giovedì 24 novembre 2016

La Germania e il 1989, Eravamo dei grandissimi: intervista a Clemens Meyer


di Gabriele Santoro

ai Piero

La Repubblica Democratica Tedesca non esiste più. I ragazzi non hanno più una storia sulla quale costruirsi e ballano furenti sulle macerie dello Stato. La misura e lo stile di Clemens Meyer, lo scrittore tedesco più in essere della generazione post 1989, si colgono anche dallo sguardo e dalla fermezza pacata dell’eloquio.


Sotto il tono controllato della sua voce scorre un torrente di emozioni come nel romanzo d’esordio Als wir träumten (Quando sognavamo), che è appena stato pubblicato in Italia da Keller col titolo Eravamo dei grandissimi (608 pagine, traduzione curata da Roberta Gado e Riccardo Cravero, 19 euro). Il linguaggio non straripa mai, è chiaro, si muove sotto la superficie senza essere necessariamente esplicito e in molti passaggi commuove.

Lui, ragazzo del 1977, aveva ventidue anni quando lo ha cominciato a scrivere senza alcuna esperienza precedente in materia. Per due anni e mezzo dopo la scuola, diplomatosi nel 1996, ha scelto di fare l’operaio in cantieri edili. Ha smesso a causa di un infortunio alla schiena. Il padre, che disponeva di un’immensa libreria a casa, gli ha trasmesso la passione per la letteratura. Meyer, tatuato sulla maggior parte del corpo, poi è riuscito ad accedere al German Literature Institute di Lipsia, presentando alcuni scritti.

Apparso in Germania nel 2006, il libro continua a essere tradotto, l’anno scorso con successo nell’edizione francese. La traduttrice Roberta Gado, che ha diviso il lavoro con Cravero, lo definisce un classico contemporaneo. Meyer una volta ha detto: «Non sarei quello che sono, se non fossi cresciuto come un figlio della strada, usando un’espressione un po’ melodrammatica. Lì è dove ho appreso la cifra stilistica della mia scrittura. I miei amici giù al pub mi riconoscevano come un racconta storie».

Il prologo di Eravamo dei grandissimi dà il ritmo, il segno e l’impronta della sua prosa letteraria. I bambini giocano con la Storia, cercano piuttosto di sopravviverle con l’immaginazione: «So una filastrocca. La canticchio tra me e me quando la testa comincia a giocarmi strani scherzi. Credo che la cantassimo da bambini saltellando da un rettangolo di gesso all’altro, ma può essere che me la sia inventata o l’abbia soltanto sognata. Certe volte la recito in silenzio, solo muovendo le labbra, altre mi metto a canticchiarla e nemmeno me ne accorgo perché mi ballano in testa i ricordi, no, non dei ricordi qualsiasi, ma quelli dopo la magnifica caduta del Muro, degli anni in cui siamo, come dire? Venuti in contatto».

La violenza propria di un terremoto politico e sociale, così necessariamente presente nel testo, non riesce tuttavia a uccidere la dimensione del sogno, l’unico argine alla sconfitta. Dopo la Svolta del 1989 Daniel, Mark, Paul e Rico, un gruppo di amici indissolubile, cresciuti come “pionieri” nella Germania dell’Est scorrazzano a Lipsia: furti di auto, risse, alcol; hanno una rabbia senza controllo. L’unico rifugio in un mondo ormai del tutto estraneo appare il monolocale di una signora anziana con la quale maneggiano il peso della solitudine. Che cosa resta dei sogni e delle illusioni amplificate dal miraggio dell’Ovest così distante?

L’azione si svolge alla periferia di Lipsia, in un contesto architettonico paleoindustriale, nell’est della città stessa che l’autore fa rivivere con la letteratura. La frammentarietà dei personaggi si rispecchia nella frammentarietà della struttura del romanzo, una serie di capitoli non in ordine cronologico ben connessi dalla tensione e bravura nel montaggio. Le avventure di questi cinque ragazzi, generazione 1976, si alternano tra scene dell’infanzia, quando frequentavano la scuola elementare, fino al raggiungimento della maggiore età. Crolla il regno dell’infanzia, essi si frantumano con la Svolta, assorbiti nel vortice degli ultimi colpi di coda del socialismo e di una libertà fittizia incondizionata di cui non sanno cosa farsene.

Meyer fa i conti con la violenza psichica e fisica deflagrata nella terra di nessuno, a cavallo della riunificazione e poi nel vuoto di senso post Ottantanove. Tutto viene narrato dal punto di vista di questi giovani ed è un coro di voci prive, non intrise di sentimentalismo e ideologia. I bambini non sono prigionieri della consapevolezza di quel che vivono, non sono anestetizzati e ciò assicura la potenza del lavoro, che contiene ampi tratti autobiografici di Meyer. Dalla periferia giungono al cuore della Storia, che però non comprendono, se non molti anni più tardi, pagando le conseguenze sulla propria pelle.


Meyer, il suo romanzo sembra esprimere l’urgenza di ricomporre mediante la scrittura la tensione tra l’Io e il Noi.
«Sì, senz’altro anche se almeno all’inizio avviene a livello inconscio. Creo una storia, poi però mentre la scrivo mi accorgo che non appartiene solo a me. Racconto una storia che riguarda dei processi e dunque tutta la società. L’energia e il furore dei personaggi, che la buona letteratura riesce a codificare e tradurre, trasformano il materiale in qualcosa di molto più interessante di uno studio sociologico. Non volevo però narrare la storia di una generazione perduta. Divento sospettoso quando le persone parlano del noi, in fondo moriamo da soli. I personaggi sono individualisti, un po’ come me, e vanno controcorrente».

Lei non può rinunciare alla concretezza dell’esperienza, verrebbe meno questo libro che ci solleva dalla morale. In che modo ha costruito l’equilibrio tra osservazione e immaginazione?
«È una miscela abbastanza difficile da scandagliare e identificare anche per sé stessi. Certamente mi muovo da un’idea, da un nocciolo della storia che deve essere solido. In questo caso consiste nell’amicizia di cinque ragazzi che si sviluppa negli anni prima e dopo la riunificazione tedesca. A partire da qui compongo e invento altri personaggi secondari e storie parallele. La materia prima è tratta dalla società in cui vivo e che conosco».

Quanto si affida alla memoria?
«È quasi tutto un lavoro fondato integralmente sulla memoria. Nei miei due romanzi più importanti l’ho utilizzata in modo diverso. Nell’ultimo ho svolto molto lavoro di ricerca, raccogliendo  memorialistica: articoli di giornali, libri, riviste, appunti. E da questa grande massa di ricordi scritti,  materiale di archivio ho elaborato la storia. Mentre nel caso di Eravamo dei grandissimi ho focalizzato il lavoro sui ricordi che avevo nella mia testa senza ricerche particolari, perché era proprio un periodo vissuto in prima persona. Poi mescolo gli elementi della realtà con l’invenzione, soprattutto con elementi surreali per ottenere l’effetto di far muovere i personaggi, che disconoscono un mondo ormai estraneo, in un sottobosco parallelo della realtà».

Il tempo della grande Storia come si tiene insieme a quello dell’infanzia e dell’adolescenza?
«È questo il segreto del libro: riuscire ad agganciare la storia con la lettera maiuscola, gli eventi di un cambiamento epocale, quali la caduta del sistema socialista e del blocco occidentale, insieme a un altro periodo, appositamente scelto, di svolta cruciale e di mutazione per l’esistenza individuale qual è la pubertà. C’è il cambiamento proiettato verso l’età adulta, in cui però senti che la terra sotto ai tuoi piedi è sconquassata da una scossa tellurica, che ancora oggi non ha assestato la Germania, e la storia della tua infanzia sparisce. Mi interessava proprio la prospettiva di questi due cambiamenti montati insieme, il che cosa accade quando si sgretola completamente il tuo passato. Il terzo elemento è stato la necessità di mostrare gli accadimenti con gli occhi di chi, come me, era ancora giovane».

La pellicola As we were dreaming, che si ispira al romanzo ed è stata in concorso nella scorsa edizione della Berlinale, indugia sulla violenza calcando sulla tenerezza del legame che unisce la banda di amici. Ha apprezzato la trasposizione cinematografica?
«Non ho contribuito tecnicamente alla stesura della sceneggiatura. Conoscevo e mi fidavo del regista Andreas Dresen, ed ero contento che il cinema procurasse nuovi lettori. Ho svolto una funzione di consulente, mi interpellavano quando avevano dubbi. Durante le riprese stavo scrivendo il romanzo Im Stein e non avevo molto tempo a disposizione. Le considero due cose proprio diverse, un po’ come la traduzione. È una traduzione in un altro linguaggio artistico che utilizza mezzi differenti. Ci sono delle scene in cui trovo che lo spirito del libro sia molto ben colto, in altre meno però riesco a vederlo con neutralità, con un certo distacco. Anche se il film non dovesse piacermi ha importanza relativa, perché il libro continua a esistere con la propria indipendenza».

Nel romanzo c’è qualcosa di cinematografico, fa pensare per esempio a Rocco e i suoi fratelli.
«Amo i film di Luchino Visconti. Mi ha ispirato in ragione del suo epos. Nella pellicola non si tratta di amici ma di fratelli, tuttavia si vede lo sgretolamento dei loro rapporti, il tradimento quando un fratello violenta la fidanzata dell’altro e anche qui è una storia raccontata attraverso tanti anni. Si presenta un contesto sociale marginale, dove questa gente cerca lavoro e insegue i propri sogni. Ecco, mi sono ispirato al film nella ricerca della modalità narrativa di queste grandi storie di epos, combinando le emozioni con il distacco necessario».

