lunedì 15 ottobre 2018

Bussole. L'atlante delle frontiere


Lettura dell'intervista a Pagina 3 Rai Radio3


https://www.raiplayradio.it/audio/2018/10/PAGINA-3-68228d97-7821-4a68-ad02-ce6ef71d3fc2.html?fbclid=IwAR2NaY3i_ttiH4v5GmI9S77GfBwOgFr3JJNVt0K5-CShs1MJn3I3tWv2pQ0

di Gabriele Santoro

L’Atlante delle frontiere (Add editore, 140 pagine, 25 euro, traduzione di Marco Aime), scritto e disegnato da Bruno Tertrais e Delphine Papin, è una bussola che orienta e illumina la complessità del nostro tempo, in cui assistiamo a un rafforzamento non solo tecnologico delle frontiere senza precedenti nella storia.


In apertura della propria analisi geopolitica Tertrais, diplomatico francese direttore della Fondazione per la ricerca strategica, fissa una nozione spesso confusa: tutte le frontiere sono artificiali, poiché sono definite dagli uomini. Per esempio Cina e Russia hanno impiegato quarant’anni a dividersi 2444 isole fluviali. Lo sviluppo delle frontiere è legato alla nascita del mondo moderno e comincia nel XVII secolo. Dalla metà del XIX secolo al 1914 il mondo è stato diviso parallelamente alla costruzione degli stati. Solo alla fine della Guerra Fredda sono comparsi sulla terra ventottomila chilometri di frontiere e il 10% delle attuali è successivo al 1990.

Oggi esistono 323 frontiere terrestri su circa 250mila chilometri. Il Continente europeo, che è culturalmente un insieme fluido dai confini incerti, conta circa cento frontiere per una lunghezza di 37mila chilometri. L’Atlante è davvero ricco di informazioni e mappe intellegibili con molte curiosità: la frontiera più antica risale al 1278 tra Andorra, Francia e Spagna. La più lunga, 8991 chilometri, delimita Canada e Stati Uniti. La più attraversata è quella tra Messico e Stati Uniti con 200mila persone al giorno.

 Tertrais, che cos’è una frontiera internazionale moderna?
«È una linea che delimita lo spazio di sovranità di uno Stato».

Qual è la situazione dopo il boom delle frontiere sorte nel 1990?
«Oggi non si tracciano quasi più frontiere terrestri. Innanzitutto perché non ci sono più “zone bianche” sugli atlanti, se si eccettua il continente antartico conteso. Più passa il tempo, più le frontiere esistenti vengono accettate. Siamo in una chiara fase di consolidamento delle frontiere».

E quando nasce un nuovo Stato?«Sistematicamente si riprendono dei tracciati esistenti di province, regioni e stati federali. Non siamo più al tempo in cui vecchi diplomatici con barbe bianche si appoggiavano sulla carta con una matita e dicevano: la frontiera va tracciata qui. La grande stabilità delle frontiere terrestri è qualcosa di poco conosciuto».


Ci sono delle eccezioni e non mancano le contese dall’ex Jugoslavia all’Ucraina.
«Potremmo assistere alla creazione di una frontiera, con la conseguente apertura di un vaso di pandora, in caso di uno scambio significativo di territori tra Serbia e Kosovo, su cui si registra la freddezza della comunità internazionale. Nel 2014 il tracciare con la forza da parte della Russia in Crimea una frontiera è stato un avvenimento molto significativo. Ma è impossibile per l’Europa e gli Stati Uniti riconoscere e accettare la secessione della Repubblica di Doneck, sarebbe un effetto domino».

Quando prevale il principio di intangibilità delle frontiere?
«È più facile accettare lo status quo, pur ingiusto e imperfetto, che ridisegnare da capo una frontiera. Un principio che è già antico, perché semplifica la vita internazionale. È stato adottato per esempio nella Carta dell’Unione Africana, perché era più conveniente mantenere le frontiere coloniali non del tutto soddisfacenti in luogo di sprofondare in uno stravolgimento».

