mercoledì 26 settembre 2018

Vaccari, da Marassi alle bombe: «Racconto l'amore di periferia».

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 28

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

Patrizia e Ferdinando non hanno mai varcato il confine del proprio quartiere. In trent'anni non hanno desiderato una vacanza. La rosticceria, in cui coltivano e tramandano la cultura culinaria genovese, è il luogo che li fa sentire vivi e che ambiscono a custodire.

Michele Vaccari, scrittore ed editor, classe 1980, nato e cresciuto a Marassi, un quartiere di Genova, col romanzo Un marito (Rizzoli, 233 pagine, 20 euro) entra con cura e solidità narrativa in queste due esistenze, decidendo di porle e di porci dinanzi alla sfida del cambiamento. La ricerca di Vaccari consiste nel dare voce agli autentici sentimenti di un uomo e di una donna dentro a una precisa collocazione spaziale, che li definisce.

«Volevo raccontare la normalità, che ormai sembra perduta – dice Vaccari –. L'obiettivo era restituire esattamente la sensazione del tempo di un amore cristallizzato, uguale ogni giorno. Nei due aleggia la gioia nel vivere la normalità».

La costruzione di un amore, che punta laicamente all'eternità, è legata allo spazio urbano. Marassi ha un peso quasi dittatoriale, affinché questo accada. Li fa sentire dentro a una bolla. L'idea che Vaccari riesce a raffigurare è che puoi nascere e morire in periferia senza la necessità di raggiungere il centro. È il limite spaziale e non solo emotivo che ancora demarca il nostro abitare la città.

Lo scrittore prova a rispondere alla domanda su che cosa sia Marassi e più in generale la periferia oggi: «È stato un ghetto felice – spiega –. È periferia più architettonica che sociale. Un quartiere dormitorio a sé stante in cui il proletariato diventava piccola borghesia rassicurato dalle certezze acquisite, che spegnevano ogni volontà di crescita socioculturale. Genova è stata costruita da est a ovest, Marassi sorge a nord, dista un chilometro dal centro ed è in piano con la luce che arriva sempre riflessa».

La questione interessante, che la lettura suscita, è come un luogo creato oltre sessant'anni fa con criteri non solo abitativi ma sociali ed economici molto precisi, possa tenere insieme le persone in un mondo totalmente stravolto e disgregato sia a livello di lavoro sia demografico. Patrizia e Ferdinando sembrano voler erigere un argine, prima di essere travolti.

«Genova è nata e si è sviluppata intorno a un'idea continua di cambiamento, che poi è venuta meno – sostiene Vaccari –. È diventata una città granitica, qualcosa che non poteva più evolversi, poiché considerata il meglio assoluto, una sorta di paradiso. Lavoravano quasi tutti e in fondo stavano bene. C'erano grandi progetti firmati da architetti famosi. Il Ponte Morandi prometteva il futuro. Poi l'idea di rivoluzione si è trasformata in conservazione e infine in ripiegamento su sé stessa». E ora? «Genova è una città arresa all'idea che sia condannata dallo sviluppo ipertrofico e sregolato che l'ha resa grande. Viviamo un'assuefazione all'emergenza, che diventa ordinaria, mentre bisognerebbe reinventare tutto».

Il genovese Fabrizio De Andrè si definiva un emigrante a Milano, quasi a voler marcare la profonda distanza tra le due città. Il fatto di andarci in vacanza per soli tre giorni è quasi una migrazione anche per Patrizia, che nutre molta paura e domanda: “Quando torneremo, saremo cambiati?”

«Per loro andare a Milano è una svolta epocale – aggiunge l'autore –. Milano vuol dire non guardare più con gli stessi occhi la propria normalità. Milano è una città che ti costringe a essere parte di una società fluida, che vive su Internet: non si appartiene più a un luogo ma a una proiezione del mondo. È questa la cosa che li spaventa. La tragedia per loro è rendersi conto di essere parte di un mondo dal quale oggi è fortissima la spinta a ritrarsi e proteggersi».

