giovedì 31 maggio 2018

Bob Kennedy, la lezione ignorata: l'America spara ancora

Il Messaggero, sezione Macro, pag. 1-21

di Gabriele Santoro



Lettura dell'intervista a Pagina 3 Rai Radio3


di Gabriele Santoro

«Il senatore Robert Francis Kennedy è deceduto all'una e 44 di oggi, 6 giugno 1968, all'età di quarantadue anni». Frank Mankiewicz, suo portavoce dal 1966, annunciò al mondo la conseguenza fatale dell'attentato della notte precedente, quando nel corridoio delle cucine dell'Hotel Ambassador a Los Angeles Sirhan Sirhan, statunitense di origine giordana, sparò al candidato che aveva appena vinto le primarie in California, una tappa decisiva nella lunga corsa verso la Casa Bianca.


L'assassinio del settimo dei nove figli di Joseph e Rose Kennedy assomiglia a una ferita mai rimarginata. È la malinconia di una stagione politica drammaticamente incompiuta per una nuova generazione di americani, come la definì il presidente John F. Kennedy nel discorso d'insediamento a Washington. A cinquant'anni dalla morte le parole di Bobby Kennedy risuonano nelle marce degli studenti negli Stati Uniti contro la violenza e la proliferazione delle armi. Con il suo contributo, ma solo dopo la morte, nel 1968 il Congresso approvò il Gun Control Act, legislazione poi resa evanescente dalle pressioni della tuttora influente National Rifle Association.

Le parole dell'anima politica dei Kennedy danno un volto agli attuali 41 milioni di poveri americani, difendono i diritti delle minoranze e animano la nostalgia per un'idea alta e collettiva del fare politica, che pure non fu esente da incongruenze, errori e ambizioni di potere legate alla famiglia. La lungimiranza di Bob continua a stupire. Il 4 gennaio del 1967 decise di inaugurare a New York una delle prime conferenze nazionali sul rapporto tra economia e inquinamento, denunciando i rischi del degrado ambientale.

La politica era la passione di famiglia: il nonno Fitzgerald sindaco di Boston e parlamentare; il discusso padre Joseph primo presidente della Sec e poi dal 1938 Ambasciatore in Gran Bretagna; infine il fratello John Fitzgerald, il 35° e più giovane presidente degli Stati Uniti. E ancora oggi 35 membri della famiglia svolgono attività politica. Come ricordava il più introverso fra i Kennedy, classe 1925, nell'incipit della raccolta di scritti del 1962 The Pursuit of justice durante l'infanzia «difficilmente c'è stato un pasto in cui la conversazione non fosse dominata da cosa facesse Franklin D. Roosevelt o da quel che stava accadendo nel mondo. La vita pubblica sembrava un'estensione di quella familiare, il servizio nelle istituzioni era il modo per riempire di senso l'esistenza».

L'esperienza determinante per comprendere la natura dell'impegno di Kennedy è il periodo nel quale appena trentacinquenne ricoprì il ruolo di Ministro della giustizia. Dal dicembre del 1960 al 22 novembre del 1963, quando uccisero il fratello a Dallas, articolò una battaglia senza precedenti al crimine organizzato e rivoluzionò il Dipartimento, rendendolo con una squadra di prim'ordine l'avanguardia della Nuova Frontiera. Il Procuratore Generale più rilevante nella storia degli Stati Uniti d'America prefigurò perfino il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, fattispecie penale di cui l'Italia si è dotata solo dopo la morte di Pio La Torre e Carlo Alberto dalla Chiesa e resta un unicum nel panorama internazionale.


I suoi collaboratori più stretti hanno sempre sottolineato che Kennedy possedeva una capacità straordinaria organizzativa nel mobilitare e galvanizzare le persone. E sapeva ascoltare. Visse con passione il proprio tempo, interpretandolo, e conosceva il coraggio di cambiare.

Robert, nato dalla parte del privilegio, provò a far capire cosa significasse vivere nella società più ricca della storia senza un minimo di speranza e la radicalità del cambiamento necessario. Nel 1967, dopo un lungo viaggio fra i ghetti dei neri d'America, Kennedy confidò a Mankiewicz i pensieri e le esigenze che l'assillavano e che avrebbero caratterizzato l'agenda, orientata soprattutto alla working-class, degli ottantadue giorni delle primarie presidenziali. Il contrasto alla discriminazione razziale e alla povertà s'intrecciarono in modo inestricabile.