È ormai sparita l’illusione di un mondo senza confini.
«Questa idea aveva in sé stessa il germe della propria fine. Il mondo senza frontiere a molti fa paura, mentre per altri è un ideale. Non è sorprendente che esista un desiderio e una rivalorizzazione della frontiera. Lo sviluppo delle frontiere è legato alla nascita dello Stato moderno, ma non sono mai state precise come oggi. Non abbiamo mai demarcato e sorvegliato così i confini».

Anche il mare è destinato a essere sempre più delimitato?
«Al contrario di quelle terrestri, le frontiere marittime sono ancora poco contrassegnate: solo 160 su 450 potenziali. Il mare costituisce il nuovo orizzonte della frontiera. Siamo entrati in una fase di messa in opera della Convenzione Onu sul diritto del mare, che incita gli Stati a delimitarlo. È un cantiere ancora aperto in cui convergeranno o confliggeranno interessi per le risorse naturali e ragioni di principio nazionaliste».

E l’Artico?
«Ha acquisito un’importanza nuova, perché è divenuto economicamente più semplice sfruttare le sue risorse: la pesca, il petrolio e il gas. E poi a causa del riscaldamento climatico c’è l’utilizzazione di rotte commerciali del Mare del Nord col passaggio a nordovest più semplice. Oggi c’è la volontà di un paese in particolare, la Russia, di affermare la propria sovranità su molti spazi della regione artica. Si pone una questione di sovranità destinata a divenire sempre più rilevante».

Che cosa rappresentano le frontiere esterne, quando si verifica l’implosione e frammentazione di entità statuali come la Libia?
«Mi colpisce nei paesi falliti, come nel caso citato della Libia o della Somalia, la persistenza delle frontiere esterne. Si resta attaccati alla frontiera esistente. Nel caso della Libia può darsi che un giorno avvenga una separazione tra la Tripolitania e la Cirenaica, ma ciò che ancora stupisce è la resilienza della frontiera. Occorre ricordare che in Medio Oriente spesso si parla di frontiere artificiali, ma spesso a rimetterle in discussione non sono i cittadini ma una piccola parte dell’élite».


Quale futuro immagina per Schengen, spazio di circolazione unico al mondo?
«L’accordo originale di Schengen è stato concepito per facilitare il movimento dei lavoratori transfrontalieri. Era un progetto molto interessante, nato non come un elemento fondamentale dell’integrazione europea e poi percepito dagli europei come una conquista. Una piena cooperazione tra forze di polizia e dogane sarebbe più efficace e meno costosa della sorveglianza statica di posti fissi sulla frontiera».

Vede uno spazio in Europa per gli aneliti indipendentisti che ridisegnerebbero i confini?
«Negli ultimi venticinque anni è cambiato ben poco, a dispetto delle previsioni secondo cui con l’Unione Europea sarebbe stato più semplice separarsi dallo Stato centrale. Nessun desiderio indipendentista si è concretizzato. E non credo sia uno scenario probabile a venire».

 Perché definisce la demarcazione intercoreana l’ultimo vero Muro di Berlino esistente?
«Il Muro di Berlino era stato ideato per impedire alle persone di uscire. Oggi i muri e le barriere che sorgono in Europa sono per evitare l’ingresso. La frontiera intercoreana ha la medesima funzione politica e istituzionale: esiste per impedire alle persone di andarsene. Non credo che l’incontro tra Trump e Kim Jong-un altererà in maniera fondamentale la situazione frontaliera nella penisola coreana. È possibile che il dialogo separato, che esiste tra Nord e Sud, conduca a visite più frequenti, ma questo regime ha bisogno intrinsecamente della chiusura: sopravvive così».

martedì 9 ottobre 2018

Storia di una donna libera a Srebrenica



Lettura dell'intervista a Pagina 3 Rai Radio3


SREBRENICA. A ventitré anni dalla fine di una delle guerre jugoslave più efferate, nella terra di confine tra Serbia e Bosnia ed Erzegovina, disegnata dal fiume Drina, la città di Srebrenica è piena di barriere invisibili.