A Milano la coppia genovese è costretta a misurarsi con una delle paure del nostro tempo, il terrorismo che ha guadagnato spazi di potere con la paura che distilla e gestisce. Il viaggio è segnato da una bomba che deflagra in Piazza Duomo. Nel romanzo nessuno si chiede chi abbia piazzato l'ordigno. I due illuminano il dolore intimo che ha segnato la storia della Repubblica e cercano di colmare il vuoto che lascia un'esplosione.

lunedì 24 settembre 2018

«Io, artigiano delle storie». L'intervista ad Arturo Pérez-Reverte

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 27

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro
«Non sono un artista, ma un artigiano delle storie. Quello che so e di cui scrivo, l'ho appreso rimboccandomi le maniche della camicia con lo zaino sulle spalle. Sul campo ho visto ciò che è l'essere umano, a volte qualcosa di straordinario, altre un essere pericolosissimo», dice Arturo Pérez-Reverte, scrittore spagnolo e per venti anni corrispondente di guerra.

Reverte continua a muoversi sulla materia narrativa che domina e che gli interessa: il racconto degli esseri umani in momenti di estrema lacerazione come i conflitti bellici. Il lavoro di documentazione del secondo episodio, dopo Il codice dello scorpione, della trilogia che ha come sfondo gli anni della Guerra civile spagnola è durato un biennio.

L'ultima carta è la morte (Rizzoli, 377 pagine, 20 euro, traduzione di Bruno Arpaia) è un noir avvincente, in cui ritroviamo Lorenzo Falcó, avventuriero, ex trafficante d’armi, divenuto spia franchista disincantata all'alba della Guerra civile spagnola. Nel marzo del 1937 Falcó giunge in missione a Tangeri per recuperare, prima che cada in mano ai russi, su un mercantile repubblicano un carico d'oro del Banco de España. Il titolo originale dell'opera è Eva, un'agente sovietica che immagina di lottare per un mondo migliore, ed è l'esatto contraltare di Falcó.


Pérez-Reverte, che cosa l'affascina ancora degli anni Trenta?
«Sono stati l'ultima grande occasione persa, uno spartiacque della storia. All'epoca era ancora possibile gettare le fondamenta di un'Europa diversa da quella travolta dai totalitarismi. Le persone lottarono e morirono per degli ideali. I conflitti sociali continuano a essere gli stessi, ma non abbiamo delle parole in cui confidare per il futuro. Sappiamo qual è stato l'esito tragico delle ideologie nel Novecento, ma c'era un'innocenza di fondo ora svanita. Le persone credevano realmente che il comunismo, il socialismo, il fascismo o l'anarchia potessero essere soluzioni politiche e non Auschwitz o i gulag. Oggi mancano le idee e il coraggio».

Che cos'è oggi l'Europa?
«Sono nato nel 1951 in una casa fornita di una grande biblioteca e mi hanno educato alla conoscenza. Per questa ragione Franco non ha mai calpestato la mia vita, perché ero già europeo e mediterraneo. Durante l'infanzia l'Italia, il Portogallo e Parigi erano casa mia. I miei avi erano etruschi, troiani e greci. Ho considerato sempre l'Europa quel luogo meraviglioso che ha illuminato il mondo con le idee, ma quell'Europa lì oggi sembra condannata a morte. Non temo una nuova guerra, ma l'ignoranza che dilaga, a cominciare da chi esercita responsabilità politiche. Senza Omero, Virgilio, Dante, Cervantes, Montesquieu, Voltaire, Montaigne siamo condannati al declino, perché sono loro l'Europa e li stiamo spazzando via dal nostro dna».