Nei sedici anni di vita pubblica, cominciata nel 1952 con la conduzione della campagna elettorale che consentì al fratello John di conquistare uno scranno al Senato, Bobby Kennedy maturò con costanza e riuscì nell'opera più complessa per un politico: chiedere al proprio paese di guardarsi dentro in un decennio tumultuoso segnato dalle crescenti disuguaglianze, dalle ombre della Guerra Fredda, dalla segregazione razziale e dalla lacerante guerra in Vietnam di cui si assunse la propria parte di responsabilità per gli esiti disastrosi della dottrina della controinsurrezione nel conflitto vietnamita.

«Questa guerra divisiva ha provocato una profonda crisi di fiducia in noi stessi come nazione – affermò il 18 marzo '68 davanti agli studenti dell'Università del Kansas –. Sono stato coinvolto nelle prime scelte sul Vietnam, decisioni che hanno contribuito a produrre la situazione attuale. Gli errori del passato non perdonano che li si perpetui. La distruzione del Vietnam, il prezzo che paghiamo noi e il mondo non è di alcuna utilità. La guerra deve finire».

Nel 1948 appena laureatosi in giornalismo ad Harvard, Kennedy partì per il Medio Oriente in qualità di inviato del Boston Post. Poi non smise mai di occuparsi degli affari internazionali come nella questione cubana.


Nel giugno de1 1966 Bob compì in Sudafrica, in veste di senatore dello Stato di New York, il viaggio forse più significativo ispirando la lotta di liberazione. L'icona del difficile processo sudafricano di riconciliazione Desmond Tutu ricorda ancora la centralità di quella visita nel cammino verso la libertà. Si immerse senza scorta insieme alla moglie Ethel nella township di Soweto, riverberando con Mandela già in carcere la parola vietata del presidente dell'African National Congress, Albert Lutuli. Kennedy volle incontrarlo nel confino riservatogli dal governo segregazionista e ruppe la solitudine internazionale degli oppressi.

Appena atterrato in Sudafrica, prima di denunciare il durissimo regime di apartheid, riconobbe quello che subivano gli afroamericani di cui conquistò la fiducia. In questo senso è paradigmatico il rapporto con Martin Luther King Jr. Da Ministro della giustizia assecondò l'attività spionistica dell'FBI, preoccupato degli effetti della disobbedienza civile del leader del Movimento per i diritti civili, poi difese sul campo gli attivisti noti come “freedom riders”. King e Kennedy s'incontrarono lunga la strada della lotta alla povertà e dello smantellamento della segregazione razziale, che costituì la battaglia più dura e meritoria dell'amministrazione Kennedy.

Trasfigurato dal dolore e dall'angoscia per il paese, come quando ammazzarono il fratello, fu il primo a mettersi a disposizione della vedova Coretta Scott King. Nella giornata successiva all'uccisione di Martin Luther King Jr. scoppiarono sollevazioni in oltre cento città americane con 46 morti e 2500 feriti sulla strada. L'unico luogo risparmiato dall'onda distruttrice fu Indianapolis, dove intervenne Kennedy, che amava il poeta Eschilo e pronunciò uno dei discorsi più rilevanti del Novecento, quasi una preghiera: «Dedichiamoci a perseguire quello che i greci scrissero tanti anni fa: domare la natura selvaggia dell'uomo e rendere gentile la vita in questo nostro mondo».

venerdì 18 maggio 2018

Aleppo, parabola di una grande città: lo splendore prima della guerra

di Gabriele Santoro

Quando tutto sembra perduto, la memoria assomiglia a uno scorcio di futuro. Aleppo, ora frammentata e piena di macerie, era un ponte tra Occidente e Oriente pieno di bellezza. Prima della guerra era il centro industriale, finanziario e la città più popolosa della Siria con oltre due milioni di abitanti. Un luogo fecondo di scambi, culla della musica araba e famosa per la cucina, che resta nell'immaginario un'idea di convivenza possibile nella sempre più conflittuale area mediterranea.

