martedì 27 novembre 2018

Sulle spalle dei giganti: Kareem Abdul-Jabbar


di Gabriele Santoro

Nel 1971 Ferdinand Lewis Alcindor Jr., newyorchese classe 1947, cambiò il nome in Kareem Abdul-Jabbar, dopo la conversione all’Islam nel 1968, il boicottaggio dell’Olimpiade per protestare contro la discriminazione razziale negli Stati Uniti e la conquista del titolo Nba con i Milwaukee Bucks. Alcindor era il cognome dello schiavista, che portò in America e oppresse nelle piantagioni i familiari del campione.


Alla nascita Abdul-Jabbar misurava 57 centimetri, poi il talento e l’applicazione l’hanno reso un padre nobile del gioco a canestro. Alla Power Memorial High School, nella natia New York, oltre a vincere 88 delle 90 partite disputate, registrando il record di punti segnati, cominciò a prendere coscienza politica e sociale del significato delle proprie radici: il senso delle lotte di Harlem, della cultura e della comunità in cui era cresciuto. Il padre gli insegnò ad amare il jazz, la pallacanestro e la madre gli trasmise l’importanza della compassione.

Il fuoriclasse, che al college con coach Wooden trascinò UCLA alla vittoria di tre campionati NCAA, per poi dominare l’Nba con sei titoli in venti stagioni, se non fosse diventato un giocatore di basket, avrebbe voluto insegnare storia. Il memoir di Jabbar Sulle spalle dei giganti. La mia Harlem: basket, jazz, letteratura (add editore, 349 pagine, 19 euro, traduzione di Alessandra Maestrini) restituisce la dote preziosa di chi sa studiare, leggere e interpretare il passato per vivere con consapevolezza il presente.

«Più di tutto sono stati un periodo e un luogo a darmi una grande ispirazione – scrive Jabbar con Raymond Obstfeld – . Tra il 1920 e il 1940, nel quartiere di Harlem, alcuni dei più grandi artisti, musicisti, scrittori, attori e atleti statunitensi si impegnarono in una rivoluzione culturale che avrebbe cambiato la propria nazione per sempre. Quel periodo è conosciuto come Harlem Renaissance, il Rinascimento di Harlem, perché come quello italiano ha ridefinito un’intera cultura».


Che cosa ha rappresentato quel quartiere? Sottraendosi all’ombra della Manhattan bianca, è stato il sogno di un luogo vitale in cui i neri potessero esprimere e realizzare pienamente sé stessi. Non casualmente Jabbar cita James Baldwin fra gli scrittori d’elezione.

Il jazz è il fratello maggiore della rivoluzione, lo segue ovunque va, sosteneva Miles Davis. E nel racconto di Jabbar la capitale dell’America nera, come fin dall’inizio del ventesimo secolo è stata identificata Harlem, è il simbolo della fine dell’acquiescenza degli afroamericani verso l’ingiustizia, la povertà e la marginalità. Nell’area geografica dei cinque chilometri quadrati di Harlem troviamo una profondissima stratificazione culturale e una storia in costante movimento, che Jabbar ricostruisce strada per strada, locale per locale: dal Cotton Club all’Apollo Theater, l’auditorium più prestigioso della zona in cui si esibivano Louis Armstrong, Ella Fitzgerald e Billie Holiday.

Se il jazz rese visibili i musicisti neri, la pallacanestro, alla quale in tenera età Jabbar preferiva il baseball, lo fece entrare nella dimensione del mito con lo strapotere fisico e con quello della parola. Jabbar è maturato, percorrendo le orme di Malcolm X e quelle di Martin Luther King Jr, animato dalle stesse consapevolezze e libertà che Tommie Smith, Peter Norman e John Carlos espressero cinquant’anni fa ai giochi olimpici di Città del Messico.

lunedì 12 novembre 2018

Il viaggio di Ian Manook da Ulan Bator al Mato Grosso

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 23

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

Patrick Manoukian, classe 1949, viaggiatore instancabile, è un figlio della diaspora armena in Francia. Cresciuto a Meudon, sobborgo a sudovest di Parigi, in una famiglia operaia è stato uno scrittore prolifico fin dall'adolescenza, ma non aveva pubblicato nulla fino al 2013, quando la casa editrice Albin Michel ha puntato sul noir dall'ambientazione inusuale, la vastità della Mongolia, con protagonista l'incorruttibile commissario Yeruldelgger.