In questa trilogia ha cambiato il classico eroe revertiano. Falcó è diverso.
«Nei miei romanzi c'è quello che definisco l'eroe stanco. È una figura molto ricorrente da Lucas Corso ad Alatriste. In questa occasione intendevo privare l'eroe di qualunque qualità morale, però è bello e capace di gesti eroici, e misurarmi con la sfida tecnica della sua rappresentazione. Di solito i miei eroi hanno avuto una fede, che la vita ha strappato loro. Per Falcó conta l'avventura e lui dà la misura della nostra solitudine in territorio ostile».

Perché ha dato molta rilevanza a Eva?
«Questo romanzo risponde alla necessità di esplorare la donna quale eroe narrativo originale del nostro tempo. Da Omero a oggi abbiamo esaurito ogni possibile combinazione narrativa dell'eroe maschile. Nel ventunesimo secolo si profila un nuovo eroe: la donna che non è più Anna Karenina o Madame Bovary. È un processo creativo con prospettive inattese. Eva è una figura animata da una grande fede nella propria ideologia, che s'inquadra in una stagione di passioni politiche forti».

Lei narra un idealtipo di spie che sembra non esistere più.
«Questione pertinente, perché volevo proprio scrivere un romanzo sullo spionaggio. Oggi tutto si riduce alla tecnologia: droni, satelliti, telefoni. Il fattore umano è ormai secondario. Negli anni Trenta era molto più rilevante ed era ciò che faceva la differenza nella missione. Nei miei romanzi non mi sono ispirato alle spie di Ian Fleming, ma avvicinato a quelle di Eric Ambler, Somerset Maugham o ai primi romanzi di Graham Greene. Le spie in bianco e nero sono molto più gratificanti».

Anche lei si è innamorato della cosmopolita Tangeri, da sempre meta di letterati e artisti?
«L'ho percorsa palmo a palmo, posando lo sguardo dei miei personaggi. È stato il momento più bello, perché odio scrivere, è una fatica infame. La parte bella consiste nel preparare il romanzo, immaginarlo, creare i personaggi e pensare alle strutture che dovrà avere. Tangeri era lo scenario ideale».

Dove ambienterà l'ultimo volume della trilogia, che uscirà a breve in Spagna?
«A Falcó affidano la missione di andare a Parigi, perché c'è un pittore repubblicano di nome Picasso, che sta dipingendo un quadro, Guernica, e il governo franchista non vuole che la tela veda la luce. Chiedono a Falcó di infiltrarsi a Parigi nel mondo di Picasso e di distruggere il quadro. La domanda è: Guernica che conosciamo, è davvero quella che aveva dipinto Picasso? Il titolo del romanzo è Sabotaggio».

In che modo viene maneggiata la storia della guerra Civile, a lungo poco trattata dagli scrittori spagnoli?
«Era una storia chiusa. Era il ricordo dei nonni. La transizione e il processo politico post franchista avevano messo la parola fine. Poi è arrivata al potere una nuova generazione di politici, funzionari privi di una cultura solida, che erano nelle retrovie dei partiti. In assenza di idee forti, hanno dissotterrato senza una riflessione profonda la guerra civile con la divisione plastica tra buoni e cattivi. Non hanno analizzato nulla, etichettando tutto. La guerra è una tremenda ed eccellente scuola per comprendere la natura dell'essere umano. Sul campo di battaglia viene meno la nitidezza dei pregiudizi e delle certezze. In Spagna la causa era chiara: di fronte alla sollevazione fascista la Repubblica rappresentò la ragione e la legalità. Nonostante si sappia dove fosse la ragione, non si può abdicare alla complessità con un racconto repubblicano manicheo. La storia della Guerra civile non è quella di quattro militari e cinque vescovi contro il popolo».

