giovedì 29 aprile 2010

Thomas Leoncini: «Non sono un poeta, descrivo solo la poesia che ho intorno»

http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=100693&sez=HOME_SPETTACOLO&ssez=VETRINA

di Gabriele Santoro


ROMA (29 aprile) - «Non sono un poeta e questo non è un libro di poesie. Sono piuttosto in narratore che si limita a descrivere la poesia che ha intorno». Thomas Leoncini accoglie con questa insolita e spontanea apertura i lettori della raccolta di versi “La nostra vita è ora” (Cavallo di ferro, pag.107, euro 12). Il ventiquattrenne scrittore spezzino appartiene di diritto alla generazione dei social network, da Facebook a My Space. Con l’intraprendenza e l’esigenza intima di far conoscere in forma poetica o canzone i propri stati d’animo sul nostro presente ha iniziato a coltivare gli spazi aperti di Internet. Le poesie d’amore di Leoncini hanno catturato prima l’attenzione di migliaia di utenti sul web, presto diventati fan, poi quella dei media e delle case editrici tradizionali che pubblicano i suoi scritti.

Ne “La nostra vita è ora” non si parla solo d’amore. Nell’Italia dei circa mille morti sul lavoro annui (dati 2009, fonte Inail) i versi di “Un operaio ucciso (dall’amianto)” sono un antidoto al letargo dell’indifferenza: «L’amianto era il mio isolante, lo trattai come fosse pane indurito per dieci anni. Lo credetti amico ma distrattamente stuprava il mio polmone, camminando senza fretta mi prendeva a botte l’anima». Leoncini raffigura molti personaggi a immagine e somiglianza dei nostri giorni. “Un milionario” triste che con il denaro soddisfa tutte le voglie possibili tranne una: «non essere mai nato». “Un prete distratto” che con le proprie perversioni sessuali «disegna il cammino strappando fiori dal paradiso». Le angosce di “Un giovane soldato” delle contemporanee missioni di pace al quale spiegano che «ammazzare è l’unico modo per salvare tutto quello che ha intorno».

Dove nasce il Thomas Leoncini scrittore e quanto è stata importante la Rete?
«Internet mi ha permesso di nascere artisticamente. I primi libri che ho pubblicato non avevano praticamente distribuzione, mentre iniziando ad autopromuovermi sui social network moltissime persone hanno iniziato a leggermi e apprezzarmi. Ho cominciato sei anni fa a pubblicare sul web, oggi ho oltre sessantamila contatti su My Space e circa settemila fan sui vari profili di Facebook. Se hai un’idea che funziona, un talento, la passione e la pazienza di portarlo avanti la Rete è il luogo per eccellenza della meritocrazia».

Com’è avvenuto il passaggio dall’autopromozione alla produzione letteraria di un editore “tradizionale”?
«Intanto è fondamentale la perseveranza per chi ha voglia di scrivere. Insistere sempre, a costo di diventare “rompi balle”. Con il tempo giornali e televisioni si sono interessati e grazie all’incontro con Romana Petri (scrittrice e direttrice editoriale di Cavallo di ferro), che è rimasta colpita positivamente dai miei testi, sono approdato all’editoria classica. Non ho assolutamente smesso di gestire il mio rapporto on-line con i lettori».

Ha senso parlare di una nuova primavera della poesia grazie alla diffusione dei social network?
«La poesia dovrebbe essere il pane quotidiano dei giovani, come una forma di ribellione e di protesta. Una modalità di espressione che ti fa innamorare della vita. Purtroppo spesso la poesia viene associata ai banchi di scuola, al dover imparare a memoria versi di cui non si comprende il significato e l’arte svanisce. Per esempio la Divina Commedia l’ho scoperta veramente solo dopo il periodo scolastico ed è stato un incontro illuminante. Così come penso che nelle scuole andrebbero fatti studiare i testi delle canzoni di Fabrizio De André, per avvicinare i giovani alla poesia che si fa musica».

Qual è il filo conduttore de “La nostra vita è ora”?
«Il titolo del libro ne riassume il senso. Le nostre giornate caotiche sono fortemente ancorate al presente e piene di quattro elementi fondamentali: amore, sesso, felicità e dolore che sono i temi dei miei versi. L’amore ci spinge a un desiderio di possesso, a uno stato di felicità che una volta raggiunto spesso svanisce. Provo a raccontare la mia propensione quotidiana a innamorarmi di persone e situazioni nuove. La seconda parte del libro è meno leggera. Offro al lettore le mie sensazioni su argomenti delicati, dal disagio giovanile all’immigrazione».

martedì 27 aprile 2010

Novaja Gazeta, l'informazione russa in trincea

di Gabriele Santoro

ROMA (27 aprile) - Settanta giornalisti uccisi nell’era post-sovietica, diciannove dei quali dal 2000 al 2009. Nell’80% dei casi, anche quando si è riusciti a ottenere il processo, non si sono assicurati alla giustizia mandanti ed esecutori materiali degli omicidi. Centocinquantatre è il posto occupato dalla Russia nella classifica sulla libertà di stampa 2009 stilata da Reporters sans frontieres. È stata collocata al 174 posto su 175 paesi dalla Freedom House.