La Repubblica Democratica Tedesca è stata narrata essenzialmente come uno Stato marcio, antieconomico, arretrato e dittatoriale. Perché la connessione sentimentale con quell’epoca è invece tenuta ancora viva?
«Lo Stato dell’ex Germania dell’Est è durato quarant’anni. In un tempo così relativamente lungo si intrecciano tantissime storie di vita, che la popolazione non può cancellare. In un paese dittatoriale, o appunto marcio, non si smette di vivere. La RDT è stata una parte essenziale della vita di milioni di persone, a prescindere dall’atteggiamento che avevano nei confronti della politica. Alcuni non sono riusciti a trovare un equilibrio, altri si sono adeguati o hanno ignorato i temi cruciali però sicuramente è un nodo complesso che non si è sciolto. A Est si sognava. È importante non presentare la storia da un unico punto di vista, ce ne sono diversi. Pensiamo per esempio alla produzione letteraria, nata nell’ambiente della RDT, che tutt’oggi conserva il proprio valore».

Che cosa rappresentano il sentimento dell’Ostalgie, la nostalgia dell’Est, e il culto dell’oggettistica della quotidianità?
«Sostanzialmente sono dei relitti che ricordano un tempo, quello dell’infanzia, che vista la questione generazionale è un po’ come la madeleine di Proust. Risvegliano un ricordo. È evidente che nel caso della RDT siccome è scomparso tutto, l’architettura, la politica quanto le abitudini, ciò che resta sono frammenti ai quali ci si attacca pur nella felicità che molte cose siano cambiate. Il fenomeno commerciale dell’Ostalgie personalmente invece non mi interessa affatto».

Colpiva un sondaggio ampio, pubblicato in occasione del ventesimo anniversario della caduta del Muro, secondo il quale meno del 40% degli abitanti a est erano soddisfatti degli effetti della riunificazione. Lamentavano soprattutto il venir meno del valore della solidarietà. Nelle recenti elezioni regionali, proprio nel collegio elettorale di Merkel, i populisti dell’Afd hanno superato la Cdu con un’erosione significativa dei voti della Spd e un crollo della Linke. Perché non sono stati sufficienti i due miliardi di euro confluiti dall’ovest all’est per la ricostruzione?
«Questo sentimento varia in base al contesto geografico a cui ci si riferisce. Nei nuclei urbani soprattutto a Lipsia, in parte anche a Dresda, non è più così, invece nella zona provinciale l’insoddisfazione risulta dominante. Dipende molto dalla situazione economica finanziaria attuale regionale. È certo che i cittadini dell’est non hanno mai visto la necessità di mostrare gratitudine o peggio riverenza. La posizione è chiara: il Muro l’hanno fatto cadere loro con l’esigenza di cambiamento. Non è stato l’ovest ad abbatterlo. In ogni modo è altrettanto sicuro che non sono soddisfatti di come poi siano andate le cose; permane quella sensazione di essere trattati come cittadini di seconda categoria. Non basta che la Cancelliera sia Angela Merkel, figlia di una provincia, il Meclemburgo Pomerania Anteriore, tra le più povere a est. Ci vorranno ancora molti anni, cinquanta probabilmente, affinché questi eventi non siano più tema, oggetto di discussione. Quelli della mia generazione da anziani forse ne saranno usciti».

Abandoned after the Wende, this factory in the Leipzig district of Anger-Crottendorf was  typical of the early 20th c. industrial infrastructure which still formed the backbone of the GDR’s economy
Palast Theatre è forse il capitolo più bello e struggente del libro. A Lipsia quasi tutti frequentavano e amavano quel cinema, poi bruciato dopo la riunificazione. Dall’insegna crolla la L e diventa Paast Theatre, cinema del passato. A Daniel non resta che l’immaginazione per salvare dall’eroina l’amico Mark.
«Questa sala cinematografica esisteva veramente, oggi è stata distrutta. È stato uno degli ultimi capitoli del libro che ho scritto, avevo almeno già 400 pagine che mi hanno dato la forza. Sapevo che sarebbe stato un capitolo importante da affrontare. Mark è l’amico a cui è dedicato il libro. Questo capitolo è costruito con un passaggio continuo tra presente e passato, tra loro bambini al cinema e poi ragazzi nello stesso luogo a fronteggiare la questione della dipendenza dall’eroina. Ho impiegato molto tempo a trovare il tono giusto per l’argomento. La tragicità del fatto è che questa scena rappresenta l’ultimo tentativo. Daniel per l’ultima volta prova a convincere Mark a tornare in ospedale e lo fa con uno strumento particolare che è la forza dell’immaginazione, richiamando i ricordi e sperando che questo lo aiuti. A prescindere dalla ambientazione c’è questa amicizia, la solidarietà che sopravvive al crollo di un’infanzia chiamata RDT».

Che cosa sognavano i ragazzi?
«Sognavamo una nuova società e con essa una vita nuova. Sognavi una società senza classi, ma anche un’amicizia che durasse all’infinito o l’amore che tutti aspettavano. È un miscuglio tra sogni piccoli e grandissimi. Non mi interessano tanto i fatti storiografici, quanto gli sguardi di questi bambini con ricordi diversi rispetto a quelli dei propri genitori, nonostante la realtà sia stata la stessa».

Nella Repubblica Democratica Tedesca l’abuso di alcol era conclamato. L’arrivo devastante delle sostanze stupefacenti in seguito alla riunificazione quale vuoto ha colmato?
«Sì, sul fronte dell’alcolismo in grande stile non si temeva molta concorrenza. Non era così diffusa però la prostituzione ed era inesistente il mercato della droga. Il fenomeno d’importazione della tossicodipendenza ha preso il sopravvento a causa dell’inesperienza, della scarsa conoscenza antecedente al 1989. Molti volevano provare, come quando si instilla e induce al consumo di un prodotto nuovo. La polizia era del tutto impreparata. In poco tempo ci siamo trovati inermi davanti a un problema fatale. La droga è l’elemento determinante per lo sgretolamento del gruppo di amici».

Il Muro a Lipsia non era una realtà fisica, Berlino abbastanza lontana. Che cosa significa tuttora però per voi quell’immagine?
«Ne sentivamo parlare da bambini. Una volta andai a vederlo, ma non era per me un punto di riferimento, ciononostante è rimasto un elemento per almeno 25 anni. A ogni modo non è stato il primo muro della storia, è un simbolo del fatto che all’uomo piace costruire un confine difensivo intorno a sé; lo fecero già i romani con il limes e si continuerà a erigerli. Oggi per le migrazioni, seppure siano incontenibili, ma in fondo le motivazioni sono le stesse di sempre. Anche allora c’era la paura del selvaggio, dell’estraneo. Il problema consiste nello spostamento del confine del benessere sempre più tecnologizzato».

Lei utilizza un telefono mobile, che al primo sguardo definiremmo obsoleto, privo di connessione Internet. E si limita alla posta elettronica. Perché?
«È come se oggi spegnessimo i ricordi. Nessuno fa affidamento alla propria memoria, navighi semplicemente in internet e guardi lì che cosa è successo. Quando ho scritto il romanzo non avevo la Rete a casa, per me non esisteva ed è stato un vantaggio prezioso. Per me stesso cerco di creare un contro movimento: quello di limitare l’utilizzo di Internet, dunque ho scelto di utilizzare un cellulare che non è uno smartphone. Penso che ci sia posto per 17 sms e basta. È come se mi rifiutassi, perché non c’è proprio più posto per i sogni e per le leggende».

mercoledì 23 novembre 2016

Roma punta su Più libri più liberi nella nuova geografia dei festival

Il Messaggero, sezione Tutta Roma Agenda pag. 58-59
23 novembre 2016

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

La Fiera nazionale della piccola e media editoria, Più libri più liberi, compie quindici anni e si appresta a cambiare sede. Dal 7 all'11 dicembre si terrà probabilmente per l'ultima volta presso il Palazzo dei Congressi, per poi trasferirsi l'anno prossimo al non distante Nuovo Centro Congressi, noto come la Nuvola di Fuksas. 

L'Associazione italiana editori definisce la quindicesima come l'edizione più bella. Il titolo della manifestazione è Sono tutte storie e si caratterizzerà con la consueta miscela di autori noti al grande pubblico come Camilleri e altri da scoprire, come l'interessantissimo Alain Mabanckou, tra i più influenti scrittori africani post colonialisti, lui il primo africano a entrare in qualità di insegnante al Collège de France. Il budget della rassegna tocca circa il milione e duecentomila euro, così ripartiti: 560mila da ricavi propri (affitto stand, ristorazione etc); 185mila tra Comune di Roma e Regione Lazio; 215mila dall'Aie che promuove la tre giorni; 100mila dall'Unione Europea. La quota restante giunge dall'affaire della fusione Mondadori-Rcs. Nel passaggio di Rcs Libri a Mondadori per 127,1 milioni di euro, l'Antitrust aveva deliberato un provvedimento che tra le misure correttive prevede il finanziamento economico di 225.000 euro per l'organizzazione e la gestione di Più libri più liberi nelle prossime tre edizioni.