È d'accordo con la proposta del governo spagnolo di spostare la tomba del Caudillo dalla Valle dei Caduti, dove giacciono 33.000 morti della guerra civile nel triennio 1936-1939? 
«Non mi interessa che i resti di Franco siano riesumati o che sia sepolto in un altro luogo. Franco ha smesso di essere un mio problema quarant'anni fa. Non sono un politico e non ho bisogno del suo fantasma. Gran parte degli spagnoli è indifferente alla disputa tra i partiti: a destra spingono per allontanarsi dall'eredità franchista, a sinistra non fanno altro che ricordarglielo».


lunedì 10 settembre 2018

«Oggi i nuovi muri sono dentro di noi». Intervista a Tim Marshall

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 19

di Gabriele Santoro


Lettura dell'intervista a Pagina 3 Rai Radio3


di Gabriele Santoro

Dal Duemila a oggi nel mondo sono stati eretti per ragioni trasversali, dalla regolazione dell'immigrazione a questioni di sicurezza, trenta muri in zone frontaliere. Nei cinquant'anni precedenti se ne contavano dodici, cominciando da quello tra Algeria e Marocco, che risale al 1954.

Tim Marshall, per trent'anni corrispondente della BBC e Sky News, ospite del Festivaletteratura, dopo il successo della pubblicazione Le 10 mappe che spiegano il mondo (Garzanti, 2017), nel saggio I muri che dividono il mondo (Garzanti, 270 pagine, 19 euro, traduzione di Roberto Merlini), che assomiglia a un reportage, percorre non solo figurativamente i cinque continenti sulle tracce dei seimila chilometri di barriere innalzati negli ultimi dieci anni.

Solo alla fine della Guerra Fredda sono comparsi sulla terra ventottomila chilometri di frontiere e il 10% delle attuali è successivo al 1990. Oggi esistono 323 frontiere terrestri su circa 250mila chilometri. Il Continente europeo, che è culturalmente un insieme fluido dai confini incerti, conta circa cento frontiere per una lunghezza di 37mila chilometri. Marshall ha cercato di rispondere alla questione fondamentale: perché nell'epoca definita di massima interdipendenza e apertura all'interscambio commerciale, di conoscenze e dati, è scattata la rincorsa in realtà antica a proteggersi?

Marshall, lei che ha raccontato società lacerate per ragioni etniche, economiche e religiose, ha mai coltivato l'illusione di un mondo senza frontiere?
«Dopo la Caduta del Muro di Berlino, per un periodo breve, le cose sono parse cambiare. Nel Secondo Dopoguerra mondiale, quando è stato concepito l'esperimento unico dell'unità europea, una generazione ha cullato l'idea rivoluzionaria secondo cui i confini delle nazioni non avevano più grande senso. Il mio libro argomenta come quella fase sia conclusa con il consolidamento delle frontiere, che diventano sempre più importanti e dense di significati. Le popolazioni tornano a pensare a sé stesse all'interno di uno Stato ben definito. Si è esaurito un capitolo della storia, che ci lascia entità sovranazionali di cui dobbiamo decidere i destini».

In che cosa consiste l'ideologia del muro? Lei la rappresenta con un paradosso.
«Oggi non si tracciano nuove frontiere, ma non abbiamo mai demarcato e sorvegliato così i confini. Il muro che Trump vorrebbe estendere tra Stati Uniti e Messico, per il quale non trova gli stanziamenti, non necessita di diventare concreto, infatti non sta procedendo. Il muro è l'idea. Non serve che ne esista uno reale, il presidente degli Stati Uniti ha già ottenuto ciò che si era prefissato, alimentando per questioni demografiche, economiche e sociali una barriera psicologica efficace tra “noi e loro”. È una delle ragioni per cui è riuscito a farsi eleggere».

Il suo viaggio parte dalla Cina. La Grande Muraglia, che si sviluppa per ventiduemila chilometri, quale spazio potente occupa ancora nel nostro immaginario?
«Per motivi storici e architettonici è il più grande e antico simbolo di ciò che narro. Alle spalle della muraglia c'è un fattore psicologico, il suo ruolo fisico e simbolico di unificazione e sicurezza del paese con l'idea che da una parte, abitata dagli Han, ci fosse la civiltà e dall'altra la barbarie, la steppa, il nomadismo. I cinesi hanno sviluppato la rappresentazione plastica del “noi e loro”, attualmente così diffusa».

