domenica 19 agosto 2018

Quando l'apnea diventa il simbolo del coraggio di vivere e morire

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 22

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

L'apnea rappresenta per Giuliano la misura della vita. In mare lui esplora il confine labile con la scomparsa. Il protagonista di Dimentica di respirare (Tunué, 113 pagine, 14 euro), il secondo romanzo di Kareen De Martin Pinter, ha lo spessore e l'intensità narrativa per restituire il rapporto primigenio dell'uomo con l'acqua, l'elemento fondamentale della nostra esistenza.

Che cos'è l'apnea profonda? Maurizio, l'allenatore di Giuliano, prova a rispondere. L'apnea è più testa che corpo. Non è uno sport come gli altri; la cosa importante non è vincere, ma possedere un pensiero forte, quando si scende nell'abisso caratterizzato dall'assenza di luce. Per sprofondare oltre i cinquanta metri ci vuole disciplina, umiltà e convinzione assoluta. Il primo errore da non commettere in apnea è lottare: «Non è il pugilato, l'apnea. Se conti solo sulla forza, cosa farai quando ti viene a mancare, eh?», Maurizio redarguisce così l'allievo.

Qual è il rapporto col respiro, che forse è il vero protagonista del libro, di un bravo apneista? «Se trattieni il fiato prima o poi ti ritroverai senza – sostiene Maurizio –. E sentire l'impellente bisogno di respirare con milioni di litri d'acqua sopra la testa a separarti dalla prima molecola di aria non è la cosa più bella del mondo. Se invece ti dimentichi di respirare, finché stai sotto, finché vivi nell'acqua, allora ce la puoi fare e riuscirai a spingere quel limite più in là».

Nel romanzo l'acqua è anche memoria con cui confrontarsi fin dal grembo materno. Ci si immerge per guardarsi intorno e dentro. Leggendo, scopriamo che il senso per l'apnea di Giuliano è un fratello, Giovanni, che in superficie non è più risalito. La vita spesso si trasforma nella ricerca della maniera più dolce o violenta di colmare i vuoti che interrogano l'anima. Ed è una necessità a cui è impossibile sottrarsi, Giuliano non lo fa. Il mare e la gestione del ritmo dell'immersione assomigliano alla costruzione nella mente di uno spazio libero.

Giuliano vuole vincere, intende strappare record di discesa: è una forma di resistenza alla morte. Giuliano inizia l'ultimo viaggio, quando la diagnosi irreversibile di una tosse maligna decreta la fine. Col coraggio, che serve a vivere come a morire, continua a indagare il senso del limite.

mercoledì 15 agosto 2018

Islanda, l'isola salvata dai punk

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 24

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

Le inchieste, i reportage letterari e i saggi narrativi, accompagnati da fotografie, infografiche e cartine, che compongono il progetto editoriale The Passenger (176 pagine, euro 18,90) di Iperborea, casa editrice dedicata alla letteratura nordica, evitano al lettore di raggiungere impreparato l'Islanda, senza smarrire il gusto della scoperta.

«Scusi, può dirci a che ora accendono l'aurora boreale?». Hallgrímur Helgason, scrittore di culto della letteratura islandese contemporanea, supera con l'ironia l'imbarazzo della domanda improvvida di una giovane coppia di giapponesi a Reykiavik, svelando l'impatto del turismo di massa che in sette anni di boom ha trasformato il volto del paese, che conta 350mila abitanti. Dal mezzo milione di turisti registrati nel 2010 si è passati ai due milioni del 2017.

«La nostra infanzia è su Airbnb, la nostra adolescenza viene esplorata da trekkisti modaioli, la nostra vecchia casa è stata instagrammata fino alla nausea. E ormai un amico su due fa la guida turistica», osserva Helgason. C'è chi protesta per la perdita del fascino del cuore antico di Reykiavik, che di notte e di giorno pullula di turisti. Ma i ritorni economici sono eloquenti.

I turisti hanno salvato l'economia nazionale dopo la spaventosa crisi del 2008: le tre maggiori banche crollarono nel giro di una notte – lasciando debiti di dieci volte superiori al Pil. La Borsa perse il novanta per cento. Al fallimento di Lehman Brothers seguì la quasi bancarotta islandese.

