Il Messaggero, sezione Cultura pag. 29,
16 Ottobre 2015
di Gabriele Santoro
Fat City è l’unico romanzo, scritto magistralmente, di Leonard Gardner, oggi ottantunenne. Pubblicato nel 1969, è diventato un classico. Nel 1972 è stata fortunata anche la trasposizione cinematografica diretta da John Huston, che nel giudizio dell’autore conferì al film una certa autenticità. Fazi lo ripubblica col titolo Città amara (204 pagine, 17.50 euro), traduzione curata da Stefano Tummolini. L’autore, assumendo la prospettiva della natia Stockton, ha ritratto il sogno americano che si spegne all’alba. Questa è la storia di due boxeur semiprofessionisti, uno debuttante, l’altro neanche trentenne, il cui talento non varca il quartiere, che già si sente morire, del loro manager, dei loro amori e della sussistenza nell’America rurale della California Central Valley.
Gardner scava sotto la superficie dei personaggi e dell’ambiente che ha respirato. Presenta con mirabile asciuttezza e chiarezza la cultura del mondo che gli interessa. In questo romanzo è perfetto il necessario equilibrio letterario fra esperienza, osservazione e immaginazione. Joan Didion, letteralmente entusiasta, lo definì la metafora esatta dell’assenza di gioia nel cuore. Ha ragione Antonio Franchini, che nella postfazione annota: «L’aderenza fra i personaggi, la loro lingua e le loro azioni è totale. La psicologia dei personaggi è nelle loro gesta».
Nel capitolo in cui descrive una giornata di lavoro senza speranza sotto un sole cocente, quando Tully è curvato per cogliere le cipolle dal campo, Gardner viene a bussarti e ti strappa pure un pezzo di anima. Stockton, che all’epoca contava ottantamila abitanti, crebbe su un ampio delta molto fertile. La ricchezza dei terreni e delle risorse idriche, fondamentale per lo sviluppo di un importante centro agricolo, si sa, non è equa. La fatica dei braccianti tramontava nelle numerose taverne e nei bordelli ad alto tasso di alcol. «Tully se avesse avuto un destro migliore sarebbe arrivato in cima alla lista. Se avesse saputo colpire un po’ più forte e incassare meglio. Tutto il resto ce l’aveva, ma poi si è lasciato abbattere dalla sfortuna. Mi sa che adesso ha ripreso ad allenarsi, giù all’YMCA. Ha ancora le sue carte da giocare».
Gardner, lei conosce molto bene il mondo di cui scrive, e che trascende. Qualsiasi cosa scriviamo è in una qualche maniera autobiografica?
«Sì, ho provato sulla pelle l’avidità del mondo che schiaccia i personaggi. Anch’io ho boxato negli abissi, ho raccolto l’odore della Lydo Gym, ma devo ammetterle che non sono mai stato un granché. Facevo lo sparring partner dei dilettanti e dei professionisti, che lavoravano pure nei campi. Uomini per bene che picchiavano forte. Li osservavo e mi raccontavano. Ho svolto lavori poco gratificanti. Fra i quali il parcheggiatore, tre giorni a settimana, in un ristorante di San Francisco. Ero squattrinato, tuttavia credo sia stato fondamentale per ricercare le ragioni del mio scrivere un romanzo. Tiravo su qualche dollaro maneggiando l’infelicità. Mi interessava scrivere degli oppressi, dei lavoratori sfruttati, e dunque della condizione che vivevo. Era un’urgenza fisica e loro mi hanno messo tra le mani una storia. Poi ci sono voluti quattro anni e quattro stesure del libro».
I due protagonisti non sono splendidi perdenti. Perché, anche quando vincono i rispettivi incontri, sprofondano nell’abisso della sconfitta? Tully su tutti.
«Billy perde l’amore che non riesce a provare, ma che tuttavia lo fa sprofondare. Il modo in cui interpreta la boxe è un tutt’uno con la sua identità. Avverte lo sconforto proprio della subalternità sociale di un personaggio dall’esistenza sperduta. Sale sul ring per sconfiggere la vita che l’ha creato, per lottare contro la sua povertà. Neanche trentenne pensa di aver sprecato già la sua opportunità. Tornando a boxare, prova ad arginare il tempo, che ha sempre remato in direzione contraria. Ho cercato di raffigurare Tully come l’uomo più malinconico che sia mai esistito, o almeno come è apparso a me. In ognuno di noi si cela qualcosa di lui. Fat City, la terra dell’abbondanza per tutti, è un obiettivo irrealistico, che non può essere raggiunto».
