venerdì 28 dicembre 2018

«Così la Brexit ha lacerato il Regno Unito». Intervista ad Anthony Cartwright

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 29

di Gabriele Santoro



di Gabriele Santoro

Da Martin Amis ad Ali Smith, attraversando la Middle England di Jonathan Coe, le questioni sociali, politiche e i sentimenti sollecitati dalla Brexit sono già materia narrativa per gli scrittori d’oltremanica.

Alla fine di gennaio, la casa editrice 66thand2nd porterà in Italia il nuovo romanzo di Anthony Cartwright, classe 1973, dal titolo evocativo e di successo The Cut (Il taglio), che immerge il lettore nella terra di mezzo inglese incarnata dalla Brexit. Sono due i protagonisti della storia creata dall’autore. Cairo Jukes, originario di Dudley, città natia di Cartwright, è un ex boxeur simbolo della working class in crisi d’identità. Grace Trevithick, una documentarista affermata, si allontana dalla Londra cosmopolita e benestante per cercare di comprendere nelle viscere del Black Country le ragioni della Brexit. Nonostante le diversità d’estrazione e condizione socioeconomica, riesce a costruire con Cairo un dialogo interessante. «Pensate che il voto sia legato solo all’immigrazione e che siamo tutti razzisti. Vi assicuro che è molto più complesso di così», dice Cairo.

L’opera non è estemporanea, ma s’inserisce in un percorso letterario e di ricerca ben strutturato da Cartwright, capace di raccontare le contraddizioni della Gran Bretagna contemporanea impoverita a causa della deindustrializzazione. I personaggi dei suoi romanzi, da Heartland a Iron Towns, ritraggono lo smarrimento della società britannica dinnanzi alla progressiva erosione delle sicurezze acquisite nel tempo e le reazioni che manifestano paure profonde.



Cartwright, c’è già una fessura tra il prima e dopo Brexit?
«Sì, credo si avverta il senso profondo di una frattura. Il voto ha acuito ed esposto le divisioni e i rancori preesistenti. La situazione è resa molto instabile dalla rottura della tradizionale lealtà all’appartenenza politica. Sulla Brexit il frazionamento interno ai partiti è trasversale. Siamo piombati in una trincea di visioni politiche di scarso respiro, animate dai pregiudizi. Nutro la sola speranza che si affrontino le diseguaglianze sociali ed economiche, capaci di generare risentimenti aspri».

Chi sono i cosiddetti “Brexiteers”?
«È una coalizione bizzarra composta dall’ala più intransigente del Partito Conservatore, degli estremisti dell’UKIP, da elementi del vecchio establishment britannico ancora ossessionati dai sogni dell’Impero. Ma è più cruciale il sostegno di una parte significante della classe operaia inglese e gallese. La maggioranza delle persone, che hanno sostenuto la Brexit, non sono espressione dell’estrema destra. Questo è stato un grande e costante abbaglio dei commentatori e politici schierati per l’Europa. Invece di costruire un dialogo con gli elettori scettici e disillusi, si è preferito chiamare circa diciotto milioni di persone razzisti o fascisti».

Quali paure e speranze hanno condizionato il referendum?
«La paura, che ha influenzato gli elettori, è il prodotto di quarant’anni di crescente divario sociale e di un senso d’impotenza diffuso nella popolazione. Le speranze provenivano dall’idea errata, ma effettivamente persuasiva, di riprendere il controllo sui politici, sulle élite dominanti che hanno servito così male il paese. Con queste paure e speranze il voto sull’Unione Europea è ciò che potremmo definire il “danno collaterale”. Non credo che i cittadini siano entrati nelle urne col pensiero rivolto integralmente all’Europa. Si è trattato più di una questione insulare di divisioni parrocchiali. Questo è stato uno degli errori più gravi commessi da chi ha deciso d’indire il referendum».

I giovani hanno votato per l’Europa. Lei ritiene sia anche uno scontro tra generazioni?
«La Gran Bretagna è un paese ancora molto ricco, in cui un bambino su quattro vive in condizione di povertà. Questo dato, citando le parole del recente report del Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla materia, non è semplicemente una disgrazia, ma una calamità sociale e un disastro economico. È evidente che per i giovani ci siano molte meno opportunità rispetto ai genitori ma anche ai nonni. La diseguaglianza mai così ampia nei livelli di benessere resta la spaccatura più pericolosa delle nostre società».

Che cosa ha rappresentato la Brexit per la working class britannica?
«Una certezza è che sulla classe operaia graverà l’impatto più forte, qualunque sia l’esito di questo processo. Un governo oltranzista e l’assenza di un accordo con l’UE sono le cose più pericolose per noi e per i popoli europei. Il voto è stato un ultimo lancio di dadi, un azzardo. Viviamo in un paese in cui molte persone sono disperate; un paese ricco in cui le persone sono sempre più povere».

Quanto può resistere il pensiero obliquo del Partito Laburista sul tema?
« In questo contesto frammentato il partito laburista è apparso cauto, danzando come un equilibrista. Nonostante la maggioranza dei laburisti abbia votato per restare nell’Unione Europea, è anche il partito di riferimento della classe operaia delle regioni industriali dell’Inghilterra e del Galles, che si è espressa a favore della Brexit. La rabbia, in quella che una volta era il cuore della nostra industria e dei laburisti, è reale e assolutamente giustificata».

Qual è l’impatto sul lavoro culturale di questa stagione politica e sociale turbolenta?
«È vero che la Brexit ha generato una reazione artistica soprattutto nella narrativa. Penso che la letteratura possa offrire meglio della politica un senso di apertura. Consente di porre le questioni irrisolte ed è attenta alle sfumature, alla complessità, quando la politica e soprattutto gli attuali politici sembrano intenti a dare risposte riduttive e categoriche a questioni di difficile soluzione».

domenica 23 dicembre 2018

Una superpotenza di nome Michelle

Il Messaggero, sezione Macro, pag. 21

di Gabriele Santoro



di Gabriele Santoro

Michelle LaVaughn Robinson è stata per lunghi tratti la figura più amata e popolare dell’amministrazione Obama. Il legame dell’ex first lady con gli americani non si è reciso dopo aver lasciato la Casa Bianca. Lo dimostra ciò che sta succedendo con l’autobiografia Becoming (Garzanti, 495 pagine, 25 euro, traduzione di Chicca Galli). Nel cuore della presidenza Trump è il testo più venduto del 2018. E si candida a divenire uno dei memoir politici di maggior successo nella storia dell’editoria non solo statunitense.

A un mese di distanza dalla pubblicazione, l’editore Crown Publishing, che è parte della Penguin Random House, ha annunciato la vendita oltreoceano di tre milioni di copie. Nel Regno Unito non accadeva dal 2008, con JK Rowling, che un’autrice giungesse al vertice delle classifiche. In tre settimane i lettori d’oltremanica hanno acquistato quattrocentomila esemplari. Nel mondo, le copie stampate del libro, tradotto in trentatré lingue, sono sei milioni. Becoming è alla seconda ristampa in Italia. 

Negli Stati Uniti le tappe del tour di presentazione, gestito da Live nation, registrano ovunque il tutto esaurito. Dopo l’apertura nella natia Chicago, allo United Center in dialogo con Oprah Winfrey, è cominciato un lungo viaggio, che ricorda i giorni delle campagne elettorali. La passione riscontrata ha prodotto per il 2019 l’aggiunta di ventuno nuovi appuntamenti pubblici con Michelle Obama. Ad aprile approderà in Europa con sei date da Copenaghen ad Amsterdam. Non è da escludere il suo arrivo anche in Italia.

La ragazza del South Side di Chicago, usando un appellativo scelto da Barack Obama, ama la propria storia in costante evoluzione dalla working class e ha saputo raccontarla con il supporto di un editor del calibro di Molly Stern.

Nel suo complesso il South Side è la più grande enclave nera del paese. In quel luogo si comprende il percorso di Michelle Obama, la seconda delle quarantatré donne, che l’avevano preceduta, a entrare alla Casa Bianca con una carriera professionale attiva. Era madre di due figlie e guadagnava trecentomila dollari all’anno come vicepresidente dell’University of Chicago Medical Center. Tra le first lady statunitensi è stata la terza in possesso di una laurea e della specializzazione successiva.

La traiettoria dell’esistenza di Michelle è cambiata proprio a scuola. La Whitney M. Young Magnet High School le consentì di uscire dal quartiere e dallo stato di segregazione in cui era nata. Non casualmente, una visita molto significativa per l’ex first lady è stata a Topeka, dove nel 1951 Oliver Brown citò in giudizio il consiglio d’amministrazione scolastico per l’esclusione della figlia Linda. L’azione legale, nota come «Brown v. Board of Education», abbatté la segregazione razziale nelle scuole pubbliche e permise anche a Michelle di avere le opportunità negate ai nonni, discendenti di schiavi, e ai propri genitori.