Con le parole di Federico Motta, milanese, sessantenne, presidente dell'Aie, background familiare e una vita spesa nel campo dell'editoria, Roma consolida il proprio ruolo nella rinnovata geografia dei festival letterari nazionali con un evento unico anche nel panorama europeo, quasi a ricomporre la frattura interna all'associazione prodotta dalla nascita della fiera dell'editoria italiana Tempo di libri a Milano. Durante la tre giorni romana si confronteranno sul tema i due nuovi direttori Chiara Valerio, responsabile della rassegna milanese, e Nicola Lagioia, al vertice del Salone internazionale del libro di Torino giunto al trentesimo anno di attività, che ha appena comunicato la squadra per il nuovo corso e incassato, prima della presentazione ufficiale del programma, la partecipazione di Feltrinelli. Ricordiamo che la cosiddetta piccola e media editoria in Italia produce il 47% dei libri pubblicati, a fronte del 30% di quota di mercato.

«Più libri più liberi è un fenomeno sul quale vogliamo investire sempre di più, massicciamente – ha dichiarato Motta – . Roma è la casa di questa manifestazione, che senza questa città non esisterebbe. Vogliamo assolutamente che qui venga radicato un concetto di editoria che non è grande, piccola o media ma indipendente, perché l'editoria italiana si deve fondare su un uditorio indipendente. Vorremmo andare l'anno prossimo in un posto nuovo nella città, conservando l'anima del luogo precedente». 

Più libri più liberi, che coinvolgerà altri luoghi col contributo delle Biblioteche di Roma e del format Fuori fiera, sarà inaugurata dal romanziere, drammaturgo e sceneggiatore anglo-pakistano Hanif Kureishi, che si è imposto sulla scena negli anni Novanta con l'opera prima Il Budda delle periferie. Dall'estero arrivano o tornano voci come Valeria Luiselli, Dany Laferrière, Mircea Cartarescu, Marc Augé, il lusitano Gonçalo M. Tavares, particolarmente amato da Saramago e appena pubblicato in Italia, le narratrici scandinave Lena Andersson e Laura Lindstedt. L'ex militare britannico in Afghanistan Harry Parker illustrerà il suo potente romanzo d'esordio, Anatomia di un soldato.

Il gruppo degli ospiti italiani oltre a Camilleri, Lagioia e Valerio comprenderà: Erri De Luca, Paolo Di Paolo, Antonio Manzini, Michela Murgia, Valeria Parrella, Antonio Pennacchi. Ci saranno poi Nanni Moretti, impegnato in un reading da Caro Michele di Natalia Ginzburg, Vinicio Capossela, Ascanio Celestini, Pif e Luca Carboni. C'è la novità di Più libri più fotografie, un ciclo fotografico organizzato da Contrasto con quattro grandi interpreti internazionali: l'americano Zackary Canepari, Giulio Piscitelli e Ferdinando Scianna, la fotogiornalista polacca Monika Bulaj. Appuntamento ormai inderogabile è quello col graphic novel d'autore dove spiccano Gipi, Paco Roca e Zerocalcare.

domenica 20 novembre 2016

Jonah Lomu, il figlio del vento che cambiò il rugby

Il Messaggero, sezione Macro, pag. 20
20 novembre 2016

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

All'inizio del 1989 l'uragano nero, quando varcò per la prima volta la soglia dell'ufficio di Chris Grinter, non era altro che un tredicenne, uno dei tanti ragazzini di strada dal sobborgo Greenlane, nella parte sud di Auckland, la città più popolosa della Nuova Zelanda. «Forse era fisicamente un po' più grande dei suoi coetanei, ma la sua futura magnificenza e abilità atletica non apparivano ovvie», ha raccontato l'allenatore del Wesley College. Nei cinque anni successivi Jonah Lomu, ala classe 1975, ha colto di sorpresa il mondo e ha cambiato il gioco con la palla ovale, divenendone la prima icona globale.


Nel 1995 Nelson Mandela tentava di ridisegnare le linee di confine e infrangere le convenzioni anche nel rugby, disciplina ad appannaggio dei bianchi, tenendo però insieme il Sudafrica. E c'era una Coppa del mondo per mostrare la reificazione dell'idea di un paese oltre la lacerazione dell'apartheid. Laurie Main, l'allenatore degli All Blacks, la selezione nazionale, si accorse di quel talento che inanellava record di velocità e lo scatto fu breve: «Nel 1994 sapevamo che c'era un potenziale straordinario in Lomu per realizzare qualcosa di spettacolare e inatteso già nella Coppa del mondo del 1995». L'ultima domenica del mese di giugno 1994 a Christchurch, Lomu, appena diciannovenne, divenne l'All Black numero 941.

Marco Pastonesi, giornalista e scrittore, non ha mai nascosto la propria predilezione per i gregari. Ora con L'uragano nero. Vita, morte e mete di un All black (66thand2nd,185 pagine, 18 euro) torna a misurarsi con un uomo dall'esistenza più larga della vita e, seguendo i passi dell'anima del campione scomparso nel 2015, ci guida in tanti luoghi italiani del rugby.

Un italiano, Vittorio Munari, cacciatore di talenti per il Petrarca Padova, rimase subito abbagliato dal giovanissimo Lomu. Era bello come Cassius Clay, al quale verrà simbolicamente associato per l'impatto mediatico, all'Olimpiade di Roma nel Sessanta: centodiciotto chili senza un'oncia di grasso, sempre pronto, seppure di carattere riservato. Il rugby l'aveva conosciuto sulla strada, dove mitigava il dolore di una famiglia segnata dalla violenza paterna.

Pastonesi ci ricorda che il rugby è forza, non violenza, e questo sport tirò fuori dai guai l'adolescente Lomu, invischiato in pessime compagnie. La madre lo iscrisse al Wesley College, che dal 1884 ha accolto e formato studenti fondamentali per la storia degli All Blacks. Nessuno come lui era in grado di abbinare quella velocità a quella stazza. Da studente fermò a 10”89 il tempo sui centro metri piani: un figlio del vento che distruggeva i placcaggi.

Venticinque passi, tre placcaggi evitati, sette secondi di tempo per la meta più celebrata: così in Sudafrica, durante la semifinale mondiale contro l'Inghilterra, e nonostante la sconfitta in finale contro gli organizzatori del torneo, Lomu assurse al ruolo di icona nella cultura di massa. La storia di Jonah abbaglia per come ha resistito già dal 1996 alle rovine, alla malattia: sindrome nefrosica. Prima e dopo il trapianto di rene è stata questione di andate e ritorni coraggiosi sul campo. Gioca, risorge, per poi doversi arrendere. Muore poco più che quarantenne.

C'è una bella fotografia, scattata nel 1994. Lomu, nello spogliatoio di Christchurch, stringe la prima maglia All Black della sua carriera e sembra assorto in preghiera. Il rugby è un elemento culturale inscindibile dalla nazione neozelandese, sono cresciute insieme, in una relazione del tutto particolare con i colonizzatori, gli inglesi.

venerdì 18 novembre 2016

Dal Congresso alle primarie democratiche, storia di Shirley Chisholm


Pubblichiamo la seconda parte del pezzo che racconta la storia di Shirley Chisholm. Qui la prima puntata: buona lettura.

di Gabriele Santoro

Si trattava di una svolta epocale. Da quella vittoria nacque la Bedford Stuyvesant Political League che segnerà l’ascesa di Shirley. La novità costituita da quella giovane attivista instancabile, che sapeva parlare non alla gente ma con la gente, attivò i meccanismi di assimilazione della politica quando si trova spiazzata, quando deve gestire una mina vagante. L’esigenza di rompere gli schemi condusse Shirley, ribelle con fiuto politico, anche a dolorose rotture. Non esitò ad affrontare il mentore Holder per la leadership della BSPL, confermando che non faceva difetto alla voce determinazione, e perse.

Rosa Parks con Shirley Chisholm
Nell’inverno del 1960 Shirley rientrò ufficialmente nell’ambiente politico di Brooklyn. Con altre sei persone formò una nuova organizzazione interrazziale The Unity Democratic Club. Tra le missioni spiccava l’educazione della cittadinanza al processo politico, occorreva spiegare quanto incidesse sulle loro vite, spingendo le persone a registrarsi e a votare. Crearono qualcosa di più di una base elettorale solida. Nel quartiere lentamente si modificava l’equilibrio del potere elettorale. Dopo Flagg, Shirley conquistò un altro segnale storico del cambiamento con l’elezione di quattro neri fra i ventidue membri del County Committee, noto come Kings County a Brooklyn, il livello più locale della governance del partito democratico a New York.

Chisholm era convinta che negli anni Sessanta le sfide poste nel decennio precedente al segregazionismo avrebbero proseguito a scuotere il paese. Aderì all’atto fondativo del movimento femminista National Organization for Women. Nel 1954 la sentenza della Corte Suprema sul caso Brown versus Board of Education of Topeka, che dichiarava incostituzionale la segregazione scolastica, aveva riacceso la lotta. Il primo febbraio del ’60 quattro giovani afroamericani, violando le leggi del Sud razzista, si sedettero per consumare il pranzo al Woolworth’s Store a Greensboro e rifiutarono di andarsene, prima di essere serviti come il cliente bianco. L’esempio che diede coraggio alla moltitudine degli oppressi nel nome di Emmett Till. Rosa Parks aveva già detto di essere stanca di cedere il posto e guardava lontano fuori dal finestrino.

