martedì 31 dicembre 2013

In fuga dal Senato, dopo il no dell'Auditorium Conciliazione, approda al Sistina: Dario Fo racconta l'impegno di Franca Rame

Il Messaggero, sezione Tutta Roma Agenda pag. 46,
31 dicembre 2013

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

TEATRO
Dopo il gran rifiuto dell’Auditorium Conciliazione, Dario Fo tornerà in scena a Roma il 20 gennaio, al Teatro Sistina, con In fuga dal Senato; spettacolo che restituisce il senso dell’impegno politico di Franca Rame.

Lo scorso 31 ottobre una lettera del Premio Nobel aprì le polemiche con la Santa Sede, proprietaria dell’Auditorium: «Il cambiamento della Chiesa, conseguente all’elezione di Papa Francesco, è frenato soprattutto dall’interno. Un caso macroscopico è il divieto della rappresentazione dell'opera teatrale basata sul libro (In fuga dal Senato, Chiarelettere) di Franca Rame». A stretto giro la risposta della direzione della struttura: «L’evento non è stato annullato o censurato. Stavamo decidendo quali attività svolgere - spiegò Valerio Toniolo, amministratore delegato del Conciliazione - e non è stata data una conferma sulla spettacolo di Fo, perché le nostre scelte di programmazione erano altre».

Appena appresa la notizia Massimo Romeo Piparo, neodirettore del Sistina, si è mosso per offrire una casa alla rappresentazione. «Fo è un patrimonio dell’umanità - dice Piparo - e non si possono chiudere le porte a un artista del genere. Ha accettato subito la nostra offerta. Vogliamo tornare in prima linea: la mia missione è di restituire a questo teatro i fasti di una volta. Il no dell’Auditorium? È difficile parlare di una scelta artistica, piuttosto economica». Perché? «Ci ha imposto, come in tutti i teatri in cui è arrivata la tournée, un prezzo popolare per il biglietto d’ingresso: dieci euro. Un costo così basso può diventare un problema. Ma sono disposto a perdere un po’ di soldi per l’immagine e l’importanza della serata».

DAL LIBRO
Il libro postumo In fuga dal Senato narra la presenza, scomoda, di Franca Rame in parlamento dal 2006 al 2008, eletta nelle file dell’Idv di Antonio Di Pietro. Una donna di cultura che ha provato a portare nel Palazzo le proprie battaglie, dal pacifismo alla lotta per le condizioni e i diritti dei detenuti, scontrandosi con le dinamiche del potere, fino a rassegnare le sofferte dimissioni. Fo riannoda i ricordi di un’esistenza ricca, dolorosa e combattiva dalla parte degli ultimi, condivisa con la compagna e l’amore di una vita. Non mancherà la naturalezza del racconto della dimensione privata, poi in realtà non semplicemente scindibile da quella pubblica e dalla tensione morale ai bisogni del paese reale.

«Sarà una testimonianza diretta e forte; tutt’altro che morbida, irriverente nel registro di Fo - conclude Piparo -. Il ricordo della vita intensa di Franca è l’occasione per affrontare un nodo centrale per l’Italia: il rapporto tra cultura e politica. L’invadenza di quest’ultima, nel teatro pubblico, è evidente con i risultati che conosciamo. C’è troppa politica nella cultura. Ci mancano il coraggio e l’impegno civile di un’artista come Franca Rame: le sue rotture, i suoi no e l’essere sé stessa fuori dalle convenienze».


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domenica 15 dicembre 2013

La via italiana al cricket: la sfida del cosmopolitismo parte da Roma

Il Messaggero, sezione Macro pag. 21,
15 dicembre 2013

di Gabriele Santoro



di Gabriele Santoro

IL FENOMENO
Alfonso Jayarajah l’aveva detto agli amici inglesi, scettici: «Gli italiani sono troppo impazienti per il cricket? Vedrete, impareranno a giocarlo e ad amarlo». Lui, insieme al presidente della Federcricket Simone Gambino, è il pioniere nel nostro Paese di uno sport elitario diventato cosmopolita. Il gioco affonda le radici nei valori del puritanesimo dell’Inghilterra vittoriana, appassionando oggi tre miliardi di esseri umani. E continua a diffondersi nel villaggio globale, attraverso le rotte dell’emigrazione. L’essenza del gioco ha contagiato anche il Belpaese. Un piccolo boom denso di storie, raccolte nel libro Italian cricket club (Add editore, 183 pagine, 14 euro), che fotografano la complessità dei fenomeni migratori, e parlano al presente e al futuro dell’Italia. Gli azzurri e le azzurre con la pelle scura sono campioni d’Europa.