Nei secoli Aleppo ha attirato viaggiatori da tutto il mondo: aveva il suq più esteso in Medio Oriente, che si sviluppava lungo dodici chilometri. Per stare al Novecento, Agatha Christie, che l'amava molto, arrivò ad Aleppo sul Taurus Express e iniziò il suo giallo Assassinio sull’Orient Express (1934) con Hercule Poirot dallo stesso luogo e treno. La città ha resistito all'imporsi violento dell'omogeneità culturale, che aleggia dopo gli esiti devastanti del conflitto siriano ancora in corso. Serviranno anni e decine di miliardi di dollari per restituire una vita non solo economica alla città, che però è piena di confini, di ferite visibili e invisibili difficili da curare.

Il lavoro dello storico londinese Philip Mansel, che è fra gli ospiti internazionali del Festival èStoria, condensato nel libro Aleppo – ascesa e caduta della grande città commerciale siriana (LEG, 312 pagine, 22 euro, traduzione di Vincenzo Valentini) consente di disegnare il ritratto e toccare lo spirito di una città davvero unica, posando lo sguardo oltre la guerra e l'impoverimento della diaspora odierna.


Mansel, nel corso dei secoli quali condizioni favorirono il cosmopolitismo ad Aleppo?
«La geografia, l'Islam e l'Impero Ottomano. Aleppo è situata fra l'Anatolia e l'Arabia, il Mediterraneo, il deserto e l'Eufrate. Dalle sue origini ha tenuto insieme greci, turchi, arabi, curdi, armeni e molti altri. Nel 637 spalancò le porte alle armate arabo musulmane, probabilmente considerandole più forti e meno oppressive di quelle dell'Impero Romano. Nella città è fiorita però una comunità ebraica, che ha conservato uno dei più antichi manoscritti della Torah. Ad Aleppo non esistevano grandi santuari religiosi che stimolavano la rivalità e il fervore dei fedeli, come invece succedeva a Gerusalemme, Damasco e Costantinopoli».

Aleppo era la terza città più grande dell'Impero ottomano. In che modo divenne un epicentro mondiale del commercio, unendo Oriente e Occidente dal periodo ellenistico all'età imperiale?
«L'Impero ottomano garantì condizioni più favorevoli ai cristiani e agli ebrei del precedente stato musulmano, poiché necessitava del commercio internazionale e di alleati. La geografia favoriva gli scambi. Aleppo si posizionava lungo le rotte commerciali tra Egitto, Anatolia, Caucaso, Persia, il Golfo e l'Arabia. Dopo il 1909 le linee ferroviarie mostrarono quanto Aleppo fosse una giuntura naturale fra diverse strade da Costantinopoli, Cairo e Baghdad. Si stabilirono i consoli stranieri, che tutelavano i mercanti dei propri paesi: Francia, Paesi Bassi, Gran Bretagna e dal tredicesimo secolo Venezia. Divenne una grande città manifatturiera, realizzando prodotti tessili per il mercato dell'Impero».

Aleppo non era solo commerci. Come lei ricorda oltre sei secoli fa si respirava una libertà sconosciuta in Europa.
«Sì, la libertà attraeva e colpiva i viaggiatori stranieri del sedicesimo secolo. Non esistevano ghetti come a Roma e Venezia, dove gli ebrei dovevano pagare per essere rinchiusi la sera. Le comunità non erano forzate a vivere in diversi quartieri, seppure molti lo facessero per essere più vicini a una chiesa, moschea o sinagoga. Aleppo era più tollerante e globale di Damasco».

Che cosa accadde alla città dopo il collasso politico della Prima Guerra Mondiale?
«Aleppo scampò al grosso dei combattimenti, ma non all'annientamento degli armeni da parte del governo ottomano. Fedele allo spirito della città, un governatore chiamato Celal Bey sulle prime sfidò gli ordini di deportazione degli armeni. La geografia che aveva reso Aleppo un crocevia commerciale, la rese anche un crocevia delle marce della morte. I conflitti odierni risalgono ancora alla definizione dei confini voluti dai Paesi europei vittoriosi dopo la dissoluzione dell'Impero ottomano. Tra i nazionalismi nascenti e i settarismi religiosi, Aleppo restò profondamente multiconfessionale e cosmopolita, più cristiana che mai dai tempi della conquista araba».