La nonna di Ella Baker da schiava non aveva accettato di sposare l’uomo scelto dal padrone. La nipote è stata una delle principali protagoniste della battaglia contro la legislazione Jim Crow nel profondo Sud: «Occorreva far comprendere alle persone che avevano un potere da utilizzare nel solo caso in cui avrebbero preso coscienza di quel che stava avvenendo e che i gruppi di azione, la collettività era in grado di controbattere alla violenza», diceva Ella. Milioni di americani ispirati dalla militanza politica degli attivisti per i diritti civili credettero che le iniziative collettive potessero aprire le porte esclusive dei club politici e influenzarne l’agenda. La mobilitazione di massa, combinata alla disobbedienza civile, assumeva un’importanza indissociabile dalla presenza al voto e dalla candidatura dei neri. La lotta per i diritti civili al Nord, specialmente a Brooklyn, era abbastanza diversa dal Sud. La popolazione nera di Brooklyn pativa la segregazione de facto, che incideva dal lavoro al diritto all’abitare, con l’esclusione dalla rappresentanza politica, ma non sperimentava la brutalità dello stato di apartheid, violenza e morte del Sud.

Nel 1964 la disponibilità di un posto presso la Corte Civile di Brooklyn spinse Shirley al grande balzo. L’avvocato Tom Jones, dopo un mandato nell’Assemblea dello Stato di Nyc ad Albany, decise di correre come giudice. Dopo una lunga e fruttuosa gavetta decennale Shirley non diede attenzione a voci ostili o contrarie e si candidò senza riserve per quel seggio lasciato vacante. Shirley autofinanziò, 4mila dollari in totale, una durissima campagna elettorale estiva strada per strada con un messaggio chiave: voglio servire la mia comunità da dove si giostra il comando. Shirley vinse, raccogliendo 18151 voti, con un margine ampio nella corsa a tre contro il candidato liberale e quello repubblicano. Il 1964 fu uno spartiacque per lo Stato di New York e non solo: eletta Chisholm, il reverendo Martin Luther King Jr vinceva il Nobel.

In realtà dietro alla vittoria ad Albany c’è anche un uomo. Andrew Cooper lasciò un segno permanente nel panorama politico locale e nazionale, intentando una causa per la ridefinizione dei confini dei distretti elettorali di Brooklyn. La sua causa come altre (Baker v. Can; Reynolds v. Sims) tra il 1962 e il 1964 affrontarono il nodo della natura geopolitica della rappresentanza congressuale. L’impatto di queste sentenze e la conseguente redistribuzione incrementarono la rilevanza e il potere politico delle aree urbane. A Brooklyn la causa Cooper v. Power produsse la creazione del New York Twelfth Congressional District che nel 1968 elesse Chisholm al Congresso.

Fu stretto il rapporto di Chisholm con il senatore dello Stato di New York, Robert Francis Kennedy. Un prodotto di quella politica è stato ed è la Bedford-Stuyvesant Restoration Corporation, il primo modello di associazione no profit negli Stati Uniti, che a dicembre compirà quarant’anni di attività, per lo sviluppo di una comunità, per migliorare le condizioni di vita e le opportunità di occupazione in quell’area depressa di Brooklyn.

Shirley continuerà sempre a danzare dentro e fuori dal sistema. L’ampia base elettorale e il consenso costruito nel tempo le consentivano di non subire le ritorsioni, l’esclusione riservata a chi non si allineava al partito. Essere dissidente non comportava alcuna deroga al ruolo legislativo. All’assemblea di Albany presentò cinquanta progetti di legge, otto quelli approvati: un numero sopra la media.

A quarantacinque anni dal primo progetto di legge sul tema, firmato Chisholm, la categoria professionale dei lavoratori e delle lavoratrici domestiche nello Stato di New York ha conquistato il Domestic Workers Bill of Rights, che nel contesto giuridico del New York State Human Rights Law mette nero su bianco le tutele invocate da Chisholm. I programmi del suo Seek (Search for Education, Elevation, Knowledge) sono componenti integranti della vita accademica della City University of New York e della State University of Nyc. Sempre vigile sulle materie di propria competenza, la scuola su tutte, si segnalò per un’accesa battaglia contraria al finanziamento statale delle scuole private. Shirley si spese invano per un progetto di legge, che mantiene la propria attualità. Voleva rendere obbligatorio per diventare poliziotti la frequenza accademica di corsi sui diritti e sulle libertà civili per una cultura del rispetto delle minoranze e dei rapporti interrazziali.

Fino alla metà degli anni Sessanta a New York la mappa elettorale per il Congresso privava dell’efficacia il diritto di voto delle minoranze. La sentenza della Corte Suprema, che decretò che i distretti fossero di eguale misura, compatti e contigui senza dividere e disperdere il voto nero, consentì a Chisholm di immaginare la strada verso Washington.


Superate le ruggini, ottenne il sostegno indispensabile del mentore Holder, mancò invece quello di Kennedy, propenso al contendente Thompson. Nel 1968 vedevano a portata di mano un traguardo storico. Furono dieci mesi di campagna elettorale durissima trascorsa a raccontare la storia di una giovane donna figlia di immigrati, emigrata a propria volta, che aveva deciso di sfidare e battere intanto il proprio grande partito. Shirley coniò lo slogan: «Fighting Shirley Chisholm – Unbought and Unbossed». Un manifesto vincente per dire due cose essenziali: il mio voto non è in vendita e più in profondità sono emancipata dalla schiavitù e dal colonialismo; sono una donna forte che non si fa comandare tanto a casa quanto nell’organizzazione politica.

Dopo la vittoria alle primarie Shirley si sentì male. O è incinta o è un cancro, sentenziò il medico alla prima visita. La biopsia scongiurò la malignità del fibroma. Dopo l’intervento riuscito e il decorso post operatorio tornò a casa emaciata, ma decisa a riprendere la strada: «Questa è la combattente Shirley Chisholm. Sono in piedi, in giro, a dispetto dei mormorii della gente».

La questione di genere fu utilizzata dagli avversari, mentre lei non caratterizzò la propria campagna congressuale in chiave femminista. Holder studiò a fondo l’elettorato e un dato deponeva a loro netto favore: per ogni uomo registrato nelle liste del distretto c’erano 2.5 donne, era il tallone d’Achille dei repubblicani. Nel quartiere le famiglie, le case erano guidate soprattutto dalle donne che si registrarono in massa per votare. Erano attive nei club politici, dunque occorreva coinvolgerle, fare rete. Un fattore determinante ignorato dagli avversari. «Le donne sono considerate cittadine di seconda classe come i neri. Una quantità immensa di talenti è sprecata dalla nostra società solo perché quel talento indossa una gonna. Voglio che giunga il tempo nel quale non vedremo più le differenze in base al sesso e al colore della pelle. La discriminazione contro le donne in politica è particolarmente ingiusta, perché non ho visto nessuna organizzazione funzionare senza di loro. Per anni sono rimasta dietro le quinte e ho lavorato per piazzare gli uomini negli uffici politici, scrivendo i loro discorsi e suggerendo come rispondere alle domande».

Il contendente, un afroamericano da Harlem, Farmer, era un leader del movimento per i diritti civili dalla comprovata qualità oratoria, che non tentennò nello scaricare Nixon inviso ai neri di Brooklyn, annunciando il voto per Hubert Humphrey. Farmer ricevette l’endorsement da celebrità quali Nina Simone. Le due candidature erano il segno dei tempi, travolti però in quel cruciale 1968 dalla violenza assassina che fece ripiegare il Paese. La campagna di Farmer, sposato con una donna bianca, si distinse per il maschilismo, ma non era una novità. Le donne erano marginalizzate anche dentro al movimento per i diritti civili. Nella grande marcia dell’agosto 1963 a Washington, Dorothy Height, al vertice del National Council of Negro Women, fu l’unica fra i leader delle maggiori organizzazioni a non parlare dal palco.

Nei dibattiti e confronti diretti Chisholm sbaragliò Farmer tanto quanto nelle urne: 34.885 voti a 13.777. Un trionfo che le diede la ribalta nazionale e le prime pagine dei giornali, ormai era bombardata dalle richieste di interviste. È interessantissimo in questo senso il lavoro di analisi sui media di Erika Falk: Women fot President, Media Bias in Eight Campaigns. Chisholm era spesso etichettata dalla stampa con lo stereotipo della femminista arrabbiata.

Shirley si è sempre presentata in anticipo sulla Storia. All’apertura della novantunesima sessione del Congresso degli Stati Uniti arrivò invece con un po’ di ritardo e infranse una delle tradizioni venerate della casa, prima di procedere al giuramento, entrando con il cappotto e il cappello ancora indosso. I deputati le chiedevano: «Che cosa ne pensa tuo marito dell’elezione?».

Non allestì uno staff personale all black, misurando invece la scelta sulla competenza, l’esperienza e la lealtà. Si distinse subito in una battaglia feroce riguardante l’assegnazione nelle commissioni. La destinarono alla Commissione agricoltura e alla subcommissione Forestale, mentre lei chiedeva quella dedicata a Educazione e lavoro. Affrontò, cosa inedita per un debuttante al Congresso, lo speaker McCormack riuscendo a variare l’indicazione iniziale. Vinse anche questa battaglia con l’insolita approvazione della stampa newyorchese. La spostarono alla Commissione per i Veterani di guerra. «Nel mio quartiere ci sono molti più reduci che alberi», commentò soddisfatta.