Le sconsigliarono di provare ad accedere a Princeton. Sui 1100 iscritti alla classe di corso di Robinson, gli afroamericani erano 94. Nel 1985 si laureò con lode in sociologia nel prestigioso ateneo. Tre anni più tardi, conseguì il titolo presso la Scuola di legge di Harvard. È interessante la domanda fondamentale della tesi discussa a Princeton: come si trasforma il ruolo dei neri nella società, quando s’immergono in un’istituzione elitaria bianca com’era l’università?


In Becoming Michelle ci conferma che non viviamo nella società post-razziale, in cui qualcuno immaginò di essere entrato dopo l’elezione del marito, personificazione con lei del sogno americano. «Alle first lady bianche la carica conferiva quasi di diritto una certa aura di eleganza, sapevo che per me non sarebbe stato lo stesso», ha scritto. Ma evoca la piena consapevolezza di un lungo cammino di libertà, non concluso, in una struttura sociale e culturale del potere ancora essenzialmente bianca.

Robinson con le proprie capacità relazionali ha saputo ribaltare la percezione delle sue rivendicazioni, costruendo con sapienza un processo che porta milioni di americani a immedesimarsi nelle possibilità della sua strada. Con le battaglie non ideologiche per una corretta dieta alimentare, per l’accesso all’istruzione e con il sostegno alle famiglie dei militari si è sottratta alla disputa politica quotidiana, rimanendo un perno essenziale delle campagne elettorali di Barack Obama.

Dai tempi di Jacqueline Kennedy, una first lady non assurgeva a icona del fashion a proprio agio nella trincea politica. Già il 12 febbraio del 2009 il New York Times la definì «padrona della moda americana». 

Michelle affronta anche questioni intime, confessando il dolore di un aborto spontaneo, risalente a venti anni fa, e di aver usato la fecondazione in vitro per la nascita di Malia e Sasha. Le due figlie occupano uno spazio importante nella narrazione di una storia d’amore, che è ormai parte della biografia di una nazione. L’autrice, posando lo sguardo sul futuro con una dura presa di posizione sul presente contro Trump, sembra dissipare l’ipotesi di una propria ambizione elettorale. D’altra parte, era scettica anche all’idea che la politica fosse per Barack il modo migliore per lasciare un segno nel mondo.

mercoledì 12 dicembre 2018

Dopo Srebrenica


di Gabriele Santoro

A ventitré anni dalla fine di una delle guerre jugoslave più efferate, nella terra di confine tra Serbia e Bosnia ed Erzegovina, disegnata dal fiume Drina, regna il silenzio.

Una volta superata Zvornik, percorrendo la strada statale che giunge a Srebrenica, s’incontrano molte case mai riabitate, che mostrano ancora i segni profondi della guerra. I ruderi dei luoghi delle esecuzioni di massa, da Branjevo alle scuole di Bratunac, passando per il magazzino di Kravica e Pilica, sono i testimoni silenti di ciò che accadde tra il 10 e il 19 luglio del 1995.

Dopo tre anni di assedio di Srebrenica, le milizie guidate da Ratko Mladić, comandante militare serbo bosniaco dell’allora esercito noto come Vojska Republike Srpske, condannato con Radovan Karadžić e altre dodici persone all’ergastolo dal Tribunale Penale Internazionale dell’Aja per l’ex Jugoslavia, perpetrarono il genocidio più grande in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale ai danni della popolazione maschile locale e dei profughi bosgnacchi (i bosniaci musulmani). In pochi giorni scomparvero oltre ottomila persone.


In quello che a Potočari, frazione alle porte di Srebrenica, era il quartiere generale delle Nazioni Unite, ora un cartello recita: “Il fallimento della comunità internazionale”. L’ONU aveva dichiarato Žepa e Srebrenica “zone sicure”. Nel biennio 1994-’95 la presidiò con un contingente di Caschi blu olandesi, rivelatosi tragicamente non all’altezza e inerte nella missione di interposizione e di protezione dei civili.

Sulla collina di Potočari, nel Memoriale aperto quindici anni fa, giacciono le spoglie mortali di 6539 delle 6973 vittime finora accertate grazie al DNA con un grado di affidabilità pari al 99.95%.

Il primo dato, che fotografa l’odierna paralisi della seconda municipalità più estesa della Bosnia ed Erzegovina, è il declino demografico. In assenza di un censimento ufficiale aggiornato, che è materia politica scottante, fonti amministrative locali stimano la presenza di appena 1500 abitanti a Srebrenica e non oltre seimila nell’intera area. Prima della guerra la zona era popolata da 36000 persone con una netta prevalenza dei bosgnacchi sui serbi bosniaci. Ora le due parti si equivalgono.

Esistevano otto scuole di ogni ordine e grado con ottomila studenti. Il lunedì mattina è un momento d’incontro emozionante a Srebrenica. È impossibile separare lungo la linea etnica gli studenti e le studentesse, che camminano sulla principale arteria stradale verso la scuola. Le classi superano la frontiera dell’appartenenza, ma sono frequentate solo da 850 alunni. E la guerra, come d’altra parte succede in Serbia, è bandita dai sussidiari. Non si parla della guerra, ma si respira.

Nel 1992 Srebrenica era una delle zone più benestanti della Bosnia con diecimila occupati. Oggi il numero è stimato in 500 unità. L’ospedale contava 35 medici. Attualmente cinque dottori tengono in funzione un ambulatorio. Il grande cinema, che a pochi passi dalla piazza principale del paese costituiva un centro culturale di rilievo, è uno scheletro di cemento crivellato di colpi di arma da fuoco. Alcuni lavori di messa in sicurezza della struttura sono cominciati appena concluse le elezioni politiche del 7 ottobre.

La città è piena di confini invisibili. I carnefici di ieri e i familiari delle vittime talvolta sono vicini di casa o di ufficio. In una realtà così complessa, c’è chi ha il coraggio di erigere ponti di dialogo. Valentina Gagić Lazić, serbo bosniaca, arrivata a Srebrenica nel settembre del 1995 con il marito, anch’egli un profugo serbo, è fra i creatori della comunità interetnica Adopt Srebrenica, inaugurata nel 2005 col sostegno della Fondazione Alex Langer, che è un laboratorio di socialità e convivenza.

“Nell’aprile del 1992 avevo diciannove anni – racconta Gagić. Dopo il referendum, la dichiarazione d’indipendenza della Bosnia ed Erzegovina e l’inizio delle ostilità belliche, trascorsi sei mesi in Slovacchia. Poi decisi di tornare a casa, illudendomi che la guerra sarebbe durata poco. Il matrimonio, la gravidanza e la nascita di mio figlio Nikola mi hanno in parte preservato dalla follia del conflitto”.

Gagić ha studiato a Sarajevo in un ambiente multiculturale. Per l’intero periodo bellico è rimasta in contatto con gli amici più cari di etnie diverse: “Abbiamo cercato di sostenerci a vicenda. Nel 1992 avevo diciotto anni, tutta la vita davanti. Ingenuamente pensavo che avremmo potuto fermare la guerra, scendendo in piazza con l’illusione di poter modificare il corso degli eventi. Scrivevo appelli ai miei connazionali, dicendo che era una follia dividere la Bosnia. E chi ancora lo immagina, sa che può finire solo nel sangue”.

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Il Premio Goncourt, Nicolas Mathieu e la Francia della deindustrializzazione

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 25

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

La Francia operaia vissuta dai padri non esiste più. I ragazzi raccontati da Nicolas Mathieu, classe 1978, appena insignito del Premio Goncourt, non hanno più una storia sulla quale costruirsi e ballano con la furia degli adolescenti sulle macerie della deindustrializzazione, che ha stravolto vite e paesaggi.

Leur enfants après eux (Actes Sud, 432 pagine, 21 euro) aggancia la storia con la lettera maiuscola, gli eventi di un cambiamento economico epocale, a un altro periodo, appositamente scelto, di svolta cruciale e di mutazione per l’esistenza individuale, qual è l’adolescenza, in cui però vengono a mancare le certezze della generazione precedente.

È un libro con un’anima politica, che in qualche modo restituisce la crisi d’identità di un paese stanco e in subbuglio, come raccontano le cronache delle rivolte in Francia delle ultime settimane.

Mathieu ha conquistato il Goncourt con il secondo romanzo, in cui la narrazione si apre nell’estate del 1992 in un ambiente ben conosciuto dall’autore, nato a Épinal, capoluogo del dipartimento Vosgi nell’est della Francia.

L’intreccio narrativo si sviluppa sulla figura del quattordicenne Anthony. Nel luglio del 1992 tenta di rompere la noia della vallata, in cui gli altoforni dell’acciaieria non bruciano più. Innamorandosi di una ragazza di un’altra classe sociale, esplora il fossato che lo separa da lei, s’interroga sulle ragioni e sul proprio posto nel mondo. Seguiamo Anthony per quattro estati fino al compimento dei vent’anni. Lui è la chiave per entrare nella realtà che a Mathieu interessa descrivere.