Le pareti della sala riunioni della Novaja Gazeta di Mosca sono piene delle immagini dei testimoni scomodi caduti sotto i colpi di sicari senza scrupoli. La scrivania di Anna Politkovskaja è rimasta al suo posto con una foto che la ritrae sorridente e fiori sempre freschi. Un vuoto colmabile solo con il lavoro quotidiano. Duecentosettantamila copie distribuite nelle edicole russe piene di fatti, notizie, corrispondenze dal violento pantano caucasico. Se ieri l’incubo da “normalizzare” era la Cecenia, oggi Daghestan e Inguscezia sono le nuove polveriere. Un’avventura editoriale coraggiosa, unica in una Russia indifferente, formata dalla propaganda dell’informazione televisiva monocorde. Il 75% dei russi si informa solo attraverso la tv. Realtà televisive indipendenti come la Ntv sono state smantellate con i giornalisti costretti ad abbandonare il proprio paese.

La voce di Vitaly Yaroshevski, vicedirettore della Novaja Gazeta, s’incrina per l’emozione appena la memoria risale alle 16.04 del 7 ottobre 2006. Anna Politkovskaja è stata uccisa e le stanze del giornale iniziano a riempirsi di persone: bisogna rispondere alle domande dei colleghi, ma la mente vola lontano. Maksimov, Baburova, Estemirova, Markelov: è lunghissimo l’elenco degli omicidi impuniti. «A tre anni dall'assassinio di Anna - spiega Yaroshevski - sappiamo che è stata uccisa da una banda di sicari ignoti e non c'è traccia dei mandanti. Sappiamo che la pistola usata per il suo omicidio è la stessa che ha spezzato la vita della Estemirova. Sono tante le domande che non hanno trovato risposte. Cerchiamo di portare avanti delle indagini parallele senza grandi risultati purtroppo. Anna Politkovskaja è vittima della politica del nuovo regime russo. Come ci hanno detto chiaramente gli inquirenti ci vuole una soluzione politica, ma non c'è questa volontà».

Lo sguardo dell’avvocatessa cecena Lidia Yusupova, attivista dell’Ong Memorial come Natalja Estemirova, ti entra dentro, tradisce difficilmente un sorriso e sembra portarsi il carico di un’esistenza in bilico. La Yusupova utilizza poche parole, ma inequivocabili.«Il sistema giudiziario russo funziona solo per ordine del sistema politico. La legge non è oggettiva, di conseguenza non ci si possono attendere decisioni altrettanto oggettive nelle aule dei tribunali. Dubito che in questa situazione si possa fare luce sugli omicidi dei nostri giornalisti. Possiamo lecitamente attenderci che il sistema che ha approvato un assassinio giudichi se stesso? Viene garantita l'impunità».

Di fronte allo scadimento dei livelli di libertà fondamentali il popolo russo appare anestetizzato, impotente. Yaroshevski offre questa chiave di lettura. «L'indifferenza è il sentimento dominante in Russia. L'opinione pubblica non si è sollevata nonostante gli orrori delle due guerre in Cecenia. Non ci sono state manifestazioni per la strage di bambini a Beslan. I cittadini di Roma hanno sfilato per i nostri bambini. Lo stesso avviene davanti all'omicidio di cronisti. La propaganda ha costruito un muro, hanno convinto le persone che nulla dipende da loro. Se qualche giornalista viene ucciso è perché non "è amico del popolo". Il potere russo non sa come vive la società, la società non sa nulla del potere che li comanda. Gli ultimi dieci anni verso la democrazia, in realtà ci hanno riportato indietro di oltre vent'anni».

