ROMA (27 aprile) - Settanta giornalisti uccisi nell’era post-sovietica, diciannove dei quali dal 2000 al 2009. Nell’80% dei casi, anche quando si è riusciti a ottenere il processo, non si sono assicurati alla giustizia mandanti ed esecutori materiali degli omicidi. Centocinquantatre è il posto occupato dalla Russia nella classifica sulla libertà di stampa 2009 stilata da Reporters sans frontieres. È stata collocata al 174 posto su 175 paesi dalla Freedom House.

La voce di Vitaly Yaroshevski, vicedirettore della Novaja Gazeta, s’incrina per l’emozione appena la memoria risale alle 16.04 del 7 ottobre 2006. Anna Politkovskaja è stata uccisa e le stanze del giornale iniziano a riempirsi di persone: bisogna rispondere alle domande

Lo sguardo dell’avvocatessa cecena Lidia Yusupova, attivista dell’Ong Memorial come Natalja Estemirova, ti entra dentro,

Di fronte allo scadimento dei livelli di libertà fondamentali il popolo russo appare anestetizzato, impotente. Yaroshevski offre questa chiave di lettura. «L'indifferenza è il sentimento dominante in Russia. L'opinione pubblica non si è sollevata nonostante gli orrori delle due guerre in Cecenia. Non ci sono state manifestazioni per la strage di bambini a Beslan. I cittadini di Roma hanno sfilato per i nostri bambini. Lo stesso avviene davanti all'omicidio di cronisti. La propaganda ha costruito un muro, hanno convinto le persone che nulla dipende da loro. Se qualche giornalista viene ucciso è perché non "è amico del popolo". Il potere russo non sa come vive la società, la società non sa nulla del potere che li comanda. Gli ultimi dieci anni verso la democrazia, in realtà ci hanno riportato indietro di oltre vent'anni».
Alla Novaja Gazeta non hanno nessuna intenzione di smettere di raccontare l’altra Russia.
«Dopo l'omicidio della Politkovskaja nessuno si è licenziato. Non si tratta di un atto di coraggio estremo. È un istinto naturale. Non è possibile svegliarsi la mattina, lavarsi i denti, prendere il caffè e avere paura. L'unica alternativa sarebbe cambiare il giornale o la professione. È molto simile a una guerra asimmetrica con perdite terribili, ma non abdichiamo al nostro dovere professionale d'informare e alla nostra umanità. I nostri articoli sono focolai di resistenza contro la disumanità e la codardia di chi uccide un cronista indifeso a martellate o girato di spalle sparandogli a bruciapelo. Camminiamo su un campo minato, ma lo facciamo con consapevole serenità. In questi giorni molti mi chiedono: come possiamo aiutarvi? Rispondo che quando i nostri leader vengono accolti in visite ufficiali nei vostri paesi, domandategli perché non si fa luce sull'omicidio di Anna Politkovskaja e su tutti gli altri. I diritti umani non sono più nell'agenda politica?».
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