All’alba degli anni Novanta, i ragazzi iniziano a scoprirsi adulti in un mondo che ormai percepiscono del tutto estraneo. Sentono che il mondo della fabbrica non gli appartiene più, ma il nuovo che scorgono, la realtà atomizzata della globalizzazione, è un mare periglioso.

«È un mondo vissuto cent’anni, quello dell’industria siderurgica e dell’uomo di ferro che con sacrifici altissimi ha fatto vivere le famiglie. È un panorama in dissoluzione e gli adolescenti non sanno come rapportarsi a quell’eredità col nuovo che avanza. Non è la fine del mondo, ma di un mondo. Credo che la crisi dei subprime del 2008 sia stata l’ultimo giorno della classe operaia», ha detto Mathieu.

Parigi è lontana, nei personaggi stimola sentimenti ambivalenti di attrazione e repulsione. Il romanzo è un omaggio alla Francia periferica dell’est, che sembra aver perso tutto, avvertendo un senso di declassamento e abbandono. Non si tratta però di narrare la storia di una generazione perduta, ma di contestualizzare l’ingresso nell’età adulta dentro a processi storici e di trasformazione della società.

I bambini giocano con la Storia o cercano piuttosto di sopravviverle con l’immaginazione. La violenza propria di un terremoto economico e sociale non riesce tuttavia a uccidere la dimensione del sogno, l’unico argine alla sconfitta. Tutto è narrato dal punto di vista dei giovani ed è un coro di voci non intrise di sentimentalismo e ideologia. I giovani non sono prigionieri della consapevolezza della realtà e ciò assicura la potenza del testo, che contiene ampi tratti autobiografici di Mathieu, figlio di una famiglia operaia.

Éric Vuillard: «L'isolamento genera rivolta»

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 25

di Gabriele Santoro



di Gabriele Santoro

A gennaio Éric Vuillard, scrittore e cineasta classe 1968, tornerà in libreria con un titolo, La guerre des pauvres (La guerra dei poveri), che evoca la sollevazione dell’uomo ordinario nelle piazze francesi e ha un’ambientazione storica come il romanzo con cui ha vinto il Premio Goncourt nel 2017.

L’ordine del giorno (edizioni e/o, 137 pagine, 14 euro, traduzione di Alberto Bracci Testasecca), che è stato particolarmente amato dai lettori d’Oltralpe, racconta ciò che accade quando inizia a tramontare una democrazia ed è la storia dei compromessi che contribuirono all’ascesa del nazismo.Vuillard raffigura due momenti. 

Il primo, nel febbraio del 1933, quando ventiquattro potenti industriali tedeschi, da Opel a Krupp, furono ricevuti dal presidente del Reichstag Hermann Göring e da Adolf Hitler, divenuto Cancelliere un mese prima. E accolsero, senza particolari scrupoli, la richiesta di finanziare la campagna elettorale del partito nazista in vista delle elezioni legislative. Poi lo scrittore affronta un altro incontro. Il 12 febbraio del 1938, un mese prima dell’annessione dell’Austria dalla Germania, tra il cancelliere austriaco Kurt von Schuschnigg e Hitler.

Vuillard, che cosa la colpisce dei Gilets jaunes?
«La composizione è molto eterogenea, dunque risulta complesso ed errato ricorrere a definizioni sommarie. È difficile inquadrarli. Ciò che mi interessa di più è la sollevazione dell’uomo ordinario. Credo non si possano disconoscere due elementi: la volontà d’emancipazione e la domanda di maggiore eguaglianza».

Considera democratica la pressione dei manifestanti?
«Sì. Anche se la deriva violenta è sempre rischiosa e può compromettere il senso delle rivendicazioni».

La rivolta sarà per definizione temporanea o lascerà un segno?
«Non azzardo previsioni. Senz’altro lascerà una traccia profonda in chi ha partecipato, perché è emerso da una condizione d’isolamento nelle difficoltà. I manifestanti occupano uno spazio che a sinistra è stato lasciato vuoto sia in termini di rappresentanza sia di politiche sociali».

Come valuta la reazione del presidente Macron?
«Bisognerebbe parlare di un’assenza di reazione. Il potere sembra irrigidito e paralizzato. Non si può restare incapaci di reagire politicamente dinnanzi a un’insurrezione di questa forza. L’esecutivo ha mostrato un certo disprezzo per il movimento e si è rivelata una strategia deleteria. Prima si è lasciata marcire la situazione, poi c’è stata una repressione del tutto inedita».

Lei come interpreta il rapporto tra letteratura e potere economico?
«Si ha troppo l’abitudine di dissociare la storia politica ed economica da quella letteraria. La grande conquista della letteratura del diciannovesimo secolo è stata mostrarci come funzionava la realtà sociale con autori dalle differenti sensibilità politiche, quali erano Balzac, Hugo e Zola. Nella stessa maniera ci parlano di come l’economia abbia scritto le relazioni umane. La storia della letteratura è profondamente legata a quella che definiamo da oltre due secoli la concentrazione della potenza economica. Potremmo dire, che tutto ciò è cominciato con la diffidenza di Montesquieu verso il potere che si accentra senza bilanciamenti. Il potere economico ha raggiunto forse l’apice della concentrazione e i contropoteri sono flebili».

Qual è il fondo di eternità della riunione del 20 febbraio 1933? 
«Durante la sua deposizione in uno dei processi di Norimberga, Alfried Krupp, che aveva ereditato dal padre Gustav, uno dei partecipanti alla riunione del 1933 con Göring, l’omonimo impero dell’acciaio, spiegò: “Noi non facevamo politica, appoggiammo il partito di Hitler, perché ritenevamo che potesse garantire ordine e stabilità al paese”. In quella riunione si potrebbe vedere un momento unico della storia padronale e del capitale, un compromesso inaudito come fu il sostegno finanziario all’ascesa del nazismo».

Che cosa rappresentano questi personaggi?
«Ne Il denaro, Zola ci anticipò che possono vivere duecento anni o più anni. I patrimoni accumulati consentono alle loro creature economiche di risorgere rapidamente e attraversare le stagioni politiche. Jean-Jacques Rousseau con il Discorso sull’origine della disuguaglianza segnò una svolta, destinata a dividere in due la storia del pensiero e della letteratura, denaturalizzando la disuguaglianza. E ne diede una definizione precisa. Il fondo di eternità è esattamente l’ineguaglianza fra gli uomini, che sempre più determina il nostro mondo dalla rivoluzione industriale».

Perché la figura del cancelliere austriaco Schuschnigg ben raffigura l’élite politica dell’epoca?
«La sua è la storia di una compromissione, che evoca l’incapacità di lettura dell’élite europea della controparte nazista. E indica ancora la lentezza dell’élite nel comprendere quel che accade nella società, limitandosi poi ad assecondare i fenomeni. Schuschnigg consegnò il suo paese a Hitler, mettendosi in una condizione di subalternità. Si accumularono una serie d’indecisioni e passi falsi che condussero alla resa ai nazisti, sottovalutati perché guardati con un’aria di alterità e disprezzo tramutata in condiscendenza. Schuschnigg, giurista insigne dell’aristocrazia austriaca, dopo aver ceduto si appellò paradossalmente al diritto costituzionale per evitare le imposizioni hitleriane».

Mai prima dell'otto luglio del 1991 un cancelliere della Repubblica austriaca, Vranitzky, ammise in Parlamento che l'Austria non fu solo una vittima del Terzo Reich, nel 1938. 
«Nell’immediato secondo dopoguerra mondiale si costruì un vero e proprio mito dell’Austria prima vittima del Terzo Reich, quando era evidente l’ampia compartecipazione austriaca alla guerra nazista, sfruttando l’ambiguità insita nel termine stesso “Anschluss”, annessione nel senso politico.   In molti paesi europei il tedesco nazista divenne il nemico comune per non assumere le proprie responsabilità, all’inizio per evitare una pace punitiva con operazioni di autolegittimazione politica. In Europa manca ancora la piena consapevolezza di ciò che è stato».

In quale modo crede la letteratura possa raccontare la storia?
«Nei miei libri c’è molto rispetto per le fonti originarie cui attingo. Quest’opera si basa su foto, estratti dei cinegiornali, le memorie dei protagonisti e gli archivi di Norimberga. Un nostro compito, intendo della letteratura, credo sia liberarci dalla propaganda che caratterizza documenti, filmati originali. Come racconto nel romanzo, l’Anschluss riprodotto da Goebbels apparve come un’invasione trionfante priva di intoppi dell’esercito tedesco. Nella realtà i carrarmati rimasero bloccati sulle strade, mentre gli austriaci festanti li attendevano con ansia».

domenica 9 dicembre 2018

Più libri più liberi, l'America protagonista


di Gabriele Santoro

L’America del Nord e il suo racconto sono i protagonisti della giornata conclusiva di Più libri più liberi. La cosiddetta piccola e media editoria, con quella romana in prima fila, continua a comporre con la pubblicazione di libri e voci d’oltreoceano rilevanti il nostro immaginario americano. Autori come Lionel Shriver, Gary Younge, William Tanner Vollman e Grace Paley consentono al lettore di immergersi in storie potenti, che aiutano a interpretare questioni critiche del nostro tempo.