Continua a leggere qui...

http://lnx.66thand2nd.com/storia-di-shirley-chisholm-prima-donna-nera-eletta-al-congresso-usa/

lunedì 14 novembre 2016

Storia di Shirley Chisholm, prima donna nera eletta al Congresso degli Stati Uniti


Pubblichiamo, in due parti, un lungo ritratto di Shirley Chisholm (1924-2005), prima donna nera eletta al Congresso e candidata alle primarie del Partito democratico per le presidenziali del 1972. La nomination andò a George McGovern, che venne sconfitto da Richard Nixon, presidente uscente.

di Gabriele Santoro

«Proffy, lei dimentica due cose: sono nera e sono una donna». Al college la politica era ancora una fantasia per la giovane Shirley Anita St. Hill Chisholm, ma qualcuno aveva percepito il suo talento per la parola che si fa impegno e governo in nome della comunità.

Louis Warsoff, professore non vedente di scienza politica al Brooklyn College, è stato per Shirley il primo uomo bianco col quale la conoscenza divenne conversazione, fiducia ed empatia. Lo chiamava proffy e s’intrattenevano in lunghe discussioni: «Da lui ho imparato che in fondo non eravamo differenti, intendo noi e i bianchi». La studentessa, che eccelleva e attirò l’attenzione di Warsoff, mostrava un’urgenza: dire al mondo come stavano realmente le cose.

Dopo anni di oblio la figura di Chisholm, scomparsa nel 2005, è riemersa nel 2008, in concomitanza con la corsa alla nomination democratica per la Casa Bianca che contrapponeva Barack Obama e Hillary Clinton. Chisholm, dotata di un’intelligenza finissima e senso pratico, è stata la prima donna nera eletta al Congresso e quattro anni dopo nel 1972 la prima a competere per l’investitura tra i democratici verso la presidenza, finendo settima fra diciassette candidati col 2.7% dei 16 milioni di voti complessivi. Non amava essere ricordata per questi due primati, poiché lei coronava una vicenda collettiva, almeno sei decadi di attivismo politico di migliaia di donne a New York per la giustizia, i diritti e l’eguaglianza. Nel 1982 Chisholm, partecipe alla creazione del Congressional Black Caucus e del National Women’s Political Caucus, ufficializzò l’intenzione di non ricandidarsi al Congresso per tornare al primo amore, l’insegnamento, politica e sociologia in una scuola femminile, il college Mount Holyoke in Massachusetts. Nel 1984 e quattro anni più tardi sostenne Jesse Jackson. Bill Clinton le offrì la carica di ambasciatrice in Giamaica, ma rifiutò per motivi di salute.


Warsoff non nutriva dubbi sulle sue qualità e dopo un dibattito acceso le disse: «Shirley, devi partecipare: entra nell’arena politica». Lei restò meravigliata da quella innocenza. In molti le dicevano che aveva un potenziale al quale dare forma. Alla domanda più alta, quando l’adolescenza s’affaccia sulla vita e si inizia a scegliere, Shirley non apparve indecisa. Pensava di mettere il proprio talento al servizio della società insegnando. Voleva dedicarsi ai bambini con una convinzione precisa: non avrebbe occupato il posto dettato dall’ingiustizia sociale, dal razzismo che permeava la quotidianità.

L’educazione e la buona preparazione scolastica delle figlie sono state le priorità di Charles St. Hill e Ruby Seale. Lui, rimasto orfano quattordicenne, nativo della Guiana britannica, cresciuto tra Cuba e Barbados, dopo un’odissea arrivò nel 1923 a Brooklyn. A Barbados conobbe superficialmente lei appena adolescente. Ruby, classe 1901, da Christchurch approdò a Brooklyn l’8 marzo del 1921 a bordo della SS Pocone. L’amore maturò nella terra dell’abbondanza e lì si sposarono. Dal 1900 al 1925 più di 300mila isolani, prevalentemente da Barbados, lasciarono le proprie case per lavorare al Canale di Panama, tra loro il nonno materno di Shirley che abbandonò le piantagioni di canna da zucchero. Altri emigrarono negli anni Venti direzione Stati Uniti a causa della carestia e della perdita del raccolto nelle isole caraibiche. Il nonno guadagnò i soldi necessari affinché la figlia si pagasse un biglietto di sola andata.

Vere e proprie colonie di isolani crebbero nel ventre di New York. Nelle prime due decadi del Novecento queste ondate migratorie si sommarono a quella interna con circa due milioni di afroamericani che dal Sud si trasferirono nelle città del Nord. A Brooklyn tra il 1900 e il 1920 la popolazione nera raddoppiò, il 16% era di origine caraibica. Nel quartiere la colonia più corposa proveniva proprio da Barbados. Ruby era ancora una ragazza, Charles guadagnava la giornata. Alla nascita della primogenita Shirley, il 30 novembre 1924 a Brooklyn, si aggiunsero poi quelle di Odessa, Muriel e Selma.


Shirley si è sempre sentita una statunitense intimamente barbadiana. Dentro al corpo esile fin dall’infanzia esprimeva un’energia fuori dalla norma. La ruggente e fallace prosperità americana dei primi anni Venti non era per tutti, soprattutto non per una giovane coppia di immigrati in un agglomerato suburbano in rapido sommovimento demografico ed etnico. Charles non aveva qualifiche professionali. Lavorò come aiutante in una panetteria e poi da operaio a cottimo. Ruby non immaginava di doversi separare per sette lunghi anni dalle figlie, tuttavia la decisione sofferta non aveva alternative economiche. Ad attendere Shirley, Odessa e Muriel c’era il ritorno alla vita rurale, nella grande fattoria della nonna a Barbados.

Nel 1928 Ruby salpò con le figlie dal porto di New York destinazione Bridgetown, capitale della così soprannominata Piccola Scozia. Il viaggio a bordo della Vulcania durò nove giorni in acque particolarmente agitate. La parte materna della famiglia aveva origini scozzesi. Furono i primi abitanti ad aver spezzato le catene della schiavitù e registravano il più alto tasso di alfabetizzazione nell’area. Un popolo, quello barbadiano, luminoso, ambizioso e parsimonioso. Nelle giornate più dure Ruby e Charles non hanno messo in discussione il sogno di una casa a Brooklyn e della migliore istruzione per le nasciture.

Emily Seale, nonna dal fisico statuario e dalla voce stentorea, le attendeva alla banchina del porto di Bridgetown. La primogenita racconterà che Emily è stata una delle poche persone di cui non ha mai sfidato o messo in discussione l’autorità. L’esempio di forza e dignità di lavoratrici toste, quali erano la nonna e la zia, forgiò la sua futura coscienza politica, quanto la lotta per l’emancipazione dei barbadiani dalla schiavitù, dalle ingiuste relazioni economiche e sociali basate sulla discriminazione razziale. Fra la scuola, che osservava l’impianto della tradizione britannica ed era centrale nel sistema sociale locale, bagni in un mare cristallino e vita rurale, Shirley trascorse anni felici.

A Brooklyn invece le cose non andavano secondo i piani genitoriali. Non riuscivano a risparmiare un dollaro, travolti anche loro dal riverbero del crollo di Wall Street. Ruby, spaventata dal tempo che sottrae l’oggi in attesa del domani, alla fine del 1933 seppure le condizioni fossero ancora ai limiti della sussistenza riunì la famiglia negli Stati Uniti.

Al 110 di Liberty Avenue, un appartamento con quattro stanze senza riscaldamento esposte sulla ferrovia, a Brownsville il freddo era la sensazione dominante che turbava Shirley. Da quei giorni di smarrimento per il venire meno delle certezze isolane, piombata senza mappe mentali e fisiche nella grande città, ha rievocato sempre la paura del freddo. Nel 1934 Brownsville era il distretto a maggioranza ebraico più popoloso di Brooklyn, abitato dalla prima generazione degli esuli provenienti dal cuore dell’Europa centrale e orientale. Trent’anni dopo gli diedero l’etichetta di ghetto, che come osservava Chisholm avrebbe fatto sorridere amaramente i vecchi residenti.

A Brownsville si era radicata una storia di tolleranza razziale e religiosa. Il quartiere, che contava 200mila persone, tra il 1915 e il 1921 elesse rappresentanti socialisti alla New York State Assembly e aveva una tradizione ricca di opposizione e protesta sociale, guidata anche da una pioniera femminista come Margaret Sanger. Chisholm incarnò le urgenze che aveva respirato a Brownsville. Shirley si rifugiava al cinema e nella biblioteca pubblica. Leggere era una delle regole imposte a casa. Lei poi amava ballare, una questione d’istinto. Era la prima ad arrivare e l’ultima a lasciare la dance hall. In molti raccontano di non aver mai visto nessuno muoversi come lei, quasi a volersi liberare da una disciplina austera, ferrea con poche concessioni che i genitori imposero. La famiglia protestante manifestava un forte sentimento religioso.

