lunedì 27 novembre 2017

La guerra non è finita. La sentenza Mladić


di Gabriele Santoro


La primavera del 1994 era cominciata da pochi giorni, quando Ana Mladić non si concesse più la fantasia di immaginare l’avvenire. Aveva ventitré anni, era una brillante studentessa di medicina, iscritta all’ultimo anno di università a Belgrado, e decise di uccidersi dentro casa con la pistola preferita del padre, una Zastava custodita fra i diari di guerra. Per Ratko Mladić, comandante militare serbo-bosniaco dell’allora esercito noto come VRS (Vojska Republike Srpske), a differenza della figlia c’era invece ancora molto da combattere.

Il Generale avrebbe dovuto conquistare Goražde e l’enclave bosniaca di Srebrenica, assediata per tre anni, eliminando poi nel luglio del 1995 8372 musulmani, perlopiù uomini, davanti all’inerzia dell’ONU che consegnò civili inermi ai boia. Le milizie controllate da Mladić produssero, oltre alle 93 fosse comuni finora scoperte, la deportazione di ventitremila persone. La giustizia nei tribunali dell’Aja e di Sarajevo ha incriminato settanta persone per il genocidio di Srebrenica. In quella che le Nazioni Unite avevano dichiarato “zona protetta”, ad altissima densità di profughi, si consumò l’ennesima presunta vendetta di una guerra fratricida, che ha fatto crescere fiori sulle tombe delle generazioni a cui sarebbe dovuto appartenere il futuro.


In una terra come la ex Jugoslavia, che non conosce il tramonto dell’odio, la figura di Ana è riemersa in seguito alla recente condanna all’ergastolo emessa nei confronti del padre dal Tribunale Penale Internazionale dell’Aja per l’ex Jugoslavia. Dopo cinque anni di processo, la Corte ha dichiarato Mladić colpevole di dieci degli undici capi di imputazione complessivi fra i quali genocidio, persecuzione, sterminio, omicidio, deportazione con quattro “imprese criminali congiunte” della leadership serbo-bosniaca commesse tra il maggio del 1992 e il novembre del 1995: la rimozione permanente o pulizia etnica dei croati e dei musulmani dai territori proclamati serbi in Bosnia-Erzegovina, il genocidio di Srebrenica nonché i crimini contro l’umanità in altre municipalità, il terrore contro la popolazione di Sarajevo, la presa in ostaggio del personale ONU per fermare i bombardamenti contro gli obiettivi militari serbo-bosniaci.

È decaduta invece l’accusa di genocidio in altre sei municipalità della Bosnia orientale e settentrionale. Nella sentenza i giudici hanno riconosciuto il ruolo determinante nella catena di comando e la responsabilità diretta di Mladić nei crimini perpetrati. Per comprendere la sua capacità di fuoco, nella sintesi del dispositivo della sentenza si legge che riguardo Srebrenica nel solo 16 luglio 1995 oltre mille civili furono uccisi sommariamente presso il Branjevo Military Farm. Prima dell’esecuzione i militari legavano le mani delle vittime e intimavano loro di pregare “alla maniera musulmana”.

La guerra per la famiglia Mladić non è finita, non c’è ravvedimento come hanno dimostrato la protezione durante la lunga latitanza, sedici anni dalla messa in stato d’accusa nel luglio e nel novembre 1995 all’arresto nel 2011, e l’intera condotta processuale del condannato tracotante, iracondo che esprime la debolezza dell’irriducibile davanti al giudizio. «Questo è stato solo il primo tempo – ha fatto dire Mladić al figlio Darko in una nota apparsa sul quotidiano belgradese Vecernje Novosti – lotterò per cancellare queste menzogne e far emergere la verità sulla lotta dei serbi». E ancora: «Mio padre non è colpevole di nulla – ha aggiunto Darko all’Aja – . Ho sempre pensato che qualunque verdetto di questa corte non sarebbe stato accettabile dalla mia famiglia. Ogni analisi legale dimostra che l’accusa non è riuscita a provare il suo coinvolgimento». In questo senso è interessante e significativo il quadro delle reazioni riduzioniste se non negazioniste alla sentenza in Serbia. Ci ricordano che Ratko Mladić non entrò da solo a Srebrenica.

In assenza di una traccia scritta, ma spesso anche in sua presenza, le ragioni di un suicidio sono intimamente insondabili, tuttavia la scelta di Ana Mladić chiama in causa tutti gli attori di questa tragedia e restituisce l’intera misura dolorosa di legami familiari inestricabili. C’è un video su YouTube nel quale il giovane Darko presidia la bara della sorella, mentre Ratko in abiti civili si riversa inconsolabile sul feretro e strofina con veemenza sulla teca, che racchiude il volto ormai inespressivo della figlia, il fazzoletto col quale si asciuga le lacrime.