Già il primo volume di questa trilogia conquistò i lettori francesi: duecentomila copie vendute, insignito di tutti i premi letterari dedicati al giallo e tradotto in dieci lingue. In Italia è approdato con l'editore Fazi, che dopo aver portato in libreria l'ultimo capitolo della serie, La morte nomade, propone l'opera più recente dell'autore, il noir Mato Grosso (286 pagine, 17 euro, traduzione di Maurizio Ferrara).

Manook, dopo aver mostrato un universo che poco conosciamo, la Mongolia sospesa tra le tradizioni ancestrali dei nomadi della steppa selvaggia e la modernità violenta della capitale Ulan Bator, fa viaggiare il lettore in Brasile.

Manook, chi è Jacques Haret, il protagonista del nuovo romanzo?
«È uno scrittore parigino, che come me ha vissuto nel Mato Grosso quarant'anni fa. Nel suo Romanzo brasiliano Haret confessa un crimine, che avrebbe commesso durante quel viaggio. La confessione non è un atto di coraggio, poiché il reato è ormai prescritto. Quando viene invitato in Brasile a presentare il romanzo in un circolo letterario è lusingato e fiero di lui. In realtà l'invito è una trappola tesa da un uomo la cui vita è stata distrutta dalla pubblicazione. E per mostrare la potenza distruttiva del libro per i personaggi a cui lo scrittore si è ispirato, l'uomo forza Haret a leggere il testo ad alta voce per un'intera notte sotto la minaccia di una pistola».

Quali sono le differenze rispetto a Yeruldelgger?
«In Mato Grosso c'è una riflessione sulla scrittura e sulla responsabilità del romanziere nei confronti delle vite a cui si è ispirato per costruire quelle dei suoi personaggi. Haret non è un poliziotto e l'impostazione del romanzo non ricalca la trilogia. Non è dunque un grande romanzo d'avventura come Yeruldelgger, ma è una storia nella storia. A differenza di Yeruldelgger in Mato Grosso nessuno appare come un eroe a tutto tondo. Il confine tra il bene e il male non è così definito. In questo romanzo la violenza si concretizza nelle parole che uccidono».

Il cuore centrale dell'opera resta una riflessione sul rapporto tra l'uomo e la natura, ma soprattutto sulla violenza.
«Il filo rosso dei miei romanzi in Mongolia come nel Mato Grosso, ma anche in Islanda, è che la natura domini l'uomo, che quando è saggio vive in armonia con essa senza sfidarla. L'uomo da solo è nulla dinanzi alla natura, in gruppo può distruggerla con un ancestrale bisogno di affermarsi. Si sprofonda nella violenza negando o cancellando culture e tradizioni millenarie inseparabili dall'ambiente naturale».

Che cosa unisce universi così distanti come la Mongolia e l'Amazzonia? 
«Le unisce la cultura indigena per cui occorre lasciare l'accampamento in una condizione che permetterà al prossimo di stabilirsi e di viverci. La Mongolia sembra un paese indistruttibile ed eterno come la foresta amazzonica. In realtà, nei prossimi venti anni potrebbe sparire economicamente, politicamente e fisicamente. Possiede le miniere d'oro e di rame fra le più grandi al mondo, la manodopera al costo più basso ed esemplifica il cinismo delle entità economiche sovranazionali che governano la globalizzazione. Da oltre un secolo le potenze straniere saccheggiano le sue risorse senza offrire nulla in cambio. Tra trent'anni la Mongolia si ritroverà senza più la resa delle risorse naturali, con il paesaggio distrutto a causa di un modello di sfruttamento che con l'inquinamento metterà in pericolo il turismo e l'allevamento. Sono gli stessi rischi che corre il polmone verde del pianeta».