Per comprendere il percorso quanto le scelte di Shirley è utile ricostruire il rapporto con il padre. In quel periodo Charles lavorava come garzone in una grande pasticceria. Era un uomo di bella presenza che lei idealizzava. Nonostante gli studi molto limitati aveva un vocabolario ricco e un’intelligenza intuitiva acuta. Era un lettore onnivoro. Anche durante la Grande Depressione, quando Ruby lo spingeva a risparmiare, lui comprava tre quotidiani al giorno. Charles era un conversatore instancabile, sapeva di tutto un po’. Né beveva, né fumava. Le trasmise la fierezza, allora tutt’altro che diffusa tra gli stessi afroamericani, della propria discendenza. Charles concretizzava le proprie idee nell’impegno come sindacalista, apparteneva alla Confectionery and Bakers International Union. Nulla, ricorda Shirley, lo rendeva più felice dell’essere un sindacalista.

Charles St. Hill era un seguace appassionato di Marcus Garvey, fondatore del movimento Pan-African che presupponeva la nascita di una nazione africana unita in grado di accogliere tutti i discendenti della diaspora, dove costruire una vita nuova, e che influenzò il pensiero di Martin Luther King Jr., Malcom X e il movimento separatista nel cuore degli anni Settanta. Portava sempre Shirley agli incontri e ai tributi dedicati a Garvey, condannato a cinque anni di carcere per sottrazione di fondi. Scontò la metà della pena per poi essere espulso nel paese nativo, la Giamaica. In quei consessi Shirley maturò la prima consapevolezza politica.

A scuola emerse la forza caratteriale della figlia di due immigrati che non stavano nel posto loro assegnato dalla società. Nella scuola pubblica incontrò per la prima volta le gerarchie dettate dalla classe sociale, dalla razza e dal genere. Nel frattempo il quartiere mutava la propria composizione. La scuola restava però una linea di separazione, che manteneva un equilibrio ormai distante dalla realtà. L’80% dei bambini erano bianchi di origine ebraica, tutti gli insegnanti erano bianchi.

Nel 1936 i St. Hill si spostarono a Bedford Stuyvesant, che diventerà l’epicentro della storia politica di Shirley. L’impatto col nuovo quartiere fu innanzitutto linguistico: per la prima volta nella strada ascoltava insulti a sfondo razziale: negro, ebreo bastardo, negro son of a bitch. Non era abituata a queste associazioni dispregiative. Nel 1939 Shirley s’iscrisse alla Girls High School, una delle scuole più antiche di Brooklyn a Nostrand Avenue. L’elevato quoziente intellettivo e l’abitudine allo studio ne facevano un’eccezione, tre quarti delle iscritte a scuola erano bianche.

Alla Girls High School le qualità di Shirley non passarono inosservate. Ricevette numerose proposte da college rinomati, fra i quali il prestigioso e selettivo Vassar, situato a 70 miglia da New York nella suggestiva Hudson Valley. La famiglia non poteva sostenere i costi dello studio fuori dalla città. La scelta ricadde dunque sul Brooklyn College, che rappresentò un passaggio cruciale. C’è una domanda interessante che si è posta Chisholm: «Qualora avessi frequentato il Vassar, sarei diventata una delle donne nere pseudo bianche in carriera dell’alta borghesia o una moglie ben piazzata e mantenuta dal marito? Stento a crederlo, ma è meglio aver scongiurato il rischio».

Nel 1942 Shirley varcò la soglia del Brooklyn College non ancora diciottenne. Era una degli appena sessanta studenti con la pelle nera nel più grande dei cinque college urbani con il campus economicamente più abbordabile. Al college Shirley cominciò a scontrarsi, a rivoltarsi contro il mondo. La scuola era ricca di organizzazioni e attività extracurricolari politicamente orientate, la maggior parte di esse progressiste. La famiglia l’aveva tenuta a lungo protetta dalla realtà circostante, «ma ero nera e nessuno doveva spiegarmi che cosa significasse». Non importava quanto fosse ben preparata, la società non le avrebbe dato alcuna opportunità.

Al college c’era un collettivo politico, l’Harriet Tubman Society, che Shirley frequentò dal secondo anno. La figura della combattente Harriet Tubman, che si era sottratta alla schiavitù indicando agli altri la via per la libertà, sarà dirimente per Chisholm.

Continua a leggere qui...

giovedì 10 novembre 2016

Come la 'ndrangheta è diventata classe dirigente. Intervista ad Antonio Nicaso


di Gabriele Santoro

Antonio Nicaso, giornalista, saggista e docente universitario canadese di origine calabrese, nel breviario Mafia (Bollati Boringhieri, 137 pagine, 10 euro), pubblicato qualche mese fa, ribadiva che fin dal tardo Ottocento la mafia non è una degenerazione patologica della società, ma è strettamente integrata e intellegibile solo nel quadro delle relazioni, delle cointeressenze interclassiste che ha sviluppato con il potere politico ed economico.


Da questa constatazione ineludibile al fine di comprendere la longevità delle mafie, si muove il nuovo studio Padrini e padroni (Mondadori, 18 euro, 205 pagine), elaborato con l’amico di una vita, il magistrato Nicola Gratteri. Il saggio, già in vetta alle classifiche di vendita e lettura, tratteggia con la consueta capacità divulgativa degli autori, che non banalizza temi complessi, come la ‘ndrangheta abbia utilizzato la corruzione per diventare classe dirigente. Dall’Ottocento non era ritenuto sconveniente, da chi era interessato a mantenere o conquistare il potere, accompagnarsi con la picciotteria, poi con gli ‘ndranghetisti per la gestione del consenso mediante meccanismi clientelari. Già nel 1869 il prefetto di Reggio Calabria Achille Serpieri fu costretto a sciogliere il consiglio comunale appena eletto, a causa dei brogli e del condizionamento mafioso, motivando così al ministro dell’Interno la decisione: «Le elezioni amministrative dovettero essere annullate per difetti che dimostrarono gare di partito, fino all’avere i componenti dei seggi alterato lo stato delle urne coll’introdurvi schede false».

Risulta di particolare interesse la presentazione con le evidenze investigative e giudiziarie emerse nel tempo della cosiddetta massomafia, un’élite criminale in grado di affiancarsi a pezzi di classe dirigente, di mimetizzarsi e mettersi nella cabina di regia per il conseguimento degli affari di una holding mondiale del crimine che conserva una costante forte dimensione territoriale. «La ‘ndrangheta è un convitato di pietra della nostra democrazia, presenza incombente ma invisibile. È servita a molti, nata come patologia del potere, è servita alle classe dirigenti che con la violenza hanno mantenuto il potere. È economia più che cultura», scrivono Nicaso e Gratteri.

La ‘ndrangheta «che semina più tossine nell’economia che cadaveri nelle strade» ha compreso la lezione, l’errore di una strage come quella di Duisburg, che ha acceso i riflettori sull’espansione delle mafie nella prateria europea.

Sulla commistione tra ‘ndrangheta e massoneria è significativo un passaggio, nel quale vengono riportate le dichiarazioni dell’ex Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia Giuliano Di Bernardo, interrogato dal pm Lombardo durante le indagini sull’operazione Mammasantissima: «Ettore Loizzo, ingegnere di Cosenza, mio vice nel GOI, nel corso di una riunione della Giunta del Grande Oriente d’Italia che indissi con urgenza nel 1993 dopo l’inizio dell’indagine del dottor Cordova sulla massoneria, a mia precisa richiesta, disse che poteva affermare con certezza che in Calabria, su 32 logge, 28 erano controllate dalla ‘ndrangheta. Io feci un salto sulla sedia». E oggi il «coso» sarebbe un nuovo livello della ‘ndrangheta, invisibile e sconosciuto ai più: una componente riservata, alla quale spettano compiti di direzione strategica.

Padrini e padroni ricostruisce dal cuore dell’Ottocento il sistema di compravendita del voto e il condizionamento mafioso del sistema democratico. Quale debolezza permane nella repressione dello scambio elettorale politico-mafioso, reato disciplinato dall’articolo 416 ter recentemente modificato?
«Nell’ipotesi di utilità in cambio di voti, con la recente modifica normativa, i politici rischiano meno dei mafiosi. Sarebbe stato certamente più opportuno punire con maggiore severità i politici, che – in virtù del mandato elettorale – dovrebbero rappresentare gli interessi del cittadino».

La ‘ndrangheta non ha mai fatto distinzioni ideologiche, tra l’altro oggi sempre più sfumate, per la costruzione di comitati d’affari imprenditoriali – politici criminali. Torniamo al punto fondamentale, la mafia è un fenomeno di classi dirigenti, una patologia del potere.
«La ‘ndrangheta non ha mai avuto discriminazioni ideologiche. L’unico interesse della ‘ndrangheta è e rimane il potere».

Nel libro ricordate ciò che ha significato nel 1908 il terremoto a Messina e Reggio Calabria, che provocò centomila morti. Col denaro pubblico, prima per il soccorso e poi per la ricostruzione, si creò una sorta di istituzionalizzazione del sottosviluppo meridionale. Questa calamità naturale segnò l’anno zero di una commistione tuttora irrisolta, che prospera nell’emergenza?
«C’erano state avvisaglie anche prima. Dopo l’unificazione territoriale dell’Italia, la classe dirigente del Sud ha utilizzato la violenza, garantita da organizzazioni criminali come la ‘ndrangheta, per reprimere ogni minaccia endemica della reazione popolare. È però dopo l’arrivo della Legge Pro Calabria del 1905 e delle successive integrazioni a seguito di altre calamità naturali, che la borghesia agraria accentua la sua natura parassitaria. Da allora è cambiato poco con una commistione tra mafie, corruzione e malaffare che prospera anche nell’emergenza, come dimostrano i terremoti dell’Abruzzo e dell’Emilia».