La cinta muraria della città medievale è stata un brutale campo di battaglia fino a un anno fa. È immaginabile un recupero della sua funzione simbolica?
«Credo possa accadere in superficie. Penso al risveglio di Berlino dopo il 1945 e Beirut dopo il 1990. Ma è estremamente difficoltoso. L'odio è il nemico più ostico, particolarmente quello tra sciiti e sunniti che dilania gli islamici. I nodi del conflitto permangono. Gigantografie del presidente Assad contemplano le rovine di Aleppo, come sulle macerie di Homs e delle altre città siriane. Tantissime persone originarie del posto hanno cominciato a costruire una nuova vita all'estero. La fiducia reciproca è l'elemento più complesso da ricreare. La paura divora l'anima. Ci sono state troppe morti, furti e dolori. Ci vorrà moltissimo tempo davvero perché Aleppo ritrovi sé stessa».

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venerdì 11 maggio 2018

Walter Siti, pagare o non pagare

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 1-25

di Gabriele Santoro






di Gabriele Santoro

Nel saggio denso Pagare o non pagare (Nottetempo, 135 pagine, 12 euro), che sarà presentato domenica al Salone del libro di Torino, Walter Siti, critico letterario, già insegnante universitario, scrittore, insignito del Premio Strega con il libro Resistere non serve a niente, fa quel che si attende da un intellettuale: svolge un'attività critica e creativa, proponendo una lettura sociale dei movimenti del mercato, del lavoro e del denaro che in parte determinano desideri e costumi.

Siti, senza improvvisarsi economista e senza lasciarsi sedurre da profezie con pretese assolutische, analizza lo scioglimento di quella che definisce la catena socialmente consapevole che cinquant'anni fa appariva infrangibile: «Lavorare, essere pagati, pagare, comprare; che è evaporata in una nebbia di delusioni e speranze in cui sembra che il denaro abbia perso la propria funzione di perno, in quanto collegato al lavoro». Lui, nato in una famiglia operaia, racconta il blocco della mobilità sociale.


Siti, che cosa comporta la scomparsa progressiva della funzione identitaria del pagare?
«Ho l'impressione che per i giovani il diventare adulti, cominciando a guadagnare soldi con un posto di lavoro ragionevolmente stabile, fosse proprio un rito di passaggio dall'adolescenza. In mancanza di questo ognuno si arrangia come può, e spesso l'adolescenza è protratta oltre i trent'anni. Questa incertezza sul valore reale delle cose, del chi ci paga e per che cosa contribuisce a una specie di stato fluido in cui è difficile crearsi una strada precisa».

Ricorda la prima busta paga?
«L'ebbi in agosto. Era l'estate del 1965 e lavoravo presso un magazzino dell'Enel. Gridai la cifra a mia madre dal cortile di casa per farmi sentire da tutti e poi le comprai un ventilatore».

Perché asserisce che non siamo più in grado di stabilire il prezzo delle cose?
«Il consumismo si è caratterizzato fin dall'inizio per una sproporzione tra valore d'uso e valore di scambio monetario, ma oggi il divario è diventato così abissale da far perdere qualunque orientamento. I prezzi sono sempre più opachi con una duplice tendenza che nebulizza il valore: la corsa a ottenere il prezzo più basso e poi picchi assurdi verso l'alto sganciati da un reale aumento della qualità».


Nel mondo dell'iperconnessione alla portata di tutti riaffora, semmai sia mai andata via, la questione di classe?
«Ormai c'è un'oligarchia evidente e sempre più dominante, che supera la diarchia ricchi e poveri. In pochi davvero comandano il mondo. Negli ultimi venti anni, chiunque sia stato al governo, la forbice delle diseguaglianze si è allargata sembra in modo inesorabile. La partita si gioca tutta su questo divario. E la classe media rischia la lacerazione definitiva».


Che fare, se si continua a desiderare il massimo, quando a disposizione non c'è che il minimo?
«Viviamo la discordanza per la quale si desiderava una crescita illimitata e invece i mezzi sono venuti a mancare. Si proiettano immagini. Si nega e ci si traveste. Riteniamo che la tecnologia supplisca, dando dei surrogati di infinito delle illusioni. È come se si vivesse in una specie di bolla, in cui c'è ancora qualcosa da perdere per poter sperare di cambiare radicalmente le cose. E poi si danza sull'ambiguità del termine free in inglese. “Libero” e “gratis” non convergono. Qualunque potere cerca di dare cose gratis per ottenere in cambio informazioni produttrici di valore».