Nel 2007 lei ha scoperto insieme a sua figlia la Mongolia per verificare il lavoro dell'associazione per l'adozione a distanza che sostenete. Mato Grosso invece è un'altra storia.
«Sì, negli anni della mia gioventù è stato la conclusione di un viaggio iniziatico durato 27 mesi.
Avevo 25 anni. Ho vissuto con una cartucciera sul torace e una colt appesa alla cintura, fotografando o cacciando caimani, anaconde, puma e mangiando piranha al bivacco della sera. All'alba degli anni Settanta ho trascorso oltre un anno nello stato brasiliano, in particolare nel Pantanal. È una giungla, che durante la stagione delle piogge diventa una delle più grandi paludi esistenti al mondo. All'epoca ci fu una delle peggiori inondazioni del Mato Grosso e impiegai 21 giorni per attraversare il Pantanal in piroga senza mettere quasi mai il piede a terra». 

Che cosa rappresenta il Pantanal? La sua descrizione è parte fondamentale del romanzo.
«Il libro è un omaggio alla cultura del viaggio e alla scrittura. Il Pantanal è una regione magica, acquatica e luminosa con una fauna e una flora fra le più ricche dell'Amazzonia e una rilevante presenza di ciò che resta delle culture dei nativi americani. Lévi-Strauss soggiornò e studiò nel Mato Grosso per redigere Tristi Tropici».

Perché il libro si apre con le parole di Stefan Zweig?
«La citazione parla della luce e delle ombre, l'una senza l'altra non esisterebbero. È il senso del romanzo. Ognuno crede nella propria verità, illuminando gli argomenti che l'altro pretende di tenere nell'oscurità. Haret confessa un amore impetuoso, violento, fanatico per una donna che si è abbandonata a lui. Santana, il suo contraltare, lo definisce invece semplicemente uno stupro. Chi ha ragione? Tocca al lettore costruirsi un'idea, non prendo nessuna posizione».

E Zweig?
«Amo la sua scrittura e ammiro il coraggio con cui si è rassegnato ad abbandonare questo mondo per non vederlo soccombere all'orrore. L'ambientazione dell'incontro a porte chiuse tra Haret e Santana a Petrópolis, dove Zweig insieme alla sua compagna ha scelto di andarsene, non è casuale».

mercoledì 7 novembre 2018

ll Nobel Le Clézio sotto il cielo di Seul: «La narrazione è una via di fuga»


Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 28

di Gabriele Santoro



di Gabriele Santoro

«Senza carta, penna e inchiostro, ho disegnato e scritto le mie prime parole sulle tessere del razionamento del cibo, usando la matita rossa e blu di un falegname. E mi è rimasto un certo gusto per i supporti ruvidi e per le matite semplici», racconta Jean-Marie-Gustave Le Clézio, classe 1940, insignito nel 2008 del Premio Nobel per la letteratura, che non ha perso il senso del viaggio e della scrittura.

Il suo romanzo più recente, appena tradotto e pubblicato in Italia da La nave di Teseo, porta il lettore in Corea del Sud, alla scoperta di Seul, posando sulla città icona della mondializzazione lo sguardo straniero di una donna giovane e tenace, che approda dalla campagna. Bitna, sotto il cielo di Seul (traduzione di Anna Maria Lorusso, 155 pagine, 18 euro) è la storia della ricerca della libertà di una studentessa povera, che però conosce il potere della parola e intravede quello della letteratura.

Bitna ama leggere e in una libreria di Seul trova un annuncio di lavoro, che le consente di affittare una piccola stanza in periferia e di mantenersi durante gli studi. Salomé, un’anziana signora, cerca qualcuno che le faccia compagnia, narrando storie, e svela il talento di Bitna. In questo romanzo c’è traccia «dell’autore di nuove partenze, avventure poetiche ed estasi sensuali, indagatore di un’umanità che va al di là e nel profondo della cultura dominante», riprendendo le motivazioni dell’assegnazione del Nobel.

Le Clézio, c’è un tratto autobiografico nella figura di Bitna?
«In qualche modo è un prolungamento della mia personalità. Ho voluto creare un personaggio che mi assomigliasse, nonostante le differenze di genere e d’età. Salomé esprime il desiderio di fuggire dall’immobilità mediante l’ascolto della parola. Mia nonna materna era una narratrice straordinaria, che riservava lunghe ore pomeridiane al racconto di storie con una notevole forza evocativa. Leggevo i suoi dizionari e la ascoltavo per vagabondare e sognare. Bitna potrebbe diventare una scrittrice».