L’irruzione nel ramo delle infrastrutture consentì il salto nella categoria imprenditoriale di numerosi ‘ndranghetisti e l’incesto con gli apparati burocratici amministrativi. Oggi, che il business della cocaina garantisce il 60% del fatturato annuale della ‘ndrangheta, che cosa rappresenta il controllo degli appalti?
«Ci sono ancora oggi boss e prestanome della ‘ndrangheta che gestiscono alcuni importanti settori dell’edilizia, forniscono manodopera a basso costo, trasporto d’inerti e sversamento di detriti senza alcun rispetto dei protocolli ambientali. Ma il grande riciclaggio di denaro viene spesso realizzato all’estero con investimenti immobiliari e turistici, grazie a operazioni che passano anche da paesi off shores».

Parliamo del malavitoso Michele Campolo, che sfruttò il post terremoto per intessere rapporti con la Reggio bene. Era un analfabeta, nulla tenente, senza mestiere, criminale che presiedeva la riunione annuale della élite ‘ndranghetista al Santuario di Polsi. Dalla fine della prima guerra mondiale divenne l’arbitro della vita sociale di Reggio Calabria. Come sostenete, senza il concorso esterno la ‘ndrangheta non esiste?
«Campolo era furbo, intelligente. E a lui ricorrevano politici importanti, professionisti molto conosciuti. A lui e ad altri boss le richieste di sostegno elettorale arrivavano addirittura su carta intestata. Un analfabeta che doveva restare ai margini, è stato legittimato e riconosciuto socialmente per il suo ruolo di mediatore e di capo-elettore. Non è stato l’unico, purtroppo, nella lunga storia della ‘ndrangheta. Il dramma è che a legittimare gente come Campolo sono stati uomini importanti a cui sono state intitolate strade e piazze».


È grande il rischio giudiziario che si corre con la mimetizzazione della ‘ndrangheta, e il venir meno dell’uso della forza di intimidazione del vincolo associativo, di una negazione dell’esistenza della mafia stessa?
«Il rischio c’è. Oggi, in certe realtà, soprattutto fuori dalla Calabria, la minaccia percepita è più efficace di quella praticata. Spesso non c’è più bisogno di usare la violenza. La corruzione è diventata un’arma più sicura. Anche sul piano normativo tante cose andrebbero riviste. Ma manca la volontà politica. O forse non c’è mai stata».

Dalla Famiglia Montalbano, narrata efficacemente da Saverio Montalto, in poi chi non aveva dimestichezza con la politica era messo ai margini dell’organizzazione. Il sistema relazionale assicura la riproduzione del medesimo, antico, elementare modello organizzativo ‘ndranghetista capace di coniugare la struttura unitaria e i “locali” periferici. La vastità ramificata del vincolo associativo come ha resistito alle guerre interne?
«Le faide sfuggivano al controllo della ‘ndrangheta. Il sangue chiamava sangue. Poi con il tempo, l’organismo di coordinamento della ‘ndrangheta, il cosiddetto crimine, è riuscito ad avere sempre più voce in capitolo soprattutto nelle guerre intestine, costringendo spesso famiglie di ‘ndrangheta a porre fine alle ostilità, come è successo dopo la strage di Duisburg, da molti considerata una sorta di boomerang, visto che ha acceso i riflettori del mondo sulla ‘ndrangheta».

Dall’inizio degli anni Settanta con la generazione della Santa, riservata all’élite criminale calabrese,  comincia a mutare il rapporto di forza con la politica, si garantisce la doppia affiliazione con l’ingresso degli ‘ndranghetisti nelle logge massoniche per una cogestione del potere con politici, imprenditori e professionisti. Quella urgenza della ‘ndrangheta di ribaltare la subalternità con la politica è definitivamente scemata?
«Con la Santa, la ‘ndrangheta ha sovvertito la subalternità che aveva nei confronti della politica. Con l’arrivo in Calabria dei fondi della Cassa del Mezzogiorno, la ‘ndrangheta ha cominciato a sedersi al tavolo di chi prendeva le decisioni su appalti e subappalti. Negli ultimi tempi, tanti politici sono stati visti bussare con maggiore frequenza alle porte degli ‘ndranghetisti».

Per spiegare l’evoluzione di questo rapporto e la crescente confluenza del vertice ‘ndranghetista nella massoneria più o meno deviata, partiamo dall’omicidio eccellente del magistrato Francesco Ferlaino. Perché fu ucciso il 3 luglio 1975?
«Secondo alcuni collaboratori di giustizia, Ferlaino, magistrato massone, ostacolava il nuovo progetto massonico-affaristico, che cominciava ad attecchire specialmente al Sud sotto la regia di Licio Gelli e che prevedeva l’accaparramento di ogni affare vantaggioso lecito o illecito che fosse. In sostanza, Ferlaino si opponeva alla degenerazione della struttura massonica, da organismo lecito e illecito».

Oggi stiamo arrivando alla conferma dell’esistenza di quella componente cosiddetta insospettabile della ‘ndrangheta?
«Forse c’è sempre stata. E non l’abbiamo vista. Alcuni dei cosiddetti invisibili emersi durante l’ultima indagine della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria erano già stati condannati in passato. Una cosa però è certa: la ‘ndrangheta sta diventando sempre più selettiva e alcuni dei suoi esponenti oggi fanno parte di sistemi criminali in cui il confine tra lecito e illecito è estremamente vago».

Che cosa comporta un nuovo livello della ‘ndrangheta, è la quarta gamba del tavolo che si è sempre retto su tre?
«Mi piace la sua metafora. Purtroppo, al momento, non ci sono riscontri giudiziari o sentenze definitive. Ma la quarta gamba che forse c’è sempre stata, si comincia a intravedere con contorni meno sfumati».

Continua a leggere qui...

«It's love Mr. Stoner. You are in love»: il romanzo perfetto di John Williams

Il Messaggero, sezione Macro, pag. 1-25
10 novembre 2016

di Gabriele Santoro



di Gabriele Santoro

Nel 1958 Marie Rodell, che faceva l'agente letteraria da almeno dieci anni, ed era ben inserita in molti ambienti letterari ed editoriali esclusivi newyorchesi, chiese a John Williams se avesse qualcos'altro, oltre al manoscritto The Naked World, che poi sarebbe stato pubblicato col titolo Butcher's Crossing. Lui rispose, fornendo alcuni elementi fondamentali di Stoner: «Il prossimo romanzo sarà un professore di college. Visto da fuori, è un fallimento sotto tutti gli aspetti: non è un insegnante popolare; è uno dei membri meno insigni del dipartimento; la sua vita personale è un disastro; la sua morte di cancro, alla fine di una carriera mediocre, è insignificante. È un romanzo su un uomo che non trova alcun senso nel mondo né in se stesso, ma che trova un senso e una sorta di vittoria nell'onesta e caparbia dedizione alla sua professione».

Williams, professore di letteratura all'università di Denver, nutriva la convinzione di avere tra le mani un lavoro magnifico, la cosa più difficile che avesse mai fatto: «(...) Certo, non mi illudo che diventi un bestseller o qualcosa di simile. L'unica cosa di cui sono certo è che si tratta di un bel romanzo; col tempo potrebbe essere persino considerato un romanzo molto bello». Nel 1965  Viking Press pubblicò Stoner. All'epoca, nel cuore dei sommovimenti del Sessantotto, il romanzo vendette circa duemila copie, fu esaurito nel giro di un anno e non venne ristampato, andando fuori catalogo. A oltre cinquant'anni dalla pubblicazione, amato soprattutto dai lettori europei, occupa ormai il luogo dei classici.

La vita ordinaria, la passività di un figlio di contadini del Midwest, William Stoner, vissuto tra il 1891 e il 1956, in disparte dagli eventi della Grande Storia, che si iscrive all'università del Missouri, dove lascia gli studi di agraria per la letteratura fino a diventarne insegnante, non ha mai conquistato del tutto i lettori statunitensi. Nel 2006 il libro torna in circolazione con New York Review Books Classics. La svolta editoriale giunge l'anno successivo, quando la scrittrice francese Anna Gavalda acquista una copia in inglese e convince Le Dilettante, il suo editore, a comprare i diritti francesi. Lo traduce e nel 2011 Oltralpe diviene un bestseller. Poi il contagio stoneriano tocca l'Italia, duecentomila le copie vendute, con Fazi editore, che oggi lo riporta in libreria accompagnato dalla biografia, firmata da Charles J. Shields, L'uomo che scrisse il romanzo perfetto (Fazi, 323 pagine, 18.50 euro) e da La saggezza di Stoner (Fazi, 16 euro, 132 pagine), raccolta di riflessioni critiche sul testo curata da Barbara Carnevali.

