. Le battaglie di Leopoli, Przemyśl e Grodek fecero sì che il nome della Galizia diventasse sinonimo della crudele insensatezza della guerra», dice Pollack. Nel 1918 venne annessa alla rediviva Polonia, la Bucovina alla Romania. Il genocidio nazista, e poi la violenza dello stalinismo portarono a compimento la distruzione dell’entità multiculturale di queste regioni.

giovedì 15 giugno 2017

Il mio Vietnam, una conversazione con Kim Thúy


di Gabriele Santoro

La capacità di scavare in profondità con lievità e luminosità, ma senza autocensure, rende interessanti i libri di Kim Thúy, nata a Saigon nel 1968 e fuggita dal Vietnam a bordo delle 
boat people all’età di dieci anni per approdare in Québec.


Il mio Vietnam (nottetempo, 142 pagine, 15 euro) raccoglie le tracce biografiche dell’autrice e i suoi temi letterari: il viaggio, la migrazione e il rapporto con la lingua, la cultura culinaria, la composizione e la decostruzione di universi familiari nei quali i non detti sono mondi da esplorare. La guerra si rilegge a distanza di anni negli spazi intimi e nelle abitudini più banali della quotidianità. La sua eredità chiede a ciascuno di reinventarsi, ricostruire legami originali e una narrazione che elude i confini della nazione: «La lingua vietnamita che conoscevo era segnata dall’esilio ed era rimasta cristalizzata in una realtà passata. La storia del Vietnam e dei vietnamiti vive, cresce e diventa complessa senza essere né scritta né raccontata».

Che cosa accade a un’infanzia che dalla torre d’avorio di una famiglia benestante latifondista precipita in un mare in tempesta e nell’inferno dei campi profughi? «Come trovare il cammino davanti a un orizzonte infinito, senza filo spinato, senza sorveglianti? Con gli occhi ancora poco avvezzi alla vastità, come potevo tracciare il mio percorso tra quei larghi e lunghi viali alberati che sembravano tutti perfettamente uguali?», si domanda Vi, il doppio letterario della scrittrice.

Thúy, che cosa ha rappresentato il francese, una sorta di nuova patria, per una figlia della diaspora come lei?
«È la lingua della mia seconda nascita, racconta questo sentimento e quello di essere accettata. In Québec l’accoglienza di noi rifugiati vietnamiti è stata talmente calorosa e generosa che mi sono innamorata del francese, non l’ho imparato in quanto lingua di comunicazione, bensì per l’amore e la voce che mi ha restituito lontano dalla mia terra. Con il comunismo non si poteva parlare e nel campo profughi non c’era nessuno che potesse ascoltarci. Ebbi il privilegio di studiarlo già a scuola, e c’è un libro che mi ha segnato in questo strano rapporto con la lingua, al contempo strumento di coercizione da parte del potere e liberazione».

Quale?
«L’amante di Marguerite Duras. Il primo libro che abbiamo osato comprare lontano dal Vietnam, non più in guerra. Eravamo senza soldi con una sola copia letta insieme allo zio per non rovinarla. Da quella sorta di dettato ho appreso la musicalità della lingua. Mi sono accorta di usare la lingua di quel romanzo, parlavo come il libro».

Ne Il mio Vietnam emerge un’altra forma di espressione, dove mancano le parole. Il cibo appare decisivo nella trasmissione culturale, sentimentale vietnamita.
«È un modo di verbalizzare le nostre emozioni, perché veramente i vietnamiti, i miei genitori stessi non hanno mai utilizzato parole di amore per esprimersi tra di loro e con noi. La cultura dell’alimentazione è per noi un mezzo di comunicazione, la maniera migliore per esprimere i sentimenti. Il cibo raffigura la lingua vietnamita per gli affetti, che vengono scritti ma mai detti ad alta voce. Mentre la cultura occidentale incoraggia a esprimere i propri sentimenti e le proprie opinioni, i vietnamiti li serbano gelosamente per sé o li comunicano a parole con molto ritegno, perché lo spazio interiore rappresenta l’unico luogo inaccessibile agli altri».