In quello che a Potočari, frazione alle porte di Srebrenica, era il quartiere generale delle Nazioni Unite, ora un cartello recita: «Il fallimento della comunità internazionale». L’ONU aveva dichiarato Srebrenica “zona sicura” e nel biennio 1994-’95 la presidiò con un contingente di Caschi blu olandesi, rivelatosi tragicamente non all’altezza e inerte nella missione di interposizione e di protezione dei civili.

Sulla collina di Potočari, nel Memoriale aperto quindici anni fa, giacciono i resti della quasi totalità delle 6539 vittime finora accertate grazie al DNA con un grado di affidabilità pari al 99.95%.

Tra il 10 e il 19 luglio del 1995, dopo tre anni di assedio di Srebrenica, le milizie guidate da Ratko Mladić, comandante militare serbo-bosniaco dell’allora esercito noto come Vojska Republike Srpske, condannato con Radovan Karadžić e altre dodici persone all’ergastolo dal Tribunale Penale Internazionale dell’Aja per l’ex Jugoslavia, perpetrarono il genocidio più grande in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale ai danni della popolazione maschile locale e dei profughi bosgnacchi. In pochi giorni furono uccise oltre ottomila persone.


Le ferite non sono suturate. Senza immaginare un futuro condiviso tra la parte serba bosniaca e quella bosgnacca, la memoria diventa oggetto di campagna elettorale ed è un elemento della gestione del consenso. L’ingovernabilità di un concetto di cittadinanza prevalentemente etnico resta la ragione fondamentale delle tensioni mai sopite. E compromette la ripresa economica.

In una realtà così complessa, c’è chi ha il coraggio di erigere ponti di dialogo. Valentina Gagić Lazić, serba bosniaca, arrivata a Srebrenica nel settembre del 1995 con il marito, anch’egli un profugo serbo, è fra i creatori della comunità interetnica Adopt Srebrenica, inaugurata nel 2005 col sostegno della Fondazione Alex Langer, che è un laboratorio di socialità e convivenza.

«Nell’aprile del 1992 avevo diciannove anni – racconta Gagić –. Dopo il referendum, la dichiarazione d’indipendenza della Bosnia ed Erzegovina e l’inizio delle ostilità belliche, trascorsi sei mesi in Slovacchia. Poi decisi di tornare a casa, illudendomi che la guerra sarebbe durata poco. Il matrimonio, la gravidanza e la nascita di mio figlio Nikola mi hanno in parte preservato dalla follia del conflitto».

Gagić ha riconosciuto e preso piena coscienza del genocidio, quando i profughi musulmani hanno cominciato a tornare. Dal 1999 lavora insieme alle donne di Srebrenica, che hanno visto svanire padri, mariti e figli. «Ho dovuto affrontare un percorso doloroso – dice –. Ci sono state incomprensioni anche con i miei familiari. Le persone mi fermavano per strada, chiedendomi la ragione della mia scelta. Per alcuni serbi bosniaci ero una traditrice, per i bosgnacchi rappresentavo una potenziale spia. Il negazionismo in atto è l’ultimo e più insidioso stadio del genocidio».

Gagić, qual era la sua posizione nei giorni della guerra?
«Ho studiato a Sarajevo in un ambiente multiculturale. Per l’intera durata del conflitto sono rimasta in contatto con gli amici più cari di etnie diverse. Abbiamo cercato di sostenerci a vicenda. Nel 1992 avevo diciotto anni, tutta la vita davanti. Ingenuamente pensavo che avremmo potuto fermare la guerra, scendendo in piazza con l’illusione di poter modificare il corso degli eventi. Scrivevo appelli ai miei connazionali, dicendo che era una follia dividere la Bosnia. E chi ancora lo immagina, sa che può finire solo nel sangue».