A proposito di Cina e Africa, sempre più vicine, la frontiera più delicata è forse quella che segna il trasferimento dalla campagna alla città.
«È la sfida principale. L'obiettivo per il gigante cinese è di continuare a creare e mantenere i posti di lavoro per le tantissime persone che si trasferiscono dalle campagne alle città e continueranno a farlo. Oggi in Africa è difficile immaginare tassi di crescita occupazionali che assecondino quelli demografici, dunque la pressione migratoria sarà ancora a lungo forte. Senza investimenti pesanti sulle infrastrutture, sui servizi urbani e sulla sanità la crescita esponenziale dell'urbanizzazione potrebbe tradursi in un crack».

Ritiene che alcuni effetti della globalizzazione economica abbiano prodotto tale rincorsa alla saldatura delle frontiere?

«All'alba del ventunesimo secolo molti studiosi professavano la certezza che la globalizzazione ci avrebbe inevitabilmente avvicinati. È stato così, ma ci ha anche spinto a costruire nuove barriere. Di fronte a minacce percepite come incombenti, dalla crisi finanziaria all'immigrazione, le persone si attaccano maggiormente ai rispettivi gruppi di riferimento e alla costruzione di un'identità. L'effetto più lesivo della globalizzazione concerne l'attuale mondo del lavoro, che stravolge la vita».

La nozione di frontiera culturale è molto discutibile. Lei ci crede?
«Le frontiere culturali raramente coincidono con quelle internazionali. È difficile tracciare linee di separazione tra aree culturali. La società di per sé non è omogenea e crea delle tensioni: siamo condannati a stare insieme e a gestirle. Ascoltarsi è il lavoro più sacro che esista».

Parlando di divisioni, che cosa sta provocando la Brexit?«È stata la decisione più difficile che abbiamo preso dalla Seconda Guerra Mondiale e ci ha lasciati fortemente divisi, andando in modo trasversale oltre all'appartenenza partitica. Lo ritengo un forte azzardo che forse non valeva la pena correre. Ora però nella trattativa con Bruxelles non credo sia utile esagerare con un senso di rivalsa, che danneggia tutti e acuisce le distanze».

domenica 2 settembre 2018

Ben Jelloun: «L'odio è cresciuto da quando lo spiegai a mia figlia»

Il Messaggero, sezione Macro, pag. 19

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

Vent’anni fa Françoise Perrot, una delle direttrici delle Éditions du Seuil, propose a Tahar Ben Jelloun, poeta, romanziere e giornalista marocchino che da scrittore ha scelto la lingua francese, di spiegare il razzismo alla figlia Mérième con una conversazione pubblica da divulgare. Lo chiameremo Il razzismo spiegato a mia figlia, gli disse Perrot, e nacque un libro manifesto, che come un classico non è scalfito dal tempo e torna in libreria con la Nave di Teseo in un’edizione aggiornata e ampliata.

Ben Jelloun, perché scrive che il razzismo gode di buona salute?
«Il razzismo è stato banalizzato e sdoganato. Chi odia gli altri non si nasconde più e lo mostra pubblicamente sui social network come allo stadio. Il razzista non ha più paura, nonostante esistano leggi contro l’incitamento all’odio razziale. C’è stata una liberazione della parola razzista anche nel discorso politico internazionale».

Che cosa lega terrorismo e razzismo?
«L’odio, la paura e l’ignoranza. Un terrorista è forzatamente razzista e porta all'estrema conseguenza la logica dell’odio, dando la morte».

In Francia e non solo c'è un pericoloso ritorno dell’antisemitismo.
«L’antisemitismo è sempre esistito, cambiano solo gli interpreti. È evidente che gli attentati in Francia degli ultimi anni avevano gli ebrei come bersaglio. Sono avvenuti episodi terribili come l’assassinio di bambini ebrei davanti alla propria scuola, la defenestrazione di Sarah Halimi o la morte della signora ottantacinquenne Knoll. Molti ebrei hanno paura, ed è grave, e alcuni hanno raggiunto Israele. La questione israelo-palestinese resta il focolaio d’odio decisivo da disinnescare». 