I suoi personaggi offrono altrettanti punti di osservazione. Ci racconta com’è nata la figura del manager, che sembra distante da lei?
«La ringrazio, è interessante, poiché quando ho sentito il bisogno di scriverlo, non avevo riferimenti, non avevo idea di come crearlo. Mi sedetti a pensare probabilmente per un paio di ore in uno stato meditativo. In quel momento imparai qualcosa del mio essere scrittore. Lo sforzo di concentrazione mi ha presentato Ruben Luna. Tutto è cominciato a fluire. Ritengo che una qualche forma del talento di uno scrittore risieda nella capacità di volare sopra ai problemi, di sciogliere i nodi. Molti si arrendono, in quell’occasione invece rimasi seduto. I personaggi e il romanzo nella propria sostanza compiuta si sono rivelati a me. Le confesso che è abbastanza emozionante quello che successe. Quando ho iniziato a scrivere di questo manager, allenatore, di periferia ho compreso l’aspetto eccitante nel processo creativo della scrittura e la ragione che spinge le persone a voler scrivere romanzi».
In una lunga intervista a The Paris Review William Faulkner dichiarò: «Se potessi, riscriverei tutti i miei lavori. Sono convinto che lo farei meglio. Questo è l’abito mentale più salutare per un artista». Quali sentimenti nutre per Fat City a quarantasei anni dall’uscita?
«Devo dire che lo amo ancora molto. L’ho riletto recentemente, realizzando a differenza delle altre volte quanto all’epoca fosse oscura la mia visione della situazione. Non ero depresso, ma non trovavo un senso soddisfacente della vita. Quando gli Stati Uniti iniziarono a sganciare le bombe sul Vietnam, ebbi la percezione di quanto la razza umana potesse essere una causa persa. In fondo ero interessato a descrivere le difficoltà senza fine dell’essere poveri in America. Solo ora mi sono reso conto appieno di quanto abbia messo con successo su carta le implicazioni, i problemi psicologici che affliggono le persone danneggiate dalla povertà estrema».
Aveva riposto una qualche speranza nella scrittura, nel futuro del romanzo che avrebbe poi segnato la sua vita?
«Ho creduto in me stesso come scrittore, sapendo bene che cosa volessi dalla mia professione e ho avvertito la sensazione di riuscirci. Ho lavorato duro con la speranza di preparare un buon romanzo, il cui interesse avrebbe resistito allo scorrere delle stagioni. Non è molto originale, lo so. Credo che ogni scrittore sogni di raggiungere varie generazioni di lettori. L’avverarsi di questo sogno è stato una sorpresa. Ti svegli la mattina con le buone recensioni dei critici, con l’affetto dei lettori e degli aspiranti scrittori che vengono ancora a cercarti».
Si è identificato nel successo di Città amara?
«Non sono mai stato timido di fronte alle esigenze del pubblico. Al college aspiravo alla carriera di attore. Il successo di Fat City ovviamente mi ha gratificato. Se sia diventato arrogante o meno lo devono dire gli altri. Spero di essere rimasto una personalità accettabile. Non sono piombato nella disperazione di essere all’altezza dell’opera prima, perché insieme a lei ho ricevuto tutti i riconoscimenti a cui uno scrittore può mirare. Forse ne ho goduto eccessivamente, mentre avrei dovuto lavorare duro su un altro libro».
Non vorrei apparirle invadente. Perché ha pubblicato un solo romanzo?
«La sua domanda non è scortese, ma scomoda. Dopo il romanzo mi offrirono lavori di sceneggiatura per il cinema, short stories per la televisione. Gli Stati Uniti sono un paese costoso in cui vivere e in media i romanzieri non guadagnano molto. Quando arrivano offerte dal cinema o dal piccolo schermo non hai scelta. E alla fine accetti. Nonostante ciò non ho una buona scusa per soddisfare l’interrogativo. Il tempo non mi mancava. In fondo non c’è una risposta. Chiunque mi domandava: «Quando scriverai il secondo romanzo?» È gravosa la pressione su chi debutta con un tale riscontro. Non è semplice, malgrado la materia prima disponibile. Tutti se lo aspettavano e non è arrivato. Ora ci sto riprovando».
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