Da questa immagine Clara Usón iniziò a scrivere La figlia (Sellerio editore, 496 pagine, 16 euro, traduzione dallo spagnolo di Silvia Sichel), romanzo potentissimo pubblicato nel 2013 che, mescolando storia e finzione narrativa, ha saputo rappresentare il crollo della ex Jugoslavia e la fine dell’innocenza per almeno tre generazioni. Un’opera fondamentale, da leggere e rileggere, equiparabile per rilevanza al lavoro di Jože Pirjevec, per come entra con levità e cura nelle pieghe del male.

«Cominciò a piovere quando stava imboccando la salita di Blagoja Parovića, si era alzata una bufera, aveva ripreso a soffiare il košava, il rigido vento invernale, come a volerle ricordare che la primavera era un miraggio, un’illusione, che il freddo era sempre in agguato nonostante le gemme e gli alberi in fiore. Non le dispiacque bagnarsi, come se la pioggia e il freddo fossero un castigo meritato. Le tornò in mente quel racconto di Tolstoj, “Dopo il ballo”, e si chiese se la figlia del colonnello che aveva frustato il disertore, quella Varen’ka, che le aveva fatto tanta pena, fosse innocente. E se Varen’ka sapeva e non gliene fregava? E se era perfettamente informata di ciò che avrebbe fatto suo padre in quel terreno abbandonato e, ciononostante, aveva continuato a ballare con il narratore, indifferente, estranea a tutto ciò che esulava dal suo piacere?».

La scrittrice, percorrendo le orme del racconto di Tolstoj, immagina la progressiva presa di coscienza della giovane Ana di come il padre fosse in realtà fra i carnefici della propria giovinezza: «Aveva disgustato tutti, anche lei, certo, anche se non lo avrebbe mai ammesso: il suo abbattimento, la sua delusione avevano una sola causa: quella guerra che non finiva più e minacciava di distruggere la vita non solo dei morti, ma anche dei vivi, come lei, come suo fratello, come i suoi compagni di università, che vedevano la loro gioventù sfuggire e il futuro sempre più cupo».

Ana Mladić, dopo un viaggio a Mosca insieme ad amici prima della laurea in medicina, distante dalla censura dell’informazione serba ormai sapeva e la tristezza non se ne andò più dal suo volto. La ragazza bella e disinvolta era tornata diversa a Belgrado. Il mezzo ungherese Petar le aveva illuminato le crepe del sogno della Grande Serbia, l’evanescenza della parola patria davanti alla distruzione di Vukovar; Martina rimpiangeva Tito; Dragan era il soldato che l’amava e Ratko, ostile a quell’unione, l’aveva mandato a morire al fronte. In fondo forse Petar non era un disertore, non era un traditore della nazione associata al sangue versato dai soldati. Durante una delle serate moscovite Ana disse a un corteggiatore che proveniva dal Principato di Andorra, dove le persone non avevano un nome, ma corrispondevano a un numero. Ana rinunciò a rinnegare l’umanità.

Nel tratteggiare con precisione i profili degli architetti ed esecutori dell’orrore fra i quali Slobodan Milosević, Radovan Karadžić, Franjo Tudjman e Ratko Mladić, Usón rammenta che nessuno è immune dalla paranoia individuale e collettiva di quella forma di fascismo che è stato il nazionalismo post-jugoslavo. «Forse solo uno che crede di avere un futuro osa costruire musei», sostiene Dubravka Ugreŝić. Il revisionismo storico di culture politiche artificiose e autoritarie, riempite ancora di retorica nazionalista e della strumentale esaltazione di radici religiose, e l’ingresso nel presepe delle odierne democrazie balcaniche dei criminali o complici di una guerra disgregatrice innanzitutto dei legami sociali, familiari non ammettono la cultura e l’esercizio della memoria.

Raccontando la fine non solo letteraria senza più un amore di Ana Mladić, Usón riporta lo stralcio dell’intercettazione di una telefonata intercorsa nel 1996 tra Marko Milošević e il padre presidente Slobodan, che indirettamente ci dà il senso ultimo del suo sottrarsi agli uomini della macchina da guerra:

M: «Cosa ne dici se metto su una clinica ostetrica?».
S: «Be’, da un punto di vista umanitario non è poi così male, ma come affare non vale un cazzo».
M: «Papà, sai quanto costa un aborto in un qualsiasi tugurio di Požarevac?».
S: «Non saprei».
M: «Centocinquanta marchi tedeschi».
S: «Marko, in una clinica ostetrica non si fanno aborti. Ci si fanno nascere i bambini».

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