A Roma esiste una casa editrice che porta il nome dell’incrocio tra la Sessantaseiesima Strada e la Seconda Avenue, a Manhattan, dove gli editori hanno creato il primo nucleo del progetto di 66thand2nd. Nella Nuvola all’Eur presenteranno Lionel Shriver, di cui hanno pubblicato I Mandible. Una famiglia 2029-2047 (traduzione di Emilia Benghi, 20 euro, pagine 496).

Il romanzo ci pone dinnanzi alla prospettiva della progressiva perdita dell’egemonia economica e culturale degli Stati Uniti, raffigurata dalla caduta in disgrazia di una famiglia agiata. Precipita il valore del dollaro, alla presidenza giunge Alvarado, primo latinoamericano alla Casa Bianca, e la terra dell’abbondanza lascia spazio al deserto. Shriver si conferma una coscienza critica con una domanda semplice e decisiva: quale mondo lasceremo alle future generazioni?

«Con l’opera di Shriver ho trovato ciò che cercavo: il racconto della grande crisi deflagrata negli Stati Uniti dieci anni fa – sottolinea l’editrice Isabella Ferretti –. La scrittrice, che rifugge qualsiasi inquadramento politico, non si limita alla cronaca, ma guarda alle conseguenze a lungo termine della recessione sulle famiglie americane. La sua distopia tematizza nodi fondamentali dell’agenda mondiale, dall’emergenza ambientale alle migrazioni su scala globale».

Negli Stati Uniti ogni giorno sette ragazzi sotto i vent’anni perdono la vita per colpa di un’arma da fuoco. Gary Younge, il corrispondente del Guardian negli Usa, ci mostra il dolore intimo che questa violenza quotidiana produce. Younge ha scelto una data, il 23 novembre 2013. E dal resoconto dell’uccisione, ma soprattutto della vita, di dieci bambini e ragazzini vittime quel giorno di un’arma da fuoco è nato Un altro giorno di morte in America (Traduzione di Silvia Manzio, 352 pagine, 16 euro), pubblicato da Add editore.

«Il libro di Younge racconta un’America che non solo noi europei non conosciamo davvero, ma anche l’America stessa non vuole vedere – sostiene Stefano Delprete, editor di Add –. Younge ci descrive come la disattenzione, la mancanza di scelte politiche coraggiose e l’assuefazione alla violenza siano le peggiori nemiche della democrazia. Il suo è un libro straordinariamente umano. È come se restituisse la vita a dieci ragazzi, che ci stanno insegnando qualcosa».

Minimum fax per ora pubblicherà sette titoli di William Tanner Vollman, puntando sulla potenza travolgente della lingua e delle sue storie. Nello stand della casa editrice romana, i visitatori della fiera possono già trovare I fucili (Traduzione di Cristiana Mennella, 498 pagine, 16 euro), che è il sesto dei Sette Sogni, la serie di romanzi dedicati da Vollman alla colonizzazione del continente nordamericano, dai vichinghi fino alle guerre indiane.

«Abbiamo scelto di pubblicare Vollmann, perché insieme a David Foster Wallace e a pochi altri ha saputo rilanciare un’idea di letteratura come scommessa e rischio, che il lettore è chiamato a condividere in un’esperienza immersiva e totalizzante – spiega l’editor Luca Briasco – . Vollmann estremizza e porta a livelli di radicalità senza precedenti la massima hemingwayana, e non solo, in base alla quale si scrive solo di ciò che si sa e si sperimenta in prima persona, fino a fumare crack o a rischiare il congelamento nell’Artico per raccontare il gelo e gli stenti di chi cercava il mitico Passaggio a Nord-ovest».

Le short stories di Grace Paley ci fanno ascoltare il cuore periferico di New York. L’ambientazione dei racconti è quasi sempre il Bronx: storie condominiali, la vita dei comitati di quartiere, le lotte di Paley che s’intrecciano con le vicende personali e la commistione fra culture. I protagonisti sono quasi tutte famiglie d’immigrati, come d’altra parte era Paley, figlia di ebrei russi, emigrata a New York all’inizio del Novecento. Einaudi aveva pubblicato la raccolta di racconti scritti nell’arco di trent’anni. La nuova traduzione delle quarantacinque storie, che compongono Grace Paley. Tutti i racconti (Sur, 516 pagine, 24 euro), è stata affidata a Isabella Zani con un’introduzione di George Saunders.


«Non credo ci sia oggi tema più forte dell’integrazione culturale – conclude Marco Cassini, editore di Sur – . Paley è una voce inconfondibile degli Stati Uniti del secondo Novecento. Ebbe grande successo negli anni Ottanta. Era stata accostata a Carver. Nei suoi racconti ogni personaggio e avvenimento tendono a raccontare l’universale. Paley ha sempre alternato la produzione letteraria a una ferventissima attività sociale. I testi non hanno mai un messaggio dichiaratamente politico, ma attingono a quelle esperienze. Ogni storia è come se fosse un solco tracciato non solo nella lingua, nella storia della letteratura, ma anche nella vita del lettore».

giovedì 6 dicembre 2018

Abraham Yehoshua: «L'alibi della memoria deforma il presente»

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 21

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

Nell’incipit del suo ultimo ultimo romanzo, Il tunnel (Einaudi, 339 pagine, 20 euro), Abraham Yehoshua, ospite d’eccezione alla fiera Più libri più liberi, pone il protagonista, l’ingegnere di settant’anni Zvi Luria, dinnanzi all’evidenza senza apparente rimedio della demenza senile.

«Abbiamo rilevato un’atrofia del lobo frontale, che potrebbe suggerire una lieve degenerazione neuronale», sostiene il neurologo.

Zvi però non è solo. C’è la moglie Dina, una pediatra affermata, la cui figura è ispirata a Ika, la moglie dello scrittore israeliano, scomparsa due anni fa durante la stesura del romanzo. Dina tenta subito di stimolare una reazione nell’amore di una vita. Convince Assael Maimoni, che ha preso il posto del marito nel settore dei lavori pubblici, a tenere Zvi come assistente. Maimoni sta lavorando a un tunnel segreto, che trascina il lettore nel cuore del conflitto israelo-palestinese e nella dimensione politica delle opere di Yehoshua.

Yehoshua, come si danza sul confine tra malattia e vita?
«Quando Zvi Luria scopre il principio della malattia, la moglie gli dice di combattere. Lui appare spiazzato. Lei sostiene che è necessario ascoltare l’anima, lottando anche contro il cervello perché non sono la stessa cosa. Nelle prime pagine costruisco le fondamenta del romanzo, che non sprofonda nell’oscurità di una malattia. Nel declino si manifestano anche la libertà e l’opportunità di conoscenza, affidandosi all’ironia. Poi il medico suggerisce di non smettere di fare l’amore e di lavorare seppure l’età sia avanzata».

È interessante l’ambientazione scelta.
«La gran parte dell’azione si concentra nel deserto del Negev, che considero molto importante. Anche l’ambientazione per me è una scelta politica. L’abbiamo abbandonato, investendo i soldi per gli insediamenti altrove e dimenticando la lezione di Ben Gurion, padre dello Stato, che ne rivendicava la potenzialità e fu seppellito nel Negev».

La malattia di Zvi è anche un modo per raccontare altro?
«Sì, non è solo una questione privata. La malattia è anche il simbolo della relazione paradossale tra israeliani e palestinesi, che in ospedale s’incontrano e viene meno il peso dell’identità. Medici, infermieri e sanitari non dichiarano la propria appartenenza e per mestiere cercano di curare e salvare la vita dell’altro. Nella malattia la relazione assume le necessità fondamentali, che trascendono qualsiasi credo in nome dell’umanità».

Il romanzo racconta l’ambivalenza della memoria. Ritiene stia diventando una sorta di gabbia?
«Sì, nel modo in cui la utilizziamo, anche in Israele, è un fattore rischioso. La memoria dell’Olocausto e di una sofferenza incommensurabile non ci dà il permesso di non riconoscere la misura del dolore degli altri. L’immane catastrofe della Shoah non declassa le altre e non ci garantisce un certificato morale. Al contempo i palestinesi con la costante rivendicazione della Nakba e del ritorno a casa, dimostrano di non voler guardare oltre il passato. Queste memorie negative s’impossessano dell’identità, che diventa l’unica ideologia politica. Vuota».

Qual è l’esito di tale politica sul lungo periodo?
«Comporterà la scomparsa della solidarietà. La rivendicazione di identità e di origini presunte costruisce barriere. Ciascuno si barrica nel proprio gruppo sociale, paralizzando lo sviluppo del paese».