Con la storia d’amore tra un giovane studente sud-vietnamita e una coetanea nord-vietnamita ci ricorda quanto siano profonde le ferite e la divisione nel Paese. La guerra non è finita?
«Credo che le tracce della guerra durino più a lungo di una generazione. Durante il periodo vissuto da rifugiati non avevamo accesso all’acqua, e tuttora faccio moltissima attenzione al suo consumo e alla pulizia. Questo è un esempio del modo in cui la mia esperienza della guerra si riverbera sui miei figli, che non l’hanno vista. Può darsi che nella prossima generazione si affievolisca l’intensità del ricordo, ma i figli quando dovranno spiegare ai miei futuri nipoti perché i lineamenti del loro viso sono per metà asiatici e metà occidentali risaliranno alla migrazione, dunque alla guerra. Restano le tracce della storia, portiamo ovunque il bagaglio non solamente della nostra vita ma di quella del nostro ambiente. È complesso liberarsi della pesante storia lasciata in eredità da una guerra anche per i giovani che non l’hanno neppure conosciuta».

«Il mio nome non mi predestinava ad affrontare le tempeste in alto mare e ancor meno a condividere una baracca in un campo profughi in Malesia con un’anziana signora che ha pianto giorno e notte per un mese senza spiegarci chi fossero i quattordici bambini che erano con lei». Le pagine sulla migrazione forzata e la vita nei campi profughi sono molto intense. Qual è la differenza fra i rifugiati di ieri e quelli di oggi?
«Pensavo che la guerra del Vietnam, la prima a essere diffusa non in diretta ma con un forte impatto visivo delle immagini ci avesse traumatizzato a sufficienza, ma la storia tende a ripetersi. In Vietnam il mondo ha visto l’atrocità quasi in presa diretta. Il pericolo della guerra oggi consiste nella spersonalizzazione delle bombe gettate dai droni guidati a distanza. In Occidente sono scomparse le immagini dei soldati che muoiono, seppure il proprio paese stia partecipando a una guerra le società non si sentono toccate, le bare e i mutilati non tornano a casa come in passato. Sappiamo che nella stragrande maggioranza le vittime dei conflitti contemporanei sono i civili, e si ha l’impressione di essere su un altro pianeta, che non sia legato a noi. L’indifferenza della massa è il pericolo che corrono maggiore i rifugiati».

Perché per voi è andata diversamente?
«Grazie alla Guerra Fredda. Coloro che potevano scappare dal comunismo erano accolti, applauditi quasi fossero eroi sul versante occidentale capitalista. All’epoca i giornali davano moltissimo spazio ai vietnamiti, affinché la popolazione potesse comprendere e incontrarli, avevamo l’opportunità di dire: bisogna avere paura dei regimi comunisti. Oggi nei media è tutt’altra la figura del migrante, relegato solo ai grandi numeri e alla sicurezza. Il musulmano fa paura. Non si ascoltano mai le voci dei migranti, se si prendesse il tempo necessario a sedersi con loro ci scopriremmo tutti più umani. Ritengo che non si abbia la percezione di che cosa significhi avere campi profughi più estesi di agglomerati urbani. Fabbrichiamo le nostre bombe ogni giorno nel quale un uomo perde la propria dignità. Ciò deflagrerà».

La traduzione letterale del nome proprio Vi, che corrisponde al titolo originale dell’opera, è «preziosa minuscola microscopica». Quale sensazione le ha lasciato la vastità del mare?
«Quando siamo fuggiti in clandestinità non ho visto il mare, perché ero stipata nel ventre dell’imbarcazione. Si avvertivano solo i suoi movimenti violenti che facevano stare male. Sbarcati sulla spiaggia invece quell’immensità distesa davanti a noi era magnifica. Fa paura quell’immensità per tutta la libertà che offre. Mia madre era un’avanguardista, voleva che la figlia sapesse nuotare, ma in Vietnam c’erano poche piscine e le ragazze evitavano di esporsi al sole per non assomigliare alle contadine. Tuttora l’esperienza dell’acqua mi incute paure ormai antiche. Un po’ la stessa sensazione del campo profughi quando mia madre ha cercato di salvaguardare l’innocenza dei miei otto anni».