Allo stravolgimento economico si è associato quello politico. La depressione economica e la sfiducia nei partiti tradizionali hanno condotto al potere nel 2010 a Reykiavik, in cui vive un terzo degli islandesi, il Partito migliore con lo slogan sui generis «Più punk, meno crisi!». L'elettorato locale solitamente conservatore si è affidato al comico Jon Gnarr, volto celebre in televisione. Constantin Seibt ci racconta questo movimento e ne analizza gli esiti con una conclusione inattesa: «I punk hanno risanato le finanze, rimettendo in piedi le aziende municipalizzate zavorrate dai debiti».

Se l'aurora boreale è il principale elemento di attrazione per i turisti, l'Islanda, che non ha ancora trovato il petrolio, s'interroga sull'avvenire della propria ricchezza energetica e dunque sulle riserve inutilizzate di energia idroelettrica e geotermica. In questo senso è molto interessante lo sviluppo dei rapporti bilaterali tra Islanda e Cina, che nel 1984 realizzò la prima propria spedizione scientifica nell'Artico. Quest'anno il governo cinese ha presentato un libro bianco sull'Artico, in cui introduce il concetto di “via della seta polare”. Nel 2013 la Cina ha firmato con l'Islanda il primo accordo di libero scambio con un paese europeo, proprio nell'anno in cui il governo di Reykiavik, sempre in bilico tra voglia di indipendenza e bisogno di aiuto esterno, ha ritirato la candidatura per l'adesione all'Unione Europea.

Le autorità di Pechino hanno un interesse crescente nell'applicazione industriale dell'energia geotermica che, insieme alla pesca e all'industria della lavorazione del pesce, alla produzione di alluminio e ferrolega, è uno dei pilastri della prosperità economica islandese. Lo sforzo fatto dalla Cina per accrescere la sua presenza nell'Artico equivale al farsi trovare pronta dinanzi a due domande: chi avrà accesso alle risorse minerarie della regione e quale impatto avrà lo scioglimento dei ghiacci sulla navigazione commerciale nelle rotte polari dall'Asia all'Europa e ritorno?

Se la tendenza attuale dovesse continuare, i ghiacciai dell'Islanda scompariranno quasi tutti nel Ventunesimo secolo. Halldór Laxness, Premio Nobel per la letteratura nel 1955, indaga l'incidenza dell'uomo che al suo arrivo ha trovato una landa intatta, fittamente coperta di fragile vegetazione artica, erica e arbusti vari. L'Islanda non è più una terra in cui è possibile vedere una natura incontaminata e ci pone tutte le sfide del cambiamento climatico.

L'industria ittica islandese, cresciuta del 10-15% dal 2008, ha trovato una sostenibilità di successo con una limitazione al sovrasfruttamento dei mari per la pesca, senza perdere il tasso di produzione e la varietà della fauna marina.

Laxness ci conduce a Myvatn, il bacino più speciale e prezioso al mondo dal punto di vista biologico ed ecologico, dove resiste un magnifico equilibrio tra uomo e natura viva, espresso in questi versi: «Qui ha lo spirito tutte le sue dimore naturali in terra».

The Passenger è un viaggio davvero intenso anche nell'abbondante produzione artistica, letteraria e musicale islandese, che sul proprio territorio, pari a 100mila metri quadrati, ha novanta scuole di musica, 400 orchestre e numero imprecisato di gruppi rock. Natura, lingua e letteratura hanno guidato il sentimento nazionale attraverso gli otto secoli di storia della micronazione, indipendente dal 1944 dopo il dominio reale norvegese e danese. La studiosa e traduttrice Silvia Cosimini rivela l'infinita ricchezza lessicale della lingua islandese, viva e vegeta, capace di resistere a lingue più prestigiose e alla scarsa densità di popolazione: «È un mostro di resilienza, l'integrità di questa lingua equivale a quella della nazione, se non alla sua stessa esistenza», spiega Cosimini.