Quest’anno ricorrono i settant’anni dello Stato d’Israele. Che cosa ne pensa della legge recente che lo definisce come Stato-nazione del popolo ebraico?
«Innanzitutto non accetto di chiamarlo Stato ebraico, ma è lo Stato d’Israele che dalle origini corrisponde al nome del popolo ebraico. Noi siamo israeliani. In Israele come in Italia c’è differenza tra cittadinanza e identità. In Israele c’è l’identità degli ebrei, ma anche la cittadinanza degli arabi che equivale al riconoscimento di diritti. Un giudice non ebreo ha condannato un nostro presidente a sette anni di prigione. Un druso è al comando di una divisione militare. Un medico palestinese è un direttore di ospedale. Abbiamo diplomatici arabi. Il paese deve continuare a garantire le differenze».

In questa stagione scrivere per lei resta anche un atto politico?
«Intanto direi che sono stato un marito, padre e nonno. Sono soprattutto un cittadino coinvolto nelle questioni politiche del mio paese. Non ho mai esitato nell’esprimere il mio pensiero, usando la mia reputazione di scrittore. Le mie idee sono emerse anche nei libri. L’ho fatto anche in quest’ultimo romanzo con la rottura dell’identità che condiziona la convivenza».

In quale modo si è trasformato il ruolo dello scrittore e il rapporto col potere nella società israeliana?
«Se dovessi scegliere di diventare uno scrittore oggi, probabilmente lo eviterei. La vita del libro in libreria è ormai brevissima. I titoli svaniscono dopo poche settimane. C’è più gente che scrive di quanta effettivamente legga. Le università pullulano di workshop sulla scrittura creativa. Pubblicare sembra ormai una cosa scontata. Apprezzo un certo ritorno alla poesia, che per me è stata la strada maestra verso la prosa. Alla fine degli anni Cinquanta la poesia ha aiutato a definire la mia lingua di autore. Quando prendevamo posizione durante la Guerra dei sei giorni eravamo rilevanti, poiché avevamo un’area politica di riferimento. Negli ultimi trent’anni il fronte laburista si è progressivamente sgretolato».

Avverte come una sconfitta della sua generazione il mancato raggiungimento della pace arabo-israeliana?
«La pace con l’Egitto è stata una grande conquista. Resta la questione palestinese. Nei fallimenti anche loro hanno la propria parte di responsabilità. Gli israeliani proseguono con gli insediamenti, i palestinesi hanno mancato l’occasione di Camp David. Credo che la soluzione dei due popoli, due Stati ormai sia impraticabile. E lo dico con profonda sofferenza, perché è un’idea che ho sostenuto per decenni. Resta l’alternativa di uno stato binazionale in un’ottica di federazione».

Nella sua vita che cosa ha rappresentato la frontiera?
«Il concetto di confine per gli ebrei è stato storicamente labile. L’ebreo è ovunque e da nessuna parte, un figlio della diaspora. Ho sentito la necessità intima di una frontiera entro la quale ricostruire il gene di una madrepatria, l’idea di un attaccamento alla terra che è il primo elemento di ogni nazionalità. Non si può essere italiani senza l’Italia. La questione non è la misura e l’estensione di un territorio, ma la sua esistenza».

martedì 4 dicembre 2018

Michael Dobbs, da House of Cards al Giorno dei Lord: «Addio, Underwood: arriva Jones il ribelle»

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 19

di Gabriele Santoro

Dopo il successo planetario come autore e poi sceneggiatore di House of Cards, dalla creatività e dalla conoscenza della politica di Michael Dobbs, classe 1948, membro del partito conservatore inglese e a lungo collaboratore di Margaret Thatcher, è nato un nuovo ciclo di thriller, che l’editore Fazi pubblica in Italia. Il giorno dei Lord (Traduzione di Stefano Tummolini, 376 pagine, 16 euro) è il primo episodio con protagonista Harry Jones, che presto diventerà una serie televisiva.

Jones è un personaggio politico che si differenzia dall’ideal tipo del genere. Non c’è nulla del cinismo di Frank Underwood. La carriera nell’esercito britannico gli consente di aprire molte porte, nonostante il carattere tempestoso e ribelle. Nel thriller di Dobbs, ospite d’eccezione a Più libri più liberi (venerdì 7 alle 19), la cerimonia d’apertura del Parlamento britannico, che una volta all’anno riunisce le principali personalità del Regno a cominciare da Elisabetta II, è sconvolta da un attentato terroristico di matrice islamista. 

Nel palazzo del potere di Westminster, straordinariamente mal protetto, i terroristi dovranno affrontare il coraggio e l’abilità di Jones. Un aspetto interessante del lavoro di Dobbs è il modo in cui riesce a rappresentare una sorta di paura globale diffusa e indistinta, che caratterizza il nostro tempo e spesso dissolve i contorni del reale.

Dobbs, in quale modo ha costruito Jones? 
«Dopo House of Cards, gli spettatori in qualsiasi parte del mondo mi dicevano: “Diffidiamo dei politici ed è anche colpa tua”. Ho speso molto tempo a descrivere il lato oscuro dei politici e della politica. Poi ho trovato interessante, spero non solo per me, creare un personaggio totalmente diverso. Harry è un ex militare benestante. Nessuno può impartirgli ordini. Può perdere il ruolo nell’esercito, le elezioni e qualche ambizione, ma non l’indipendenza che lo eleva. Lotta contro avversità emotive e psicologiche. È animato dall’ossessione per il padre ed è pronto a disobbedire alle regole per ciò che ritiene sia giusto».

L’assalto terroristico ai luoghi cardine della democrazia britannica evoca la sua vulnerabilità. La forza della democrazia è sopravvalutata, usando le parole di Underwood? 
«No, credo sia forte. La democrazia e le istituzioni parlamentari hanno la flessibilità, che appare come una fragilità, ma la rende capace di sopravvivere agli shock e alle sfide incontrate lungo la strada. Negli ultimi cent’anni abbiamo assistito al collasso senza ritorno di sistemi irreggimentati come le dittature fasciste e lo stalinismo. La democrazia in una maniera talvolta strana e illogica procede, perché ha la flessibilità per resistere alla pressione e adattarsi agli eventi. In qualche modo è un sistema di governo incredibilmente frustrante. Ma la storia mostra che è ancora più forte e funzionale di qualsiasi altra alternativa».

A parte il glamour, qual è il senso della Corona nella società e perché giganteggia ancora la regina Elisabetta II?
«Dopo un ventennio, terribile per molte ragioni, la famiglia reale britannica ha saputo ammodernarsi. Elisabetta II, la monarca più longeva, è amata e rispettata profondamente. I nipoti hanno catturato e riempito nuovamente l’immaginario. Piacciono alle persone che s’identificano con loro e pensano siano un modello positivo. Negli ultimi quarant’anni la famiglia reale non ha mai occupato una posizione così centrale nella società. Il paese preferisce lo stile, il divertimento, il colore e soprattutto la stabilità della Corona ai politici e al presidente che eleggiamo ogni quattro anni».

Lei ha scritto una biografia di Churchill. L’ha aiutata a definire l'equilibrio tra coraggio e compromesso in politica?
«È una domanda interessante. Non ho voluto scrivere la biografia, perché credo che sia stato perfetto. Era un uomo, anche lui aveva debolezze e ha commesso ogni sorta di errore. È diventato lo statista che conosciamo, perché ha saputo misurarsi con le proprie vulnerabilità intime. Era ossessivo e arcigno, si distingueva dagli altri fin dall'adolescenza. Rifiutava la resa. Churchill si dimostrò libero dall’influenza del proprio circolo, come dovrebbe essere un politico. Churchill, colto, intelligente e vitale non si è tirato indietro nel momento in cui la storia doveva essere determinata non dall’interesse personale e da quello di classe».

La prima edizione di House of Cards è uscita l’anno della caduta del Muro del Berlino. Che cosa è diventata la politica?
«La politica era animata dalle ideologie. Le persone lottavano per valori a lungo termine e per la trasformazione della società. Il dato fondamentale è che l’Occidente non è più al volante del mondo. Non siamo più forti e rispettati come trent’anni fa. Non lo è la nostra cultura in decadenza. Dovremmo posare uno sguardo critico sui nostri errori, prima di suggerire al mondo di diventare come noi o imporci con esiti disastrosi come in Iraq, Afghanistan o Libia. Dovremmo esercitare il softpower più della forza militare».

Lei preferisce non commentare l'estromissione dalla serie di Kevin Spacey. Ma le manca Frank Underwood?
«(Sorride, ndc). Ho la signora Underwood, che ha colmato il vuoto in modo straordinario. Provo un senso di tristezza, perché si conclude House of Cards. La sensazione negativa è alleviata dalla maniera forte in cui la serie esce di scena. Chissà, forse non sarà la fine e in futuro tornerà. Stiamo lasciando gli Stati Uniti, credo e spero col pensiero che è stato molto divertente e il desiderio di rifarlo».