Lei è nata a Šekovići, che dista settanta chilometri da Srebrenica, dove si è trasferita poche settimane dopo il genocidio. Quando le è stata chiara la misura del massacro?
«Dal 2000 quando i profughi bosgnacchi hanno cominciato a rientrare nelle proprie case. Prima sui media serbi non c’era traccia di ciò che è avvenuto. I profughi raccontavano in modo molto chiaro la portata enorme dell’orrore. Soltanto affrontando le loro memorie ho iniziato a percepire la realtà».

Come si guarisce dal negazionismo?
«Ascoltare le storie dei profughi e delle donne di Srebrenica è stato uno schiaffo. Ognuno deve fare i conti con i crimini perpetrati dal proprio gruppo etnico. Non accetto l’affermazione che tutti i serbi negano il genocidio. Io so il dolore che è stato inferto e non è stato fatto nel mio nome».

A Srebrenica la vita appare ancora lontana dalla piena ripresa. L’intera area è abitata da non più di seimila persone. Nel 1992 erano circa quarantamila.
«Talvolta m’interrogo sulla ragione della mia scelta di rimanere a Srebrenica. È stata dettata probabilmente dal destino. Quanto possono essere felici i nostri figli in quest’ambiente politico e sociale? A oltre vent’anni dalla fine della guerra la situazione sta peggiorando. Il miglioramento della condizione economica consentirebbe alle persone di essere più libere e superare il confine etnico imposto dalla politica di stampo nazionalista. I settori vitali dell’economia locale, dal turismo termale all’industria estrattiva delle materie prime, sono bloccati da veti politici contrapposti. Prima della guerra avevamo fabbriche importanti. È stato distrutto tutto. La privatizzazione delle miniere di piombo e zinco ha una scarsa rendita e nessun rilievo occupazionale. La città rischia l’oblio».

Qual è la situazione dei giovani che hanno scelto di non abbandonare la propria terra?
«La disoccupazione giovanile tocca il 60%. . A Srebrenica esiste e resiste una generazione coraggiosa di ventenni, condizionata però da una guerra che non gli è mai appartenuta».

La comunità internazionale ha dimenticato di nuovo Srebrenica?
«La questione è duplice. In questo periodo l’interesse della comunità internazionale per la Bosnia ed Erzegovina è veramente limitato. È normale supporre che ventidue anni dopo la fine della guerra si fossero gettate le basi per il futuro. Così non è stato. L’allentamento della pressione internazionale sulla politica ha un riflesso sul venire meno del processo di riconciliazione. Il negazionismo è l’ultimo atto di un genocidio. D’altra parte però siamo troppo abituati ad aspettare che qualcuno risolva i problemi al nostro posto».

Nutriva qualche attesa sulle elezioni politiche appena svolte?
«Il sistema politico è frammentato lungo la linea etnica. La stessa legge elettorale e la costituzione alimentano la suddivisione della Federazione Bosniaca. Non mi aspettavo molto, perché il quadro è cristallizzato e non esiste un’alternativa reale al sistema di per sé farraginoso: eleggiamo tre presidenti (croato, bosniaco e serbo) che ruotano ogni 8 mesi. Prima del voto si sono messe in moto le consuete macchine elettorali. La vittoria del croato Željko Komšić, osteggiato dal suo stesso partito di estrazione, è interessante poiché supera lo steccato etnico, sostenendo l’inseparabilità della Bosnia ed Erzegovina».

Che cos’è la democrazia in Bosnia ed Erzegovina? 
«La forma di democrazia uscita dalla guerra è immatura e troppo segnata dall’etnonazionalismo. Sono pochi i giovani che vanno a votare e ci credono. Le persone non conoscono e non usano gli strumenti propri di un sistema democratico, richiamando la politica ai propri doveri nell’interesse generale del paese».

Qual è la lezione di Srebrenica?   
«Le persone qui possono stare insieme, nonostante quello che è accaduto. Il riconoscimento reciproco è la premessa imprescindibile. Al mondo Srebrenica dice che siamo tutti davanti a una scelta binaria. Percorrere la strada tortuosa del dialogo o cedere alla barbarie della divisione su base etnica, che ha l’esito del 1995».