Nella crescente islamofobia c'è la stessa radice razzista?
«L’islamofobia si è estesa contemporaneamente nella società. Il vero attacco dei ministri della paura è alla democrazia, per disarticolare il sistema che abbiamo scelto. L’odio e la paura sono ingredienti molto efficaci per manipolare le persone: con l’Islam funziona molto bene. Ormai nell’ignoranza, mediocrità e menzogna del discorso pubblico sembra impossibile scindere la religione dalla violenza degli jihadisti assassini con l’equivalenza tra terrorismo e islam».

Che cos’era l’immigrazione nel 1971, quando arrivò a Parigi da esule per completare gli studi alla Sorbona?
«Nel 1971 non se ne parlava assolutamente. Gli immigrati erano uomini parcheggiati in città di transito provvisorio, una provvisorietà che è durata decenni. Con lo shock petrolifero del 1973 si è cominciato a parlare degli immigrati arabi. C’era razzismo, ma discreto. Le cose sono cambiate definitivamente nel 1975 con la legalizzazione del ricongiungimento familiare decisa da Giscard D’Estaing». 

L’incapacità dell’Europa nel trovare una politica comune sull’immigrazione rischia davvero di produrre una disgregazione?
«La gestione del fenomeno migratorio rischia davvero di disgregare l’Unione Europea, che ha molti nemici pronti ad approfittare delle sue divisioni, a cominciare da Trump. La rotta del mare si deve chiudere, fermando guerre geopolitiche ed economiche in Africa. Paesi ricchi di risorse come la Nigeria, l’Algeria o il Gabon, sostenuti da una cooperazione internazionale responsabile, devono garantire il futuro dei propri cittadini in difficoltà. Bisogna andare alla fonte del problema».

L’idea del cosmopolitismo sembra indebolita. Lei ci crede?
«Il cosmopolitismo è tra noi; tempo fa ero in un liceo parigino; la classe era formata da tredici diverse nazionalità d’origine. La popolazione europea è sempre più composita. Non è importante quanto ci creda, la società difficilmente tornerà indietro».

A fine mese arriverà in libreria La punizione. Lei racconta l'esperienza del 1965, quando la rinchiusero in un campo di rieducazione dell'esercito marocchino per aver invocato in piazza più democrazia. Ora i giovani sono più liberi?
«Il Marocco è cambiato molto. Dopo l'arrivo di Mohamed VI il paese si è modernizzato e ha conosciuto un processo democratico. Esistono problemi legati alla scuola, alla sanità e alla povertà; ma rispetto all’epoca in cui manifestavo per la democrazia ci sono stati progressi enormi. Oggi il nemico è la corruzione; è un flagello che spinge il paese alla regressione. È difficile frenare la corruzione, che costringe a emigrare».

 «Il mondo arabo non sarà più lo stesso», scriveva nei mesi delle rivolte chiamate “Primavera araba”. Quella tunisina appare l’unica “primavera” sopravvissuta.
«Le conseguenze di quella stagione sono state disastrose soprattutto in Siria. Ma la storia potrebbe non essere chiusa. Sì, solo la Tunisia sembra sulla buona strada, malgrado le minacce dei salafiti. Nel 1844 la Tunisia abolì lo schiavismo. È l’unico paese nel mondo arabo musulmano ad avere una costituzione rivoluzionaria: essa riconosce l’eguaglianza tra uomo e donna; riconosce la libertà di coscienza ed espressione».

Però molti tunisini desiderano partire e partono destinazione Europa.
«Oggi il problema principale è l’economia. Servono investimenti per la ripresa, l’Europa deve fare la propria parte. È un’ipocrisia volere che la Tunisia riesca a essere un esempio nel mondo arabo musulmano senza fare nulla per sostenerla».