Netflix è cresciuta e si è affermata insieme a House of Cards. Come valuta l’impatto di questa realtà produttiva?
«La questione è interessante e complessa. Non possediamo il numero preciso di quante persone abbiano guardato House of Cards, ma sono milioni e in tutto il mondo. Il mercato di House of Cards è globale, includendo la Cina. Adesso il prodotto è disponibile sullo schermo quando e come vuoi. Questa è la novità fondamentale. Prima parlavo dell’importanza dei valori culturali del softpower, che arriva dove non può quello militare. L’impatto di queste produzioni televisive, la cui qualità sta crescendo, va ben oltre l’essere buon intrattenimento. Nasce un audience globale, che condivide valori in un mondo sempre più conflittuale e politicamente frammentato. Serie come House of Cards rendono il mondo più piccolo e avvicinano le persone. È un’età dell’oro per i telespettatori, che hanno più scelta, e per gli autori televisivi: sul piccolo possiamo realizzare cose semplicemente inimmaginabili quindici anni fa. Realtà come Netflix o HBO consentono investimenti rilevanti, che si riflettono sulla qualità delle produzioni».

A proposito di scenari globali. La spinta isolazionistica della Brexit non crede sia la condanna definitiva all’irrilevanza?
«L’Unione Europea si è ripiegata su sé stessa e sembra ancora ferma al ventesimo secolo. La Brexit non equivale all’isolamento. Al contrario, intendiamo aprirci al resto del mondo, realizzando una Gran Bretagna di nuovo globale. L'Unione Europea rifiuta di cambiare sé stessa e occorreva agire, perché il mondo là fuori si trasforma velocemente. Nuovi mercati, idee e sfide provengono sempre meno dal Nord Europa».

Tra pochi giorni il parlamento britannico è chiamato a esprimersi sulla bozza di accordo con l’UE sulla Brexit. Theresa May reggerà? 
«Intravedo poche possibilità che il parlamento lo approvi. Resterei molto sorpreso dall’eventuale sostegno al compromesso di May. Ritengo sia molto difficile per lei restare in carica, qualora una maggioranza decidesse di rigettare l'accordo. Lei è una politica tenace, ma se perde la sfida parlamentare, le persone vorranno affidare ad altre figure l’opportunità di raggiungere una soluzione».

La Gran Bretagna odierna è figlia di Margaret Thatcher?
«Negli anni Settanta eravamo spariti dallo scacchiere mondiale senza lasciare traccia. Il paese era considerato l’ingovernabile malato d’Europa. Thatcher ha corso azzardi per imprimere una svolta senza molte cortesie. È stata responsabile insieme con molti altri del cambiamento sostanziale del volto della Gran Bretagna. Ma è costato moltissimo. Essere al suo fianco per molto tempo è stato un privilegio doloroso».

martedì 27 novembre 2018

Sulle spalle dei giganti: Kareem Abdul-Jabbar


di Gabriele Santoro

Nel 1971 Ferdinand Lewis Alcindor Jr., newyorchese classe 1947, cambiò il nome in Kareem Abdul-Jabbar, dopo la conversione all’Islam nel 1968, il boicottaggio dell’Olimpiade per protestare contro la discriminazione razziale negli Stati Uniti e la conquista del titolo Nba con i Milwaukee Bucks. Alcindor era il cognome dello schiavista, che portò in America e oppresse nelle piantagioni i familiari del campione.


Alla nascita Abdul-Jabbar misurava 57 centimetri, poi il talento e l’applicazione l’hanno reso un padre nobile del gioco a canestro. Alla Power Memorial High School, nella natia New York, oltre a vincere 88 delle 90 partite disputate, registrando il record di punti segnati, cominciò a prendere coscienza politica e sociale del significato delle proprie radici: il senso delle lotte di Harlem, della cultura e della comunità in cui era cresciuto. Il padre gli insegnò ad amare il jazz, la pallacanestro e la madre gli trasmise l’importanza della compassione.

Il fuoriclasse, che al college con coach Wooden trascinò UCLA alla vittoria di tre campionati NCAA, per poi dominare l’Nba con sei titoli in venti stagioni, se non fosse diventato un giocatore di basket, avrebbe voluto insegnare storia. Il memoir di Jabbar Sulle spalle dei giganti. La mia Harlem: basket, jazz, letteratura (add editore, 349 pagine, 19 euro, traduzione di Alessandra Maestrini) restituisce la dote preziosa di chi sa studiare, leggere e interpretare il passato per vivere con consapevolezza il presente.

«Più di tutto sono stati un periodo e un luogo a darmi una grande ispirazione – scrive Jabbar con Raymond Obstfeld – . Tra il 1920 e il 1940, nel quartiere di Harlem, alcuni dei più grandi artisti, musicisti, scrittori, attori e atleti statunitensi si impegnarono in una rivoluzione culturale che avrebbe cambiato la propria nazione per sempre. Quel periodo è conosciuto come Harlem Renaissance, il Rinascimento di Harlem, perché come quello italiano ha ridefinito un’intera cultura».


Che cosa ha rappresentato quel quartiere? Sottraendosi all’ombra della Manhattan bianca, è stato il sogno di un luogo vitale in cui i neri potessero esprimere e realizzare pienamente sé stessi. Non casualmente Jabbar cita James Baldwin fra gli scrittori d’elezione.

Il jazz è il fratello maggiore della rivoluzione, lo segue ovunque va, sosteneva Miles Davis. E nel racconto di Jabbar la capitale dell’America nera, come fin dall’inizio del ventesimo secolo è stata identificata Harlem, è il simbolo della fine dell’acquiescenza degli afroamericani verso l’ingiustizia, la povertà e la marginalità. Nell’area geografica dei cinque chilometri quadrati di Harlem troviamo una profondissima stratificazione culturale e una storia in costante movimento, che Jabbar ricostruisce strada per strada, locale per locale: dal Cotton Club all’Apollo Theater, l’auditorium più prestigioso della zona in cui si esibivano Louis Armstrong, Ella Fitzgerald e Billie Holiday.

Se il jazz rese visibili i musicisti neri, la pallacanestro, alla quale in tenera età Jabbar preferiva il baseball, lo fece entrare nella dimensione del mito con lo strapotere fisico e con quello della parola. Jabbar è maturato, percorrendo le orme di Malcolm X e quelle di Martin Luther King Jr, animato dalle stesse consapevolezze e libertà che Tommie Smith, Peter Norman e John Carlos espressero cinquant’anni fa ai giochi olimpici di Città del Messico.

lunedì 12 novembre 2018

Il viaggio di Ian Manook da Ulan Bator al Mato Grosso

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 23

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

Patrick Manoukian, classe 1949, viaggiatore instancabile, è un figlio della diaspora armena in Francia. Cresciuto a Meudon, sobborgo a sudovest di Parigi, in una famiglia operaia è stato uno scrittore prolifico fin dall'adolescenza, ma non aveva pubblicato nulla fino al 2013, quando la casa editrice Albin Michel ha puntato sul noir dall'ambientazione inusuale, la vastità della Mongolia, con protagonista l'incorruttibile commissario Yeruldelgger.

Già il primo volume di questa trilogia conquistò i lettori francesi: duecentomila copie vendute, insignito di tutti i premi letterari dedicati al giallo e tradotto in dieci lingue. In Italia è approdato con l'editore Fazi, che dopo aver portato in libreria l'ultimo capitolo della serie, La morte nomade, propone l'opera più recente dell'autore, il noir Mato Grosso (286 pagine, 17 euro, traduzione di Maurizio Ferrara).

Manook, dopo aver mostrato un universo che poco conosciamo, la Mongolia sospesa tra le tradizioni ancestrali dei nomadi della steppa selvaggia e la modernità violenta della capitale Ulan Bator, fa viaggiare il lettore in Brasile.

Manook, chi è Jacques Haret, il protagonista del nuovo romanzo?
«È uno scrittore parigino, che come me ha vissuto nel Mato Grosso quarant'anni fa. Nel suo Romanzo brasiliano Haret confessa un crimine, che avrebbe commesso durante quel viaggio. La confessione non è un atto di coraggio, poiché il reato è ormai prescritto. Quando viene invitato in Brasile a presentare il romanzo in un circolo letterario è lusingato e fiero di lui. In realtà l'invito è una trappola tesa da un uomo la cui vita è stata distrutta dalla pubblicazione. E per mostrare la potenza distruttiva del libro per i personaggi a cui lo scrittore si è ispirato, l'uomo forza Haret a leggere il testo ad alta voce per un'intera notte sotto la minaccia di una pistola».

Quali sono le differenze rispetto a Yeruldelgger?
«In Mato Grosso c'è una riflessione sulla scrittura e sulla responsabilità del romanziere nei confronti delle vite a cui si è ispirato per costruire quelle dei suoi personaggi. Haret non è un poliziotto e l'impostazione del romanzo non ricalca la trilogia. Non è dunque un grande romanzo d'avventura come Yeruldelgger, ma è una storia nella storia. A differenza di Yeruldelgger in Mato Grosso nessuno appare come un eroe a tutto tondo. Il confine tra il bene e il male non è così definito. In questo romanzo la violenza si concretizza nelle parole che uccidono».