Alla Novaja Gazeta non hanno nessuna intenzione di smettere di raccontare l’altra Russia.
«Dopo l'omicidio della Politkovskaja nessuno si è licenziato. Non si tratta di un atto di coraggio estremo. È un istinto naturale. Non è possibile svegliarsi la mattina, lavarsi i denti, prendere il caffè e avere paura. L'unica alternativa sarebbe cambiare il giornale o la professione. È molto simile a una guerra asimmetrica con perdite terribili, ma non abdichiamo al nostro dovere professionale d'informare e alla nostra umanità. I nostri articoli sono focolai di resistenza contro la disumanità e la codardia di chi uccide un cronista indifeso a martellate o girato di spalle sparandogli a bruciapelo. Camminiamo su un campo minato, ma lo facciamo con consapevole serenità. In questi giorni molti mi chiedono: come possiamo aiutarvi? Rispondo che quando i nostri leader vengono accolti in visite ufficiali nei vostri paesi, domandategli perché non si fa luce sull'omicidio di Anna Politkovskaja e su tutti gli altri. I diritti umani non sono più nell'agenda politica?».

giovedì 15 aprile 2010

Liberi Nantes, un calcio al razzismo

http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=98092&sez=HOME_SPORT

di Gabriele Santoro


ROMA (14 aprile) - «Movimenti zero! Allarga il gioco! Moustafa prendi l’uomo!» Mamadou, portiere e capitano della Liberi Nantes formazione calcistica con atleti migranti iscritta al campionato di terza categoria, urla indicazioni in un perfetto italiano ai compagni di squadra e di strada. Una strada polverosa fatta di migliaia di chilometri in fuga solitaria nascosti in un Tir o stipati in un gommone disumano e di un bagaglio unico stracolmo di dolore, paura e speranza.

È domenica mattina, la città freme in attesa dell’agognato sorpasso giallorosso o teme per lo spettro della serie B biancoceleste. I giocatori della Liberi Nantes arrivano alla spicciolata in via Alessandro Severo, alla Garbatella. Sul campo della Giovanni Castello si disputa la nona giornata di ritorno del girone E. Non si respira il clima teso e sovraeccitato della periferia e della nobiltà calcistica. C’è solo voglia di una sana competizione, il fair play di una stretta di mano che non manca mai e larghi sorrisi per tutti i novanta minuti.

La maglia blu della Liberi Nantes con il simbolo dell’Unhcr (alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) veste su corpi scolpiti, che non conoscono le rotondità dei chili di troppo. Gli ospiti si schierano con il più classico dei 4-4-2, che si trasforma in un 4-3-1-2 con il rumeno Livio a giostrare tra centrocampo e attacco. Nel primo tempo la supremazia fisica degli ospiti si infrange su due traverse, mentre i padroni di casa approfittano di due buchi difensivi per il temporaneo 2-0. «David kick the ball (spazza la palla)!» Il mister, per l’occasione anche guardalinee, riprende così i propri difensori leziosi.

Nella ripresa la Liberi Nantes, a cui per antonomasia piacciono le imprese difficili, prima accorcia le distanze e poi suggella il 2-3 con un tiro da venti metri del suo numero dieci rumeno che s’insacca all’incrocio dei pali. Tre punti che non muovono la classifica di questa squadra speciale, la cui partecipazione al campionato è sui generis per via delle norme della Figc italiana e della Fifa che consentono il tesseramento di un solo extracomunitario a società. Inoltre essendo rifugiati politici o richiedenti asilo è praticamente impossibile ottenere il transfert dalle federazioni di appartenenza.

La vittoria più importante inseguita dall’associazione dilettantistica Liberi Nantes, nata nel 2007 dall’idea del presidente Gianluca Di Girolami sotto il patrocinio dell’ Unhcr e cresciuta grazie al lavoro di un gruppo di volontari, è quella dell’integrazione mediante la pratica sportiva. «Il nostro fine - si legge sul sito dell’associazione - è quello di promuovere, diffondere e garantire la libertà di accesso all’attività sportiva a quelle donne (da poco c’è anche una squadra di Touch Rugby femminile) e uomini che hanno dovuto lasciare il proprio paese e i propri affetti per scappare da qualcosa o da qualcuno che nega loro la dignità di esseri umani. Siamo convinti che si può accogliere chi ne ha bisogno anche su un campo di calcio, in una palestra o tra le corsie di una piscina. Ritornare a giocare è per certi versi un ritornare a vivere».

La rosa dei Nuotatori Liberi è aperta. Di volta in volta al centro di allenamenti Fulvio Bernardini a Pietralata, a 500 metri dalla fermata della Metro B, si inseriscono ragazzi nuovi residenti a Roma. Dopo aver presentato i documenti di riconoscimento s’inizia il percorso d’inserimento nel gruppo, che ha comunque un’ossatura di base definita. Due allenamenti alla settimana con l’associazione no-profit che garantisce loro il materiale sportivo (maglie, calzoncini, scarpini spesso regalati anche da altre società) e l’assistenza logistica necessaria. Dentro gli spogliatoi resta la realtà dura della vita nei centri d’accoglienza e di un futuro sempre in bilico. L’arbitro fischia. Inizia a rotolare il pallone sul campo di terra, al primo contrasto si alza il solito polverone ed è un po’ come sentirsi di nuovo a casa.