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mercoledì 7 giugno 2017

Giorni di mafia, anatomia della Repubblica


di Gabriele Santoro

Oggi, dopo mille stragi, dopo Falcone e Borsellino, ogni spazio parrebbe chiudersi, non dico all’idillio, ma alla fiducia più esangue. E tuttavia… finché in una biblioteca mani febbrili sfoglieranno un libro per impararvi a credere in una Sicilia, in un’Italia, in un mondo più umani, varrà la pena di combattere ancora, di sperare ancora. Rinunziando una volta per tutte a issare sul punto più alto della barricata uno straccio di bandiera bianca”, scrisse Gesualdo Bufalino nella nota Poscritto 1992 contenuta nell’antologia Cento Sicilie.


A venticinque anni di distanza dalla strage di Capaci l’esigenza, tuttora primaria, di sapere ciò che è stato sotto la superficie per non desistere sta nelle parole di Bufalino, quanto in quelle di Tina Montinaro che si rivolge al marito Antonio, caposcorta del giudice Giovanni Falcone, caduto in servizio il 23 maggio 1992 al chilometro 5 della A29:

…Beh, vuoi sapere cosa è successo in questi ultimi venticinque anni? È cambiato tanto, non c’è dubbio; dopo quella tragica data, la coscienza dei palermitani sembra essersi risvegliata. Ci volevano le due stragi per portare migliaia di persone giù in strada? Non lo so, non riesco a capirlo, ma è un dato di fatto: da quelle date si è cominciata a sviluppare una genuina coscienza antimafia che però ahimè, ti devo confessare, credo che negli ultimi anni si sia persa. (…) A mio avviso la mafia c’è ancora ed è presente più che mai; certo, è cambiata, camaleonticamente si è adattata alle circostanze, ha compreso che il terrore non paga e si è inabissata nuovamente nei luoghi più profondi della società.

Piero Melati, viceredattore capo de Il Venerdì di Repubblica diretto da Attilio Giordano, era nella redazione del quotidiano palermitano L’Ora, quando la mafia, che fin dal tardo Ottocento non è una degenerazione patologica della società, ma è strettamente integrata e intellegibile solo nel quadro delle relazioni sviluppate con il potere politico ed economico, contribuiva a incidere la biografia della nazione italiana. Con Giorni di mafia (Laterza, 114 pagine, 14 euro) l’autore asseconda forse l’unica impostazione possibile, teorizzata dallo storico Isaia Sales, per comprendere l’assoluta originalità del metodo criminale mafioso:

Le mafie non sono isolabili in una dimensione periferica della nazione. Esse hanno rappresentato un potente strumento di stabilizzazione e perpetuazione degli equilibri politici, economici e sociali del nostro paese. La storia delle mafie è in sostanza il disvelamento della funzione debole dello Stato italiano con un territorio che avrebbe avuto bisogno di liberarsi delle forme violente prestatuali e produrre una rottura radicale con quelle classi dirigenti alleate delle mafie.
Dal 1950 a oggi, le cento date scelte dal giornalista per ricostruire e scandagliare l’evoluzione di un fenomeno delle classi dirigenti, la mafia, assomigliano alla solitudine dei cento giorni di Carlo Alberto dalla Chiesa a Villa Whitaker, sede della Prefettura di Palermo, sintetizzabili in questo botta e risposta tra il Generale e Giorgio Bocca:

Lei è qui per amore o per forza? Questa quasi impossibile scommessa contro la Mafia è sua o di qualcuno altro che vorrebbe bruciarla? Lei cosa è veramente, un proconsole o un prefetto nei guai?
“Mi interessa la lotta contro la Mafia, mi possono interessare i mezzi e i poteri per vincerla nell’interesse dello Stato”.

Sappiamo che i poteri restarono a Roma, e che come in ogni delitto eccellente furono trafugati i documenti nei quali Dalla Chiesa custodiva nomi, cognomi e indirizzi della Sicilia criminale di allora. Questa è tutta una storia di atti mancati, mancanti e di uomini cerniera come Vito Guarrasi, ben ritratto nel testo. Melati raccoglie così l’invito di Sciascia a guardarsi dentro. La chiave del successo su scala mondiale e dunque della longevità del modello unico e unitario delle mafie, declinato poi dalle singole organizzazioni criminali,  risiede nell’incessante ricerca reciproca tra mafia e potere politico.

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