Il cuore centrale dell'opera resta una riflessione sul rapporto tra l'uomo e la natura, ma soprattutto sulla violenza.
«Il filo rosso dei miei romanzi in Mongolia come nel Mato Grosso, ma anche in Islanda, è che la natura domini l'uomo, che quando è saggio vive in armonia con essa senza sfidarla. L'uomo da solo è nulla dinanzi alla natura, in gruppo può distruggerla con un ancestrale bisogno di affermarsi. Si sprofonda nella violenza negando o cancellando culture e tradizioni millenarie inseparabili dall'ambiente naturale».

Che cosa unisce universi così distanti come la Mongolia e l'Amazzonia? 
«Le unisce la cultura indigena per cui occorre lasciare l'accampamento in una condizione che permetterà al prossimo di stabilirsi e di viverci. La Mongolia sembra un paese indistruttibile ed eterno come la foresta amazzonica. In realtà, nei prossimi venti anni potrebbe sparire economicamente, politicamente e fisicamente. Possiede le miniere d'oro e di rame fra le più grandi al mondo, la manodopera al costo più basso ed esemplifica il cinismo delle entità economiche sovranazionali che governano la globalizzazione. Da oltre un secolo le potenze straniere saccheggiano le sue risorse senza offrire nulla in cambio. Tra trent'anni la Mongolia si ritroverà senza più la resa delle risorse naturali, con il paesaggio distrutto a causa di un modello di sfruttamento che con l'inquinamento metterà in pericolo il turismo e l'allevamento. Sono gli stessi rischi che corre il polmone verde del pianeta».

Nel 2007 lei ha scoperto insieme a sua figlia la Mongolia per verificare il lavoro dell'associazione per l'adozione a distanza che sostenete. Mato Grosso invece è un'altra storia.
«Sì, negli anni della mia gioventù è stato la conclusione di un viaggio iniziatico durato 27 mesi.
Avevo 25 anni. Ho vissuto con una cartucciera sul torace e una colt appesa alla cintura, fotografando o cacciando caimani, anaconde, puma e mangiando piranha al bivacco della sera. All'alba degli anni Settanta ho trascorso oltre un anno nello stato brasiliano, in particolare nel Pantanal. È una giungla, che durante la stagione delle piogge diventa una delle più grandi paludi esistenti al mondo. All'epoca ci fu una delle peggiori inondazioni del Mato Grosso e impiegai 21 giorni per attraversare il Pantanal in piroga senza mettere quasi mai il piede a terra». 

Che cosa rappresenta il Pantanal? La sua descrizione è parte fondamentale del romanzo.
«Il libro è un omaggio alla cultura del viaggio e alla scrittura. Il Pantanal è una regione magica, acquatica e luminosa con una fauna e una flora fra le più ricche dell'Amazzonia e una rilevante presenza di ciò che resta delle culture dei nativi americani. Lévi-Strauss soggiornò e studiò nel Mato Grosso per redigere Tristi Tropici».

Perché il libro si apre con le parole di Stefan Zweig?
«La citazione parla della luce e delle ombre, l'una senza l'altra non esisterebbero. È il senso del romanzo. Ognuno crede nella propria verità, illuminando gli argomenti che l'altro pretende di tenere nell'oscurità. Haret confessa un amore impetuoso, violento, fanatico per una donna che si è abbandonata a lui. Santana, il suo contraltare, lo definisce invece semplicemente uno stupro. Chi ha ragione? Tocca al lettore costruirsi un'idea, non prendo nessuna posizione».

E Zweig?
«Amo la sua scrittura e ammiro il coraggio con cui si è rassegnato ad abbandonare questo mondo per non vederlo soccombere all'orrore. L'ambientazione dell'incontro a porte chiuse tra Haret e Santana a Petrópolis, dove Zweig insieme alla sua compagna ha scelto di andarsene, non è casuale».

mercoledì 7 novembre 2018

ll Nobel Le Clézio sotto il cielo di Seul: «La narrazione è una via di fuga»


Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 28

di Gabriele Santoro



di Gabriele Santoro

«Senza carta, penna e inchiostro, ho disegnato e scritto le mie prime parole sulle tessere del razionamento del cibo, usando la matita rossa e blu di un falegname. E mi è rimasto un certo gusto per i supporti ruvidi e per le matite semplici», racconta Jean-Marie-Gustave Le Clézio, classe 1940, insignito nel 2008 del Premio Nobel per la letteratura, che non ha perso il senso del viaggio e della scrittura.

Il suo romanzo più recente, appena tradotto e pubblicato in Italia da La nave di Teseo, porta il lettore in Corea del Sud, alla scoperta di Seul, posando sulla città icona della mondializzazione lo sguardo straniero di una donna giovane e tenace, che approda dalla campagna. Bitna, sotto il cielo di Seul (traduzione di Anna Maria Lorusso, 155 pagine, 18 euro) è la storia della ricerca della libertà di una studentessa povera, che però conosce il potere della parola e intravede quello della letteratura.

Bitna ama leggere e in una libreria di Seul trova un annuncio di lavoro, che le consente di affittare una piccola stanza in periferia e di mantenersi durante gli studi. Salomé, un’anziana signora, cerca qualcuno che le faccia compagnia, narrando storie, e svela il talento di Bitna. In questo romanzo c’è traccia «dell’autore di nuove partenze, avventure poetiche ed estasi sensuali, indagatore di un’umanità che va al di là e nel profondo della cultura dominante», riprendendo le motivazioni dell’assegnazione del Nobel.

Le Clézio, c’è un tratto autobiografico nella figura di Bitna?
«In qualche modo è un prolungamento della mia personalità. Ho voluto creare un personaggio che mi assomigliasse, nonostante le differenze di genere e d’età. Salomé esprime il desiderio di fuggire dall’immobilità mediante l’ascolto della parola. Mia nonna materna era una narratrice straordinaria, che riservava lunghe ore pomeridiane al racconto di storie con una notevole forza evocativa. Leggevo i suoi dizionari e la ascoltavo per vagabondare e sognare. Bitna potrebbe diventare una scrittrice».

A Seul vivono oltre dieci milioni di persone e, considerando l’intero agglomerato periferico, il numero raddoppia. Che cosa significa abitare la città?
«La verità è che non abbiamo trovato ancora alcuna soluzione all’atomizzazione dei legami urbani. Bitna sostiene che la città è così estesa e popolata che si potrebbe camminare un milione di giorni senza incontrare due volte la stessa persona. Ogni giorno Seul si allarga. Si tratta di un flusso inarrestabile. È una città evidentemente cosmopolita e multiculturale in cui s’intrecciano moltissime lingue».

La lotta di Bitna per emergere nella società sudcoreana è aspra.
«Ho trascorso circa quattro anni a Seul, insegnando presso l’università femminile di Ewha, che è un vero vivaio di talenti e d’immaginazione. Le giovani ragazze coreane sono portate per le arti e alimentano la nuova cultura coreana, molto più di quanto non facciano gli uomini. Han Kang, vincitrice due anni fa del Man Booker Prize, è nota quasi ovunque nel mondo, ma non è sola. Nel panorama letterario sudcoreano spiccano le donne. Le scrittrici hanno lottato per imporsi, perché la società coreana è molto maschilista e non lo accettava facilmente. Seul è una città in cui si lotta ed è fertile per la letteratura».

Perché?
«Un elemento è stato la distruzione della città durante la Seconda Guerra mondiale. Seul è stata rasa al suolo, come Colonia in Germania, e tutto è stato ricostruito. Con l’immaginazione le donne hanno saputo andare oltre la disperazione provocata da tale annientamento».

Quale impatto continua ad avere la demarcazione, che separa le due Coree dal 1953?
«C’è il desiderio di varcarla. ”Un giorno attraverseremo il fiume, passeremo le montagne e saremo di nuovo casa”, canta la madre di Cho, raffigurato da Bitna. E al contempo il peso della frontiera, per quanto sia invisibile, non si cancella facilmente. È un’angoscia latente, che aleggia sulla città e influisce soprattutto sui giovani veramente sensibili al tema. Ogni volta che qualcuno tossisce in Corea del Nord, al Sud le persone tirano fuori le maschere e sono pronte a ripararsi».

Nel romanzo affiora la solitudine in una capitale ipertecnologica. A Seul c’è spazio per chi resta indietro?
«Sì, è vero. Occorre raccontare anche la solitudine degli esclusi dall’imponente sviluppo sudcoreano. Nella filosofia di vita coreana, che proviene dal Confucianesimo, la dignità è un elemento fondamentale».