Nella penisola il cricket arrivò a fine Ottocento. E rinacque nel secondo dopoguerra nello spazio verde della romana Villa Doria Pamphilj, dove si incontrarono ambasciatori, cardinali, nobiluomini e immigrati delle ex colonie britanniche amanti del cricket; tra i quali Jayarajah. Nel 1968, ventunenne, aspirante ingegnere, approdò con una borsa di studio all’Università La Sapienza. Pensava di tornare in Sri Lanka; Roma, invece, non l’ha più lasciata. Ha costruito una famiglia con Franca. Ha lavorato come consulente finanziario per i progetti della Fao.

LABORATORIO SOCIALE
Non ha mai tradito la passione per il pitch: «Dall’inizio ci siamo posti una sfida culturale: trovare la via italiana al cricket - spiega Jayarajah - Questa disciplina è un laboratorio sociale. Dal 1978, quando fondammo all’ippodromo il Capannelle Club, ci siamo sempre rifiutati di assemblare formazioni monoetniche. Nella squadra convivono tante lingue e culture, creando una comunità complessa. La diffusione non dipende semplicemente dall’immigrazione o dall'importazione selettiva di talenti. Lavoriamo sul territorio, coinvolgendo migranti e ragazzi di seconda generazione».

Roma rappresenta tuttora un epicentro di questa crescita illuminata: il Capannelle Club è campione d’Italia e conta sessanta tesserati; un numero che sale costantemente. L’avviamento e il reclutamento parte dalle scuole. All’attività della massima serie si affianca quella spontanea di base. Nei parchi il nostro sguardo curioso si posa sempre più spesso su pitch improvvisati, dove si affrontano indiani, pachistani, srilankesi e italiani. E quella nuova generazione di italiani che attende di essere accolta.

L’APPRODO A SCUOLA
A Piazza Vittorio, nel cuore multietnico della Capitale, è nato un esperimento, che funziona e attrae ragazzi di molti quartieri: dall’Eur a Torpignattara. «Dal 2007 siamo aumentati esponenzialmente, aprendo la sezione cricket nel circuito Uisp - racconta Edoardo Gallo, uno dei due allenatori del Piazza Vittorio Cricket Club - Questo sport abbatte le barriere; propizia il dialogo. L’abbiamo insegnato a scuola: un’esperienza meravigliosa alla Pisacane, a Torpignattara, dove il 90% dei bambini è di origine straniera».

Il diciottenne Fernando Cittadini, studente del liceo Machiavelli, è cresciuto nella piazza disegnata da Gaetano Koch. «Prima mi ha incuriosito vedere molti compagni di classe cimentarsi per strada con uno sport estraneo alla nostra tradizione. Poi mi sono appassionato, e sono entrato a far parte di un gruppo speciale. Il cricket ha un linguaggio universale. È rigido, complesso e spettacolare». La struttura classica richiede tempi lunghissimi: cinque giorni per una partita; tanto impensabili per lo show-business, quanto accattivanti per i risvolti psicologici della competizione. Il formato, che rivoluziona i dettami tecnici della disciplina e ha creato un sistema mondiale, televisivamente commercializzabile, si esaurisce in tre ore.

ARBITRO INTOCCABILE
La pallina da battere viaggia anche a centosessanta chilometri orari: il gioco diventa esplosivo, aggressivo, consumabile, producendo ricchi guadagni. Il codice di comportamento non ha smarrito lo spirito puritano originario di compostezza e sportività. L’arbitro è intoccabile: a fine contesa si celebra il rito rugbistico del terzo tempo. Il cricket compie il miracolo dell’apertura mentale al diverso: alla conversazione nel senso di coesistenza. Pone la sfida del cosmopolitismo: sentirsi legati alle proprie radici, senza dimenticare di appartenere a una comunità più ampia: l’umanità.