lunedì 12 aprile 2010

Le ho mai raccontato del vento del nord, il successo di Daniel Glattauer

http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=97771&sez=HOME_SPETTACOLO

di Gabriele Santoro

ROMA (6 aprile) – L’errore perfetto. Una semplice vocale di troppo in un indirizzo e-mail che schiude una relazione virtuale densa di gioioso mistero, di attrazione e di parole piene di senso. La brezza del vento del Nord che arrossa le guance e bussa alle solitudini di un’infelicità manifesta o latente dei protagonisti Leo Leike ed Emmi Rother, spassosamente disegnati da Daniel Glattauer.

“Le ho mai raccontato del vento del nord” (Feltrinelli, euro 16, pag. 191), uscito da poco in Italia e best-seller in Germania con oltre 750mila copie vendute, è un romanzo epistolare della contemporaneità divertente e mai banale. Ogni volta che si rischia di scivolare nella ripetitività o prevedibilità dello scambio l’autore dà una frustata inaspettata alla fantasia del lettore e lo trascina nella lettura scorrevole. Un libro da gustare nello spazio di un viaggio senza noiose interruzioni.

Il giornalista austriaco Glattauer esalta le potenzialità comunicative dell’amore al tempo di Internet. Un registro narrativo nuovo, incalzante, che restituisce l’istantanea di un sentimento nella codifica binaria di un file. La casella di posta elettronica si vivifica, un luogo da custodire gelosamente come un vecchio diario adolescenziale. Si riscopre il valore della parola, affidata ai protocolli di comunicazione della Rete, che assume un ruolo essenziale nell’assenza di contatto fisico. «Emmi mi scriva. Scrivere è come baciare, solo senza labbra».
Passo dopo passo la voce straniera che accompagna dal buongiorno alla buonanotte le vite dei protagonisti s’insinua nelle crepe dell’esistenza reale. «Emmi le quattro parole apparentemente senza importanza che abbiamo scambiato sulla morte di mia madre sono state un vero toccasana. Dentro di me c’era quella seconda voce che pone le mie domande taciute, che dà le mie risposte arretrate che infrange e s’insinua nella mia solitudine».

Un dialogo che non ha bisogno di riferimenti reali (lavoro, passioni, hobby), ma penetra nella sfera privata più profonda. Le e-mail come veicolo di emozioni e antidoto ai compromessi emotivi della vita reale.«Adegui continuamente i sentimenti all’ambiente circostante, hai riguardo per gli affetti, fai l’equilibrista, ragioni, soppesi, il tutto per evitare di danneggiare la struttura portante di cui sei parte integrante. Con lei, caro Leo, non ho paura di comportarmi in modo spontaneo, per come sono davvero. Non sto a pensare che cosa si aspetta o non si aspetta. Le scrivo liberamente e mi fa sentire bene».

E-mail dopo e-mail tra gli sconosciuti Leo ed Emmi irrompe una passione tanto carnale quanto intangibile. Svegliarsi la mattina con in testa una sola necessità: «Apro la casella di posta e trovo ad aspettarmi un’e-mail di Leo Leike. È così che inizia una bella giornata, Leo!»
Come due freschi innamorati Emmi e Leo rischiano più volte la rottura, tra incontri annunciati e poi mancati, la paura di vedere svanire la magia e le illusioni di una relazione unica in una realtà deludente. Nelle notti alcoliche davanti ai rispettivi schermi del computer monta il desiderio di fisicità. Brindano e si disinibiscono: «Emmi venga da me. Beviamoci un altro bicchiere. Glielo prometto le appoggerò solo una mano sulla spalla. Solo un abbraccio. Solo un bacio. Emmi devo sapere che odore ha la sua pelle». «La notte scorsa l’ho sognata intensamente, Emmi». «Ma che intende lei per intensamente, anche un po’ erotico?» «Un po’ tanto erotico».

Alla fatidica domanda «come proseguiamo?» risponde il marito di Emmi, Bernhard, che si trova impotente di fronte a quel rapporto. Spiazzato da quel presunto nemico atipico di un matrimonio apparentemente esemplare propizia l’incontro «così mia moglie la vedrà come me, una creatura vulnerabile, un esemplare di umana inadeguatezza, solo quando sarete faccia a faccia la sua superiorità svanirà».“Le ho mai raccontato del vento del nord” ha un finale aperto, che lo spazio di un’e-mail non può contenere. Costringe a chiederti se sei veramente felice e soprattutto quali presunte certezze della tua esistenza sei disposto a mollare per un incontro liberatorio.