Nel discorso di accettazione del Premio Nobel, perché ha scritto che la letteratura è ancora più necessaria rispetto ai tempi di Byron e Hugo?
«Era utile anche all’epoca di Byron, ma si rivolgeva a un’élite. La letteratura deve trovare nuovi lettori ed entrare nel paesaggio di chi non legge mai. E si può realizzare, facendo sapere che dentro i libri ci sono anche le loro vite da andare a cercare».

L’arte del viaggio è stata fondamentale nella sua formazione. Oggi che cosa rappresenta?
«Sono nato nomade. Dopo aver trascorso del tempo in un luogo, sento il bisogno di andarmene, di respirare e di guardare altri paesaggi. Scrivo per viaggiare. Ho amato vivere in Africa, quando ero bambino, e forse non l’ho mai abbandonata. Ho trascorso la mia infanzia immaginando sempre di andare altrove. Da utopista, in possesso di un passaporto francese, non smetto di sognare il tramonto della frontiera».

Che effetto le fa la marcia dei migranti?
«Non vedo la novità. Da sempre le persone cercano di fuggire dai paesi poveri in cui c’è una violenza istituzionalizzata e la politica è repressiva. Nel continente americano ma non solo è una costante. E mi permetto di aggiungere una questione».

Quale?
«Nonostante le teorie sul mondo interconnesso essere nati con il passaporto sbagliato è ancora una disdetta. Il tema è la cittadinanza e che cosa stia diventando. Avverto come una profonda ingiustizia, testimone della nostra epoca, il divario di valore tra il mio passaporto di Mauritius e quello francese».

lunedì 15 ottobre 2018

Bussole. L'atlante delle frontiere


Lettura dell'intervista a Pagina 3 Rai Radio3


https://www.raiplayradio.it/audio/2018/10/PAGINA-3-68228d97-7821-4a68-ad02-ce6ef71d3fc2.html?fbclid=IwAR2NaY3i_ttiH4v5GmI9S77GfBwOgFr3JJNVt0K5-CShs1MJn3I3tWv2pQ0

di Gabriele Santoro

L’Atlante delle frontiere (Add editore, 140 pagine, 25 euro, traduzione di Marco Aime), scritto e disegnato da Bruno Tertrais e Delphine Papin, è una bussola che orienta e illumina la complessità del nostro tempo, in cui assistiamo a un rafforzamento non solo tecnologico delle frontiere senza precedenti nella storia.


In apertura della propria analisi geopolitica Tertrais, diplomatico francese direttore della Fondazione per la ricerca strategica, fissa una nozione spesso confusa: tutte le frontiere sono artificiali, poiché sono definite dagli uomini. Per esempio Cina e Russia hanno impiegato quarant’anni a dividersi 2444 isole fluviali. Lo sviluppo delle frontiere è legato alla nascita del mondo moderno e comincia nel XVII secolo. Dalla metà del XIX secolo al 1914 il mondo è stato diviso parallelamente alla costruzione degli stati. Solo alla fine della Guerra Fredda sono comparsi sulla terra ventottomila chilometri di frontiere e il 10% delle attuali è successivo al 1990.

Oggi esistono 323 frontiere terrestri su circa 250mila chilometri. Il Continente europeo, che è culturalmente un insieme fluido dai confini incerti, conta circa cento frontiere per una lunghezza di 37mila chilometri. L’Atlante è davvero ricco di informazioni e mappe intellegibili con molte curiosità: la frontiera più antica risale al 1278 tra Andorra, Francia e Spagna. La più lunga, 8991 chilometri, delimita Canada e Stati Uniti. La più attraversata è quella tra Messico e Stati Uniti con 200mila persone al giorno.

 Tertrais, che cos’è una frontiera internazionale moderna?
«È una linea che delimita lo spazio di sovranità di uno Stato».

Qual è la situazione dopo il boom delle frontiere sorte nel 1990?
«Oggi non si tracciano quasi più frontiere terrestri. Innanzitutto perché non ci sono più “zone bianche” sugli atlanti, se si eccettua il continente antartico conteso. Più passa il tempo, più le frontiere esistenti vengono accettate. Siamo in una chiara fase di consolidamento delle frontiere».

E quando nasce un nuovo Stato?«Sistematicamente si riprendono dei tracciati esistenti di province, regioni e stati federali. Non siamo più al tempo in cui vecchi diplomatici con barbe bianche si appoggiavano sulla carta con una matita e dicevano: la frontiera va tracciata qui. La grande stabilità delle frontiere terrestri è qualcosa di poco conosciuto».


Ci sono delle eccezioni e non mancano le contese dall’ex Jugoslavia all’Ucraina.
«Potremmo assistere alla creazione di una frontiera, con la conseguente apertura di un vaso di pandora, in caso di uno scambio significativo di territori tra Serbia e Kosovo, su cui si registra la freddezza della comunità internazionale. Nel 2014 il tracciare con la forza da parte della Russia in Crimea una frontiera è stato un avvenimento molto significativo. Ma è impossibile per l’Europa e gli Stati Uniti riconoscere e accettare la secessione della Repubblica di Doneck, sarebbe un effetto domino».

Quando prevale il principio di intangibilità delle frontiere?
«È più facile accettare lo status quo, pur ingiusto e imperfetto, che ridisegnare da capo una frontiera. Un principio che è già antico, perché semplifica la vita internazionale. È stato adottato per esempio nella Carta dell’Unione Africana, perché era più conveniente mantenere le frontiere coloniali non del tutto soddisfacenti in luogo di sprofondare in uno stravolgimento».

È ormai sparita l’illusione di un mondo senza confini.
«Questa idea aveva in sé stessa il germe della propria fine. Il mondo senza frontiere a molti fa paura, mentre per altri è un ideale. Non è sorprendente che esista un desiderio e una rivalorizzazione della frontiera. Lo sviluppo delle frontiere è legato alla nascita dello Stato moderno, ma non sono mai state precise come oggi. Non abbiamo mai demarcato e sorvegliato così i confini».

Anche il mare è destinato a essere sempre più delimitato?
«Al contrario di quelle terrestri, le frontiere marittime sono ancora poco contrassegnate: solo 160 su 450 potenziali. Il mare costituisce il nuovo orizzonte della frontiera. Siamo entrati in una fase di messa in opera della Convenzione Onu sul diritto del mare, che incita gli Stati a delimitarlo. È un cantiere ancora aperto in cui convergeranno o confliggeranno interessi per le risorse naturali e ragioni di principio nazionaliste».

E l’Artico?
«Ha acquisito un’importanza nuova, perché è divenuto economicamente più semplice sfruttare le sue risorse: la pesca, il petrolio e il gas. E poi a causa del riscaldamento climatico c’è l’utilizzazione di rotte commerciali del Mare del Nord col passaggio a nordovest più semplice. Oggi c’è la volontà di un paese in particolare, la Russia, di affermare la propria sovranità su molti spazi della regione artica. Si pone una questione di sovranità destinata a divenire sempre più rilevante».

Che cosa rappresentano le frontiere esterne, quando si verifica l’implosione e frammentazione di entità statuali come la Libia?
«Mi colpisce nei paesi falliti, come nel caso citato della Libia o della Somalia, la persistenza delle frontiere esterne. Si resta attaccati alla frontiera esistente. Nel caso della Libia può darsi che un giorno avvenga una separazione tra la Tripolitania e la Cirenaica, ma ciò che ancora stupisce è la resilienza della frontiera. Occorre ricordare che in Medio Oriente spesso si parla di frontiere artificiali, ma spesso a rimetterle in discussione non sono i cittadini ma una piccola parte dell’élite».


Quale futuro immagina per Schengen, spazio di circolazione unico al mondo?
«L’accordo originale di Schengen è stato concepito per facilitare il movimento dei lavoratori transfrontalieri. Era un progetto molto interessante, nato non come un elemento fondamentale dell’integrazione europea e poi percepito dagli europei come una conquista. Una piena cooperazione tra forze di polizia e dogane sarebbe più efficace e meno costosa della sorveglianza statica di posti fissi sulla frontiera».

Vede uno spazio in Europa per gli aneliti indipendentisti che ridisegnerebbero i confini?
«Negli ultimi venticinque anni è cambiato ben poco, a dispetto delle previsioni secondo cui con l’Unione Europea sarebbe stato più semplice separarsi dallo Stato centrale. Nessun desiderio indipendentista si è concretizzato. E non credo sia uno scenario probabile a venire».

 Perché definisce la demarcazione intercoreana l’ultimo vero Muro di Berlino esistente?
«Il Muro di Berlino era stato ideato per impedire alle persone di uscire. Oggi i muri e le barriere che sorgono in Europa sono per evitare l’ingresso. La frontiera intercoreana ha la medesima funzione politica e istituzionale: esiste per impedire alle persone di andarsene. Non credo che l’incontro tra Trump e Kim Jong-un altererà in maniera fondamentale la situazione frontaliera nella penisola coreana. È possibile che il dialogo separato, che esiste tra Nord e Sud, conduca a visite più frequenti, ma questo regime ha bisogno intrinsecamente della chiusura: sopravvive così».