Il progetto innovativo di Iperborea è all'esordio e ha già ottenuto un ottimo riscontro dai lettori. In autunno arriverà in libreria un nuovo numero di The Passenger dedicato ai Paesi Bassi, poi sarà la volta del Giappone e della Norvegia.

lunedì 13 agosto 2018

Migrazione, lavoro e libertà: la tragedia dimenticata di Monongah


di Gabriele Santoro


Nella storia degli Stati Uniti d’America gli incidenti minerari hanno scavato un solco di lutti. Dal 1839 alla fine del Ventesimo secolo in 716 incidenti secondo le rilevazioni ufficiali sono scomparsi oltre 15 mila lavoratori. I dati ricostruiti su fonti giornalistiche ne stimano almeno diecimila in più.

Migliaia di vittime avevano varcato la porta stretta dell’isolotto di Ellis Island alla ricerca di un’occupazione. Nella baia di New York si registrò il picco degli ingressi nel 1907 con 1,004,756 persone accolte, fra le quali 292 mila italiani. Nella sola giornata del 17 aprile 1907 furono identificati 11,747 immigrati approdati dall’Europa. Lo stesso anno il presidente Roosevelt, dopo la firma del restrittivo Immigration Act, istituì una Commissione congiunta di Camera e Senato sull’immigrazione che produsse i propri corposi, quarantuno volumi di report, e discutibili risultati nel 1911. Il trentaseiesimo capitolo ha un titolo evocativo, Immigration and crime, e metteva nel mirino gli italiani.


Dieci mesi dopo l’insediamento della Commissione sull’immigrazione del Congresso, alle 10.28 del 6 dicembre 1907 a Monongah nel buio profondo delle gallerie 6 e 8, collegate da una ferrovia, nella miniera di carbone Fairmont Coal Company, di proprietà della Consolidated Coal Mine di Baltimora, a causa di due fortissime deflagrazioni morirono, secondo i dati ufficiali, 171 lavoratori sfruttati, emigrati dal Meridione e dal Centro Italia, lasciando 112 vedove e 207 orfani. I minatori provenivano da nove regioni italiane, dalla Calabria al Piemonte. Nel Museo dell’Emigrazione di Ellis Island sono esposte immagini della miniera di Monongah e del cimitero, che custodisce i corpi dei minatori ritrovati dalle squadre di soccorso.

Le miniere carbonifere di Monongah, sorte sulla biforcazione del fiume Monongahela, si espandevano per circa dieci chilometri a sud della città di Fairmont nel West Virginia.

L’otto dicembre 1907, due giorni dopo l’accaduto, il Corriere della Sera titolò “Il grande disastro della Virginia”: «Nel pozzo n.8 tuttora divampa l’incendio. La desolazione più terribile regna in tutta la regione e nell’intiero (sic) Stato della Virginia, ove non si ricorda una più terrificante catastrofe. Ho tentato di accertare il numero delle vittime; ma ciò è impossibile. La direzione delle miniere ha ordinato un nuovo invio di casse mortuarie. Oltre trecento ne sono arrivate oggi. Si sono rinvenute membra umane orridamente mutilate alla distanza di 300 metri dal disastro».


Poche ore dopo la tragedia, le speranze di riuscire a trarre in salvo qualcuno erano già svanite e fu opera complicatissima l’identificazione dei corpi dilaniati, molti dei quali sepolti in una straziante fossa comune. L’Agenzia Stefani riportò il virgolettato del presidente della Compagnia mineraria, che prometteva «un’inchiesta rigorosa». Non andò così. Per usare le parole del Console italiano a Philadelphia Giacomo Fara Forni rivolte all’ambasciatore italiano a Washington: «Soliti armeggi da parte della Compagnia per schermirsi da ogni responsabilità civile del disastro». Le autorità derubricarono la testimonianza di un italiano sopravvissuto, altri non parlarono per paura di perdere l’occupazione, mentre promisero alle famiglie una compensazione in cambio della rinuncia ad adire alle vie legali.

A tre giorni dalla deflagrazione il bilancio dell’agenzia giornalistica italiana contava almeno 550 scomparsi, raccontando scene di devastazione: «Donne e bambini vagano a frotte intorno ai pozzi, piangendo, strappandosi i capelli, lacerandosi le vesti». E sottolineava le difficoltà dei soccorsi: «Numerose persone che lavoravano al salvataggio si trovano in uno stato critico, in seguito all’assorbimento di gas micidiali».