Che cosa la inquieta maggiormente della cosiddetta “gig economy”?
«Erano almeno cinquant'anni che non si avvertiva così forte l'asprezza dei rapporti di lavoro. Una volta tramontata la civiltà del lavoro novecentesca, che cosa inventiamo? La domanda portante, anche di questo libro, riguarda il come agiamo dinnanzi alla progressiva scarsità del bene lavoro. Non concordo con chi dice spesso che le rivoluzioni tecniche tolgano posti di lavoro ma anche ne diano nuovi. Almeno non quanti ne servirebbero».

Perché sostiene che nella tecnologia c'è spesso omologazione?
«Dal desiderio di combattere una multinazionale con l'invenzione ne nasce una più grande. Le start up libertarie, trasgressive e ribelli di successo vengono poi acquistate dalle multinazionali e arricchiscono chi le ha inventate. C'è molta libertà in vendita».

Lei farebbe volentieri piazza pulita di applicazioni per natura invadenti?
«Ci siamo messi nella condizione di dover scegliere tra servizi e privacy. Mentre cammino mi infastidisce molto il suggerimento della localizzazione del negozio che vende le mie scarpe preferite, ma non farei a meno delle indicazioni di Google Maps».

mercoledì 9 maggio 2018

Guillermo Arriaga: «Vi racconto l'uomo e i suoi istinti bestiali»

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 27

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

Juan Guillermo, protagonista de Il Selvaggio (Bompiani, 752 pagine, 22 euro, traduzione di Bruno Arpaia), il nuovo romanzo di Guillermo Arriaga, esprime le principali esigenze narrative che caratterizzano i libri e le sceneggiature dello scrittore messicano.

L'adolescente già alla nascita lotta per la vita: sopravvive al parto gemellare in cui muore il fratello. E poi si ritrova ad affrontare la scomparsa della famiglia nella società violenta di Città del Messico sul finire degli anni Sessanta con i mali endemici della corruzione e della droga. Juan Guillermo è animato da un duplice desiderio: la vendetta e la volontà d'amare. Arriaga sviluppa nel romanzo una storia parallela dallo spirito epico nel selvaggio Yukon, la regione nordoccidentale del Canada, con il cacciatore Amaruq che nel finale si intreccerà a quella di Juan Guillermo.

Noto in Italia anche per la sua produzione cinematografica, a partire dalla collaborazione col regista Alejandro González Iňárritu, con cui ha rotto il rapporto, per Amores perros, 21 grammi e Babel; Arriaga assicura che il libro non avrà trasposizione cinematografica o televisiva.


Arriaga, dagli anni Sessanta in Messico come ha osservato trasformarsi la vita nel contesto urbano?
«Città del Messico non contempla periferie, ma è come tante città all'interno di una stessa. Credo che dall'avvento del modello economico neoliberista siano cambiate radicalmente tutte le città. Ovunque svanisce la classe media e si acuisce la differenza tra ricchi e poveri, provocando maggiore violenza. Questa crescente disuguaglianza ha creato in America Latina un terreno fertile per lo sviluppo del crimine».

La riflessione centrale del libro è la distanza che separa la vendetta dalla giustizia. Lei come interpreta una questione dalle radici così antiche?
«Questa domanda va posta proprio in un paese in cui trionfa l'impunità. Da quando sono bambino, solo del 3% dei crimini commessi sono accertate e punite le responsabilità. Resta nella società una sensazione angosciosa, il pensiero di come risarcire il danno. L'unico cammino è la vendetta? Ciò è quello che cerca di scoprire il romanzo, se esistano strade alternative alla vendetta. In un individuo il passaggio psicologico da vittima ad autore della violenza è una delle questioni più difficili da accettare. Innanzitutto occorre farsi una ragione dell'essere una vittima, poi ci si chiede come si diffonde in noi la necessità della violenza ed è faticoso governare tale pulsione».

In quale modo ha collegato i personaggi di Juan Guillermo e del cacciatore Amaruq?
«Nell'idea originale del romanzo non c'era il cacciatore. La sua vicenda in qualche modo è cresciuta da sola. È difficile che scriva con un processo razionale, mi guida più l'istinto della logica. Lascio al lettore stabilire le relazioni».