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sabato 14 dicembre 2013

Magazzino 18, il teatro civile di Simone Cristicchi: «Un viaggio nella memoria dell'esodo istriano»

Il Messaggero, sezione Tutta Roma Agenda pag. 57,
14 dicembre 2013

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

L’INTERVISTA
«Da quella volta non l'ho rivista più, cosa sarà della mia città. / Non so perché stasera penso a te, strada fiorita della gioventù. / È troppo tardi per ritornare ormai, nessuno più mi riconoscerà», cantava il profugo polese Sergio Endrigo, raffigurando la tragedia degli italiani d’Istria, Dalmazia e Venezia Giulia privati, dopo la Seconda Guerra Mondiale, della terra madre e stranieri in patria. Una storia scomoda e complessa che Simone Cristicchi porterà in scena da martedì a domenica al Teatro Sala Umberto. Magazzino 18: un monologo, con la regia di Antonio Calenda, in cui si incontrano il teatro civile e la musica del cantautore romano.

Perché ha scelto di far partire il viaggio della memoria da un luogo evocativo come il Magazzino 18 al Porto Vecchio di Trieste?
«È un luogo pieno di oggetti personali che restituisce la lacerazione interiore provocata dalla diaspora, conseguenza diretta della carneficina delle Foibe e delle condizioni del Trattato di Parigi del 1947. Interpreto l’archivista ministeriale Persichetti, che incaricato di stilare l’inventario del magazzino svela un giacimento di ferite mai rimarginate. Il personaggio, con i tratti della romanità di Alberto Sordi e Aldo Fabrizi, da italiano medio scopre e coinvolge gli spettatori in un dramma rimosso dalla coscienza nazionale».

Le cause dell’oblio furono molteplici. A partire dall'interesse occidentale di non disturbare Tito, funzionale in chiave antisovietica. Lei ha scelto di mettere da parte la politica per raccontare le storie individuali?
«Lo spettacolo rappresenta un omaggio a centinaia di migliaia di persone che sono state dimenticate. Metto al centro il dolore di comunità di cui troviamo traccia in quasi ogni città italiana. A Trieste, e nelle altre città del Nordest, in cui è arrivata la tournée sono stato travolto dall’emozione che accomuna diverse generazioni. I profughi, costretti ad abbandonare le proprie case dopo la cessione dei territori alla Jugoslavia di Tito, hanno pagato il prezzo più alto nel periodo postbellico».

Crede si riesca a liberare la storiografia dalle paradossali strumentalizzazioni ideologiche e dalle amnesie, rendendola patrimonio condiviso del Paese?
«Sui fronti politici estremi, tanto a destra quanto a sinistra, si manifestano ancora sacche di resistenza. Ma è giunto il tempo di costruire una visione comune. Il vero j’accuse dello spettacolo è nei confronti dell’Italia: si critica la colpevole damnatio memoriae di Stato sulla vicenda. Gli esuli erano fascisti e antifascisti: più semplicemente italiani dei quali si prevedeva la rimozione senza distinzioni. Qualcosa di più della rappresaglia o vendetta per i misfatti nazifascisti in terra jugoslava. L’esodo istriano è stato uno sradicamento culturale mai più ricomposto».


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domenica 24 novembre 2013

Carlo V, il sogno e il fallimento di una monarchia universale

Il Messaggero, Ernani L'evento pag. 62,
24 novembre 2013

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

L’INTERVISTA
Dall’impeto giovanile alla disillusione dell’abdicazione, Carlo V ha condensato nella propria persona un disegno di fede, vita e potenza dinastica, quella degli Asburgo, capace di creare un sistema imperiale transoceanico. Una sfida culturale, prima che politica e religiosa, piena di necessarie contraddizioni e conflitti. Il grandioso fallimento della sua impresa universalistica aprì la via alla modernità europea degli Stati nazionali. Elena Bonora, docente di storia presso l’Università di Parma, tratteggia il profilo e il senso dell’azione dell’imperatore che segnò il Cinquecento facendo convivere in sé l’uomo del Medioevo e quello rinascimentale.

È appropriato definire Carlo V un giovane cresciuto in fretta?
«Sì, anche se nel Cinquecento quindici anni era considerata un’età accettabile per essere re. Certo, su Carlo d’Asburgo si concentrò una quantità di poteri e domini che da secoli nessuno deteneva. Quindicenne, governò i Paesi Bassi, all'epoca una delle aree più urbanizzate ed economicamente avanzate d’Europa. L’anno seguente diventò re di Castiglia e di Aragona, ereditando anche i domini italiani e il Nuovo Mondo. Prima dei vent’anni, nel 1519, venne eletto imperatore del Sacro Romano impero».

