Napoli – «La mattina guardo sempre
per qualche minuto il mare. Poi, appena chiudo le finestre dello
studio, immagino di riuscire a trattenere la bellezza di questa terra
e l’anima antica di Napoli». Riccardo Dalisi si trova a proprio
agio in mezzo a una miriade di oggetti, che emanano una luce
inconfondibile. Prepara la tavolozza e i pennelli. L’irruenza della
fantasia appare l’unico criterio ordinatore del suo luogo creativo,
che dal Vomero ammira Capri. Superati gli ottanta anni, rimane un
sognatore magnifico; un impagabile narratore di storie fiabesche che
vivificano materia ultra poverissima.
La poetica del design ultra
poverissimo, ultima frontiera della tecnica povera che ha
caratterizzato la produzione di Dalisi, accolta nei più prestigiosi
spazi espositivi mondiali (dal MoMa alla Triennale di Milano; oggi
sue mostre sono in corso in Cina, a Seul e alla collettiva Il design
italiano oltre la crisi, autarchia e autoproduzione alla Triennale),
manifesta una miniera di personaggi fantastici. L’artista ha
coinvolto, quasi sfidando e al contempo traendo ispirazione, un
“povero organizzato”, il questuante Gennaro Cozzuto. Gli ha
affidato disegni di uccellini, lamierino, forbici e fil di ferro. Ed
è sbocciato un talento. «Ho una dignità nuova!», esclama
Gennaro.
S’impone la manualità, quale forza
generatrice di valore aggiunto, che avversa l’omologazione. Si nega
la ricchezza esteriore, per rispondere a una domanda di autenticità
con la semplificazione delle linee e un ritorno alla figurazione. I
materiali poveri (cartapesta, latta, legno abbandonato, rame, ferro
grezzo) assumono una comunicatività dirompente. La materia,
costantemente rivalutata, ha vita propria, una voce. Dalisi dedica
poi particolare cura alla pittura degli oggetti.
E ancora, Alessandro Mendini ricorda il
principio dalisiano della Geometria generativa: «Un tentativo di
controllare il gioco delle trasformazioni nello spazio, di
registrarle in senso progressivo, di dirottarle, di tradurre le
pressioni che vengono da altri tipi di processi in opportunità
creative dello spazio; è la metodologia delle progettazioni
interpersonali. L’interlocutore di questa progettualità molteplice
è ora il bambino del sottoproletariato, ora il vecchio artigiano».
Come quella figura mitica del lattoniere Don Vincenzo, che per
timidezza mai volle conoscere Dalisi, ma che a distanza diede corpo
ai prototipi della caffettiera napoletana.
Il viaggio di Dalisi è una ricerca
antropologica, che costruisce legami, dà vita ai quartieri. Indica
la rotta per l’emancipazione dal degrado e dall’inferno, al quale
spesso finiamo per abituarci. La sua utopia si sostanzia nei ragazzi
di Napoli salvati dalla strada. Gli occhi azzurri si velano di
commozione, quando parla di loro. Ieri ai rioni Traiano e Sanità,
oggi a Scampia e al carcere minorile di Nisida. «Negli anni Settanta
portavo gli studenti di architettura fuori dalle aule a scoprire gli
scugnizzi. Attraevamo tutto il quartiere con l’animazione. I
bambini mi hanno spiegato la poesia e la libertà nella
progettazione. Le regole derivano dalla poesia. Oggi, durante i
laboratori, ai giovani reclusi di Nisida ripeto: “Prendete un
pennello, non pulitelo mai, anche se i colori si mescolano, il gesto
è decisivo: la vera ribellione alla realtà”». E ora, in
cantiere, c’è l’elaborazione teorica dell’esperienza di arte
terapia, da lui ispirata, nella ludoteca dell’ospedale Santissima
Annunziata a Forcella.
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