Che cosa stiamo perdendo nella relazione con la natura e il mondo animale?
«Stiamo smarrendo la natura che ci abita, ciò che siamo davvero come esseri umani. Non possiamo dimenticare la componente animale che è dentro di noi. Caccio con l'arco e le frecce, se molti si soffermassero a osservare da vicino la natura capirebbero cose importanti sul sesso, sul potere e sulle gerarchie. Per esempio prima di immaginare l'eliminazione delle frontiere dobbiamo comprendere l'atteggiamento degli animali, che sono estremamente gelosi del proprio territorio».

Lei tocca anche la questione del fondamentalismo religioso, che colpisce Juan Guillermo. Che cosa spinge alla radicalizzazione?
«Nel libro un fondamentalista è il figlio di una madre dall'esistenza assai complessa e confusa. Ciò lo spinge a dubitare fin dal rapporto primigenio. Molte persone, che non hanno un punto fermo a cui aggrapparsi, usano la religione o la politica per trovare un senso. E poi ci sono assassini che cercano solo una giustificazione ideologica per poter uccidere».

Hanno definito le sue pellicole di grande successo trilogia della morte, in realtà in quei film come in questo romanzo l'amore è una ricerca costante. 
«Il Selvaggio è fondamentalmente una storia d'amore. La forza della vita che vince sempre sulla morte. Parla della speranza residua nel legame con l'altro. Sì, tutti i miei film e libri riguardano l'amore in molte sue espressioni e forme».

La corruzione e il crimine sono elementi costanti nel romanzo. Proviamo a spiegare almeno una delle ragioni che ha gettato il Messico nell'abisso con numeri delle vittime che ormai fanno impallidire quelli delle dittature latinoamericane?
«La violenza si concentra soprattutto in alcune zone del paese, ciò ovviamente non ne diminuisce la gravità. È un orrore che colpisce tutti. Ci sono soprattutto ragioni economiche. Nel 1994 il Trattato per il libero commercio ha cancellato l'agricoltura di sussistenza. Il mercato è stato inondato di prodotti agricoli nordamericani. È rimasta una massa di contadini senza più mezzi per sopravvivere. Avevano solo due opzioni: emigrare o legarsi ai narcos. Le piccole imprese sono state soppiantate dalle multinazionali».

Vede ormai un'assuefazione al terrorismo quotidiano?
«No, siamo terrorizzati e chiediamo un cambio radicale. Però non dimentichiamo anche le statistiche sulla violenza negli Stati Uniti, altrettanto preoccupanti. Abbiamo giornalisti investigativi coraggiosi e migliori».

A proposito di ottimi giornalisti, Diego Osorno afferma che la verità ufficiale in Messico è menzogna. Lei da scrittore come si muove fra verità e finzione?
«È vero quel che sosteneva Faulkner: lavoriamo con l'esperienza, l'osservazione e l'immaginazione. Sono fra quelli che attinge di più all'esperienza. E cerco di unire esperienze diverse con il salto dell'immaginazione. Il romanzo è basato su fatti reali che non sono mai accaduti».

Volgiamo lo sguardo al Duemila e a quel che è accaduto poi al cinema messicano.
«Credo che con Amores perros i registi messicani abbiano acquisito la fiducia nelle proprie potenzialità narrative. L'ultima nomination all'Oscar per un film messicano risaliva al 1962. Dopo quella pellicola ce ne sono state tre consecutive. In cento anni è stato il primo messicano a vincere un premio a Cannes, poi ne sono arrivati altri. Abbiamo raccontato le nostre storie, però al contempo noto che si sia banalizzato e annacquato con le commedie semplici. Questo genere non mi dispiace di per sé, perché permette di realizzare più pellicole. Mi preoccupa che stia divenendo l'unica tendenza».

Lei all'età di sedici anni in bus ha attraversato la frontiera destinazione Canada. Nel libro si ripete il viaggio. Che cosa c'è oltre il muro?
«Non dimentichiamo che gli Stati Uniti si sono appropriati senza alcuna giustificazione di oltre metà del territorio messicano. Se viaggia nelle città statunitensi, entro i duecento chilometri dalla frontiera, si parla principalmente spagnolo ed è radicata la cultura messicana. La divisione è fittizia. Gli esseri umani non così diversi come pensano».

sabato 5 maggio 2018

Wole Soyinka: «Vicende particolari il premio Nobel resta integro»

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 1-11

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

«Soyinka, con la sua scrittura versatile è stato capace di sintetizzare la ricchissima eredità culturale del suo paese, miti e tradizioni antiche, insieme al patrimonio letterario e alle tradizioni della cultura europea», si legge nella motivazione con cui l’Accademia svedese nel 1986 assegnò a Wole Soyinka il Premio Nobel per la letteratura, che all'epoca valeva 290mila dollari. È stato il primo, e finora unico africano, a esserne insignito.