A Seul vivono oltre dieci milioni di persone e, considerando l’intero agglomerato periferico, il numero raddoppia. Che cosa significa abitare la città?
«La verità è che non abbiamo trovato ancora alcuna soluzione all’atomizzazione dei legami urbani. Bitna sostiene che la città è così estesa e popolata che si potrebbe camminare un milione di giorni senza incontrare due volte la stessa persona. Ogni giorno Seul si allarga. Si tratta di un flusso inarrestabile. È una città evidentemente cosmopolita e multiculturale in cui s’intrecciano moltissime lingue».

La lotta di Bitna per emergere nella società sudcoreana è aspra.
«Ho trascorso circa quattro anni a Seul, insegnando presso l’università femminile di Ewha, che è un vero vivaio di talenti e d’immaginazione. Le giovani ragazze coreane sono portate per le arti e alimentano la nuova cultura coreana, molto più di quanto non facciano gli uomini. Han Kang, vincitrice due anni fa del Man Booker Prize, è nota quasi ovunque nel mondo, ma non è sola. Nel panorama letterario sudcoreano spiccano le donne. Le scrittrici hanno lottato per imporsi, perché la società coreana è molto maschilista e non lo accettava facilmente. Seul è una città in cui si lotta ed è fertile per la letteratura».

Perché?
«Un elemento è stato la distruzione della città durante la Seconda Guerra mondiale. Seul è stata rasa al suolo, come Colonia in Germania, e tutto è stato ricostruito. Con l’immaginazione le donne hanno saputo andare oltre la disperazione provocata da tale annientamento».

Quale impatto continua ad avere la demarcazione, che separa le due Coree dal 1953?
«C’è il desiderio di varcarla. ”Un giorno attraverseremo il fiume, passeremo le montagne e saremo di nuovo casa”, canta la madre di Cho, raffigurato da Bitna. E al contempo il peso della frontiera, per quanto sia invisibile, non si cancella facilmente. È un’angoscia latente, che aleggia sulla città e influisce soprattutto sui giovani veramente sensibili al tema. Ogni volta che qualcuno tossisce in Corea del Nord, al Sud le persone tirano fuori le maschere e sono pronte a ripararsi».

Nel romanzo affiora la solitudine in una capitale ipertecnologica. A Seul c’è spazio per chi resta indietro?
«Sì, è vero. Occorre raccontare anche la solitudine degli esclusi dall’imponente sviluppo sudcoreano. Nella filosofia di vita coreana, che proviene dal Confucianesimo, la dignità è un elemento fondamentale».

Nel discorso di accettazione del Premio Nobel, perché ha scritto che la letteratura è ancora più necessaria rispetto ai tempi di Byron e Hugo?
«Era utile anche all’epoca di Byron, ma si rivolgeva a un’élite. La letteratura deve trovare nuovi lettori ed entrare nel paesaggio di chi non legge mai. E si può realizzare, facendo sapere che dentro i libri ci sono anche le loro vite da andare a cercare».

L’arte del viaggio è stata fondamentale nella sua formazione. Oggi che cosa rappresenta?
«Sono nato nomade. Dopo aver trascorso del tempo in un luogo, sento il bisogno di andarmene, di respirare e di guardare altri paesaggi. Scrivo per viaggiare. Ho amato vivere in Africa, quando ero bambino, e forse non l’ho mai abbandonata. Ho trascorso la mia infanzia immaginando sempre di andare altrove. Da utopista, in possesso di un passaporto francese, non smetto di sognare il tramonto della frontiera».

Che effetto le fa la marcia dei migranti?
«Non vedo la novità. Da sempre le persone cercano di fuggire dai paesi poveri in cui c’è una violenza istituzionalizzata e la politica è repressiva. Nel continente americano ma non solo è una costante. E mi permetto di aggiungere una questione».

Quale?
«Nonostante le teorie sul mondo interconnesso essere nati con il passaporto sbagliato è ancora una disdetta. Il tema è la cittadinanza e che cosa stia diventando. Avverto come una profonda ingiustizia, testimone della nostra epoca, il divario di valore tra il mio passaporto di Mauritius e quello francese».