La campagna elettorale tedesca per la corona imperiale fu feroce: un intreccio, tuttora inscindibile, tra politica, potere e denaro.
«Fu una campagna estremamente combattuta contro il rivale Francesco I re di Francia. I Sette Grandi elettori si riunirono a Francoforte. Carlo si accreditò come il candidato nazionale avverso al forestiero. Divenne imperatore grazie al denaro prestato dai banchieri tedeschi con cui corruppe i principi elettori e pagò un esercito acquartierato alle porte della città: lo elessero all'unanimità nel giugno del 1519».

Quale fu il sostrato politico e ideologico della sua pretesa imperiale universalistica?

«Si fondò sulla religione. L’ordine, di cui era garante l’imperatore, era secondo la mentalità dell'epoca, voluto da Dio. Per la prima volta, sette secoli dopo Carlo Magno, al titolo imperiale corrispose un potere effettivo ed enorme».

Una concezione medievale che sembra avversare il fermento culturale e l’innovazione delle idee politiche del periodo. Si trattò di un modello distante dalla realtà?

«Certo, la storia seguì poi percorsi diversi. Dopo l’abdicazione e la spartizione dell’eredità dinastica, una volta sancita la divisione confessionale dell’impero tra luterani e cattolici, si infranse il sogno di unità dell’Europa cristiana. La figura dell’imperatore perse il suo significato universale. E si aprì la strada al sistema moderno delle potenze europee, nel quale il peso di ciascuna è determinato dal potere territoriale, militare ed economico. E così la Spagna, con i suoi possedimenti americani, diventò la potenza più forte d'Europa».

In che modo lo influenzò Mercurino di Gattinara, prototipo dell’odierno spin doctor?
«Gattinara era un giurista piemontese, a capo della struttura che doveva mettere per iscritto e ufficializzare le leggi. Mantenne i rapporti con l’esterno, credendo nelle responsabilità globali di Carlo V. Gli ricordò sempre che Dio l’aveva posto lì, elevandolo sopra tutti i re e i principi della cristianità. Mediante la cancelleria imperiale cercò di imporre questa immagine. Dopo il Sacco di Roma, fu il regista di un’offensiva propagandistica, ben riuscita, che, davanti all’Europa attonita, giustificò quello scempio come punizione di Dio, irato contro un Papa inadeguato ai suoi compiti».

Cosa rappresentò in realtà il Sacco di Roma nel 1527?

«Mesi di violenze e saccheggi, perpetrati dai lanzichenecchi tedeschi e dai fanti spagnoli, ridussero la città a cadavere. Per quei soldati, perlopiù protestanti, Roma costituiva la Babilonia da distruggere. La Capitale della cristianità fu profanata non da orde di turchi, bensì dagli eserciti dell’imperatore cristiano. Lo scontro tra le due massime autorità della cristianità, papa e imperatore, continuò negli anni successivi. Nel papato Carlo V ebbe il maggior ostacolo al dialogo e alla mediazione con i protestanti per la salvaguardia dell’unità religiosa europea. Dovette confrontarsi con pontefici il cui scopo principale era conservare la supremazia nella penisola. In molti, e non solo tra i protestanti, sperarono che scendesse in Italia, invadesse lo Stato pontificio e riformasse la Chiesa con un concilio».

Tiziano fu il suo ritrattista e le fonti sono ricche delle sue gesta. Quale immagine pubblica si costruì?
«Ci ha trasmesso il fascino del suo progetto titanico. Riuscì, con gli scarsi mezzi comunicativi dell’epoca, a instillare per un momento in popoli diversi l’idea che ci fosse un’autorità dirimente sugli interessi locali. Una costruzione fragile, come le scenografie di cartone allestite in occasione delle sue entrate trionfali e dei suoi viaggi».