Poeta, drammaturgo e romanziere, intellettuale, classe 1934, ha sempre unito alla potente immaginazione e creatività un’ineludibile dimensione politica. Ha pubblicato circa venti opere fra testi teatrali, poesie e i due romanzi (Gli interpreti e L’uomo è morto) ripubblicati in Italia da Jaca Book, che a fine maggio porterà in libreria un altro lavoro di Soyinka, L'uomo è morto? Liberarsi dal razzismo. La prima parte del testo letterario, storico e politico contiene proprio il discorso per il ricevimento del Premio Nobel dedicato a Nelson Mandela.

Soyinka, nato in un piccolo villaggio prossimo a Ibadan, nella parte occidentale della Nigeria, si è formato e ha sviluppato il proprio talento con un’esperienza fondamentale sul finire degli anni Cinquanta al Royal Court Art Theatre di Londra, per poi tornare in Nigeria. Per aver invocato la tregua nella guerra civile nigeriana, fu arrestato nel 1967, accusato di cospirazione con i ribelli del Biafra, e trattenuto in carcere per ventidue mesi, dove appuntava sulla carta igienica le proprie poesie di libertà.

Soyinka, crede che lo scandalo a sfondo sessuale possa intaccare a medio, lungo termine la reputazione dell'Accademia svedese e del Premio stesso?
«Non ritengo possa influenzare il valore intrinseco del Nobel, poiché non sono propriamente coinvolti né l'oggetto del premio, la scrittura, né il soggetto, lo scrittore, ai cui occhi penso manterrà la medesima reputazione. Continuerà a essere il principale riconoscimento mondiale per l'arte e per la letteratura».

Quale opinione si è fatto del Movimento internazionale MeeToo?
«Non conosco da fonti dirette l'intera dinamica di questo movimento. È necessario denunciare, però non dimenticare mai e accertare le responsabilità personali quanto le eventuali coperture, perché si corre il rischio della generalizzazione, dunque della banalizzazione».

Quanti passi in avanti occorre ancora fare?
«Il movimento femminista nelle sue diverse espressioni probabilmente è stato una se non la rivoluzione più riuscita nel Novecento. Ci sono state molte conquiste. È difficile descrivere o spiegare senza essere coinvolti in prima persona cosa voglia dire sentirsi violati o violate nel corpo, nello spirito. Vanno sconfitte l'idea e la cultura del possesso dell'altro».


Lei si trovava a Parigi per un incontro presso l'International Theater Institute, quando l'avvisarono che aveva vinto il premio. Ricorda che cosa pensò in quel momento?

«Non c'è stato un minuto in cui abbia considerato il riconoscimento come una proprietà personale. Era il simbolo di ciò che rappresentavo. Ero e sono parte dell'intera tradizione letteraria dell'Africa. Naturalmente però ne fui felice per il prestigio, nonché per il valore economico».

Il Nobel le ha creato qualche noia?
«Ho perso il più prezioso fra i doni, l'anonimato. Conquistarlo assomiglia ad aver trovato un nuovo lavoro, complica molto la vita».

L'ha convinta il premio assegnato a Bob Dylan?
«Qualora avessi scritto abbastanza canzoni, immaginerei di essere selezionato per i Grammy».

Nel 1986 Mandela era ancora recluso a causa della lotta e ha sempre riempito il suo immaginario. Quale impatto ebbe la vittoria?
«Mandela è stato come un fratello maggiore. Dopo la sua liberazione, nel nostro incontro era esattamente l’immagine che mi aveva accompagnato negli anni: un uomo dal coraggio quieto. La sua lotta per la libertà e per la dignità umana entrarono nelle mie poesie, dunque fu parte del premio e più in generale il Nobel, il simbolo della lotta condivisa contro l'apartheid».

Che cosa ha dato la politica alla sua arte?
«Senza l’impegno politico non sarei stato lo scrittore, drammaturgo che sono. La letteratura e il teatro mi hanno consentito di elevarmi dall’intollerabile nella società, rispondendo politicamente. Ciò mi ha tramesso la pace per potermi occupare di arte».