Stoner, un eroe per il suo creatore, è stato felice nella misura e nello spazio della sua vocazione che lo appassionava, a dispetto di un'esistenza triste e miserabile: «It's love Mr. Stoner. […] You are in love», per usare le parole di Sloane. La vocazione interiore e l'innamoramento per la letteratura, il suo primo oggetto di amore e libertà, che gli fece comprendere il professore Archer Sloane durante il corso introduttivo di letteratura inglese, sono l'architrave dell'esistenza di Stoner. La sfida del giovane Williams, nato in Texas nel 1922, era dire ciò che aveva in mente, resistendo al desiderio di fare colpo sul lettore. Considerava l'insegnamento universitario dirimente per la costruzione dell'identità di un uomo di lettere. Già nel 1936, da studente dell'high-school – narra Shields – scrivere era una sua ferma volontà. Il biografo riannoda con cura tutti i punti di raccordo tra Williams, fumatore accanito dalla complessa vita sentimentale, e il suo Stoner, iniziando dall'asprezza della vita rurale durante l'infanzia, i silenzi familiari e poi la Grande Depressione. Il legame con la terra non verrà mai disconosciuto.

Perché i lettori del Duemila amano Stoner? Da che cosa dipende la riscoperta avvenuta nell'ultimo decennio e che cosa dice della condizione della nostra vita culturale? Lui incarna un'indecifrabile saggezza che non è solo fatalismo davanti alle avversità della vita. «Il fascino di Stoner fa certamente leva sulla centralità che accorda all'esperienza ordinaria, e alle sue due forme tipicamente moderne, l'amore e il lavoro. È come se Stoner rappresentasse il compimento della vocazione democratica del romanzo moderno, che parla della vita ordinaria degli uomini ordinari, riuscendo a renderla interessante malgrado e proprio in ragione della sua mediocrità», osserva Carnevali.

WestEnd
, la rivista che anima l'eredità della Scuola di Francoforte, ha dedicato a Stoner un dossier, tradotto per l'occasione. Per Alex Honneth, direttore dell'Istituto di Ricerche Sociali di Francoforte, «la vita di William Stoner sarebbe sprofondata per sempre nell'oblio se John Williams, con il romanzo omonimo, non le avesse eretto un monumento davvero grandioso», e sembra riunirsi con la volontà di Williams di scongiurare la propria morte nell'anonimato. Sono tante le prospettive interpretative dell'opera e le tracce lasciate dallo scrittore americano e dal suo Stoner: il senso per la filologia, intesa come una vera pratica etica, il ruolo dell'università, l'insegnamento pionieristico della scrittura creativa e il rapporto col libro.

La felicità di Stoner sta nella ricerca di un sapere, che resiste al mondo, e nella conoscenza dei limiti del proprio sapere. Frieder Vogelmann propone un saggio suggestivo, un ponte che collega Stoner a tratti fondamentali del Socrate platonico, a cominciare proprio dalla consapevolezza della limitatezza del proprio sapere, che è accettazione della finitezza esistenziale. Vogelmann evoca almeno tre scene socratiche nel romanzo, dall'impegno nella battaglia contro i sofisti, gli impostori della conoscenza che millantano un sapere, al superamento della paura della morte.

venerdì 4 novembre 2016

Jesse Armstrong, la guerra in Bosnia e le possibilità della commedia

http://www.minimaetmoralia.it/wp/jesse-armstrong-la-guerra-bosnia-le-possibilita-della-commedia/

di Gabriele Santoro

Andrew è un muratore dei sobborghi di Manchester in seria difficoltà. È un antieroe, appassionato di politica estera, che non sta a proprio agio in nessuna classe sociale. È il 1994, Sarajevo è sotto assedio e il processo di dissoluzione della Jugoslavia risulta ormai inarrestabile.


Amore, sesso e altre questioni di politica estera (Fazi, 430 pagine, 16 euro, traduzione a cura di Giacomo Cuva), romanzo d’esordio del noto commediografo inglese Jesse Armstrong, racconta la vicenda di un gruppo di giovani idealisti armati dall’idea di raggiungere la Bosnia e mettere in scena uno spettacolo teatrale pacifista sul retro del loro Ford Transit. Andrew s’innamora a prima vista di Penny, anch’ella sensibile a quella dolorosa vicenda bellica. Lui immagina che l’amore possa salvargli la vita e pur di unirsi a Penny e al gruppo di pacifisti in partenza, fra i quali nessuno aveva alcuna esperienza sul fronte di guerra, finge di conoscere benissimo il serbo croato.

Il lavoro di Armstrong, una commedia che non si tira indietro dinanzi all’efferatezza del conflitto, ha lo spirito de Il violoncellista di Sarajevo, narrato qualche anno fa da Steven Galloway. Esprime cioè quella necessità di prendersi gioco della guerra che ritroviamo nella medesima ambientazione cinematografica di Perfect day di Fernando León de Aranoa con Benicio Del Toro e Tim Robbins.

Dall’inizio il processo di pace nella ex Jugoslavia ha avuto negoziatori britannici e statunitensi, da Lord Carrington a Holbrooke, nonostante la cultura anglosassone fosse così distante dai Balcani. Perché Andrew sceglie la Bosnia e immagina di poter essere un interlocutore di pace?
«Il mio narratore le risponderebbe che è partito perché la Bosnia gli stava a cuore. E ho una grande empatia per tutti gli Andrew del mondo che si dirigono verso zone di conflitto per aiutare. Ma non possiamo negare che Gran Bretagna e Stati Uniti abbiano storie particolari di coinvolgimento oltremare. Quello che la sua domanda suggerisce, è ciò che più di uno dei personaggi locali lascia intendere alla mia gang solidale impegnata ad allestire uno spettacolo teatrale per la pace. Può esserci lì una sorta di imperialismo dell’aiuto?».

In che modo ha combinato il tono della commedia con il dramma di una guerra fratricida?
«Credo si possa scrivere una commedia su qualsiasi argomento, c’è sempre un’angolazione. La questione risiede nel trovare il tono e la misura esatta per determinati argomenti, che rischierebbero di essere scioccamente ridimensionati. Ovviamente nel suo complesso il conflitto bosniaco non è stato altro che una tragedia pura e l’unica cosa sensata che puoi volere è piangere. La guerra non è divertente. Ma c’è l’altro lato da indagare: la confusione dietro le quinte, le assurdità delle grandi organizzazioni, le ipocrisie e le vanità delle nazioni e degli individui, le bugie che ci raccontiamo, le persone inghiottite dalla macchina da guerra. Mi sembrano aree ottime da esplorare per una commedia».

Oggi il mondo assomiglia a un resort globale per i traumi personali e collettivi. I personaggi riescono a bilanciare l’onestà e l’egoismo che animano la scelta di partire?
«È un’ottima immagine per descrivere il mondo. Siamo tutti in una coda enorme per il triage in un ospedale da campo e ci sono popoli che affrontano drammi indicibili in prima fila. Ma anche in fondo alla coda, in Occidente, siamo febbricitanti e malconci. Le ragioni per andare in uno scenario di guerra sono molteplici. Mi piace questa confusione di onestà ed egoismo, di alte e altre più superflue intenzioni. Allora veramente ecco che l’intero libro guarda dentro a una missione umanitaria. Sono a favore di chi anche sbagliando fa le cose, con l’insito potenziale narrativo tragico e comico. Nel mio gruppo ognuno propone prospettive diverse, tenendo da parte i motivi reali».

Tornando a casa, resta una possibilità di domare la futilità e l’irrazionalità della guerra?
«Non saprei. C’è un passaggio famoso in Mattatoio n. 5 nel quale Vonnegut ha un personaggio che consiglia al narratore di scrivere un libro piuttosto contro il ghiaccio che contro la guerra. Non penso si possa prevalere sulla futilità e sull’irrazionalità della guerra, ma almeno puoi fare fracasso con la tua batteria contro di essa. È del tutto irrilevante, ma forse aiuta a farti sentire meglio».

D’abitudine si associa il dramma jugoslavo ai riconosciuti criminali di grande calibro, vedi Karadzic. Lei lo fa ed è sufficiente a spiegare?
«Il libro si conclude con i personaggi in una fase complicata della guerra già di per sé complessa, una situazione particolarmente triste nella Bosnia occidentale. Non avevo alcuna volontà assolutoria dalle rispettive responsabilità di mostri come Karadzic e Mladic. Ma in quel luogo confuso i miei giovani personaggi, che immaginavano di sapere tutto quel che succedeva, riconoscono che devono dedicarsi a capire più in profondità. In un conflitto frastagliato tuttavia non si dissolvono la ragione e il torto».

Ha conquistato una qualche libertà dedicandosi alla prosa?
«È anche troppa la libertà del romanziere. La solitudine che si ricerca per la creazione artistica appare poi destabilizzante. Le restrizioni rendono l’opera fattibile. Sono uscito dalla comfort zone della scrittura per la televisione ma al contempo ho costruito le mie certezze: narratore in prima persona, questa è la mia voce, questi sono i personaggi, la forma del loro viaggio. E poi ho cominciato a godermelo».

Ha partecipato al referendum e qual è la sensazione dopo la Brexit, seppure nella fase embrionale?
«Ho votato per restare e sono deluso dell’esito elettorale. Qualunque siano i problemi che affliggono l’Europa, la risposta di alzare le mani in segno di resa e andarsene è errata. Somiglia al classico caso di una rabbia disfunzionale mal direzionata, come se non fossimo noi i responsabili di istituzioni create insieme e inaffidabili, dell’inquinamento ambientale, della crisi dei migranti in un mondo globalizzato».