Nel novembre del 1908 la Commissione d’inchiesta, che non accertò alcuna causa e responsabilità per le esplosioni, quantificò in 361 le vittime, di cui 87 originarie del Molise e 37 dal solo paese di San Giovanni in Fiore in Calabria. Le prime cronache giornalistiche riportavano un numero più alto pari a 550 vittime, poiché il direttore generale della miniera dichiarò che i minatori registrati per la giornata di lavoro erano 478 più gli irregolari e altre maestranze operaie.

Appena sbarcati nella terra promessa, gli immigrati venivano dirottati col sistema dei “bosses”, o caporalato, funzionale all’industria pesante statunitense, dai grandi agglomerati urbani verso il West Virginia, ricco di carbone e legname, per vivere in funzione dello sfruttamento estrattivo. Negli Stati Uniti, come poi avvenne in Belgio, i lavoratori sopravvivevano con le famiglie nelle “company towns”, baraccopoli simili a villaggi che sorgevano nell’area mineraria, subendo vessazioni, un controllo totalizzante del rapporto di lavoro ed erano fra i più esposti agli infortuni certificati ogni anno nelle ferrovie, nelle miniere e nelle officine.

Dopo turni lunghi anche dieci ore, il salario era commisurato alla quantità di carbone estratta dal giacimento, tuttavia il guadagno era ben più consistente di quello di un bracciante agricolo nel nostro paese. In Italia la speranza di vita dalla prima fase postunitaria era salita di 14.2 anni, toccando nel 1910 i 45.4 anni con la percentuale della povertà assoluta ancora al 43.4%. Nel 1911 il tasso di alfabetizzazione della popolazione sopra i 15 anni era del 39.8%.

Leggiamo in una corrispondenza giornalistica da New York del 7 dicembre 1907: «La scossa tremenda fu avvertita per un raggio di dieci chilometri: tutti gli edifici circostanti alle miniere furono distrutti. Senza dubbio una gran parte degli operai morirono all’istante. In causa dell’enorme esplosione, la terra parve scossa da una legione di Titani, con una violenza mai raggiunta da alcun terremoto».

Il più grave disastro che si ricordi nella storia delle miniere americane non era però un caso isolato.

In un approfondimento del 20 dicembre 1907, fra le motivazioni del numero altissimo di incidenti, il Corriere della Sera segnalò «la mancanza di regolamenti precisi per le miniere, e in parte anche il fatto che viene adoperato ogni genere di esplosivi senza preoccuparsi dei pericoli che presentano i gas che si producono all’interno dei pozzi. Spesso la mancanza di una buona ventilazione rende il rischio anche maggiore».


Fra le ipotesi sull’origine dell’ecatombe di Monongah, c’era proprio la scelta dell’impresa di fermare in un giorno festivo, dedicato dai minatori alla patrona Santa Barbara, i ventilatori per risparmiare energia con la conseguenza di aver fatto accumulare gas e dunque favorito l’esplosione.

Non ci fu giustizia con una predeterminata rimozione politica e sociale, durata decenni anche da parte dell’Italia, di una tragedia a lungo restata senza nomi e identità. È stata una vicenda insabbiata mica male.

Il sacerdote cattolico statunitense Everett Francis Briggs, parroco della Chiesa di Nostra Signora del Rosario di Pompei a Monongah, scomparso nel 2006 all’età di 98 anni, ha speso l’intera esistenza nella ricerca della verità e nell’esercizio della memoria. Briggs portò avanti un lavoro faticoso di identificazione dei morti e di valorizzazione della loro storia. All’inizio degli anni Sessanta sulla rivista Science iniziò a dare la reale misura della strage, convinto che le vittime fossero oltre cinquecento. Il 31 maggio 2004 l’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, che durante un viaggio negli Stati Uniti compiuto nel 2003 rievocò il sacrificio dei migranti, conferì a Briggs l’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine della Stella della Solidarietà Italiana.

Sul luogo dell’ecatombe una targa commemorativa recita: «Il 6 dicembre del 1907, 361 minatori, molti dei quali avevano attraversato il mare provenienti da paesi lontani, perirono sotto queste colline nel peggior disastro minerario della nostra nazione. I quattro sopravvissuti morirono a causa delle ferite».