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Meli, Salsi e Abdrazakov: la famiglia verdiana di Riccardo Muti racconta Ernani, l'eroe romantico di Verdi

Il Messaggero, Ernani L'evento pag. 63,
24 novembre 2013

di Gabriele Santoro

 

di Gabriele Santoro


IL MASNADIERO
Il tenore genovese Francesco Meli interpreta l’intensità dei sentimenti e il tormento del ribelle Ernani, in realtà il nobilissimo Don Giovanni d’Aragona che si cela sotto l’identità di un masnadiero. Meli, diretto da Riccardo Muti, ha cantato molte opere del grande repertorio verdiano. Inaugura la stagione del Teatro dell’Opera di Roma per la seconda stagione consecutiva, avendo già conquistato il pubblico con I due Foscari e Nabucco.

Ernani, titolo rappresentato per la prima volta al Teatro La Fenice nel marzo del 1844 e considerato eversivo per l’epoca, riscosse subito un grande successo. Che nel tempo non ha perso. Perché?
«Ernani mantiene sempre il proprio appeal. Esalta tutte le caratteristiche dell’opera romantica sia musicalmente sia con la drammaturgia. È il primo Verdi: baldanzoso e di grande impeto. Non si rintracciano somiglianze con la nostra realtà attuale, somiglianze presenti invece in molte altre opere verdiane. Lo definirei un misto tra ciò che già è e ciò che sarà il compositore delle Roncole di Busseto, ancora legato al repertorio belcantistico di Donizetti e Bellini. Conquista il fascino retrò del quale sono ricche le scene segnate dall’incisività, dalla forza e direi persino dall’aggressività che a tratti contraddistingue questo Verdi».

Ernani, nel contrasto tra amore e onore, trasmette una fierezza quasi ossessiva.
«Rappresenta l’eroe romantico che combatte contro i potenti, e non tradisce la propria coerenza fino al suicidio. È l’altra faccia della medaglia di Don Carlo: una specie di Robin Hood che rinuncia ai propri privilegi per qualcosa di più importante, contendendo anche la donna al futuro sovrano».

L’ONORE
Qual è il significato del suicidio?
«Nell’Ernani c’è molto di Romeo e Giulietta o del Werther di Goethe. L’idea dell’amore romantico che è irrealizzabile anche nel momento in cui sembra che lo sia. Il motivo del suicidio è certamente l’onore. Ma vuole anche porre termine ai tormenti dell’amore conteso per Elvira. Dall’inizio, lui e lei si dicono: “Il nostro amor solo affanni ci darà”. Il gesto estremo è purificazione. La musica semplice che accompagna la morte di Ernani è sublime: un’ascensione al cielo. Si tratta dell'unico momento dell’opera in cui il nobile-bandito appare felice, cantando con una grande, serena passione».

IL RIGORE
Muti ha creato attorno a sé una famiglia verdiana vincente, che accende la passione del pubblico anche all’estero.
«Il Maestro ha riscoperto una consuetudine del passato, quella di lavorare con una compagnia veramente affiatata. A differenza di quanto avviene in altre situazioni, tutti i cantanti arrivano alle prove con una visione comune dello spartito dell’opera e condividono con il maestro, minuto per minuto, il modo di affrontare le rispettive interpretazioni. Muti non tralascia nulla. Con il rigore interpretativo che possiede da sempre, costruisce un valore aggiunto. Ci porta per mano e ci fa gustare il rispetto il ritmo giusto; la bellezza di saper restituire i colori, le sfumature e le indicazioni dinamiche volute da Verdi. Tutto questo non è un limite, un aggravio, una fatica, bensì un regalo che apre ad ogni artista possibilità enormi».


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sabato 23 novembre 2013

Kasparov-Carlsen: il maestro e l'allievo nuovo campione mondiale degli scacchi

Il Messaggero, sezione Macro pag. 1-23,
23 novembre 2013

di Gabriele Santoro



di Gabriele Santoro

LA SFIDA
Il passaggio di consegne tra  il maestro e l’allievo era atteso. E il norvegese Magnus Carlsen non ha tradito le aspettative: a ventiduenne anni è il nuovo campione del mondo degli scacchi, avvicinando il mentore Garry Kasparov, che per poche settimane rimane il più giovane di sempre. Inoltre è il primo occidentale a conquistare il titolo dal 1975, quando vinse l'americano Bobby Fischer. A Chennai, in India, ha battuto il quarantatreenne detentore del titolo Viswanathan Anand. Il successo segna una rottura generazionale per il gioco, che ha recuperato l’attenzione mediatica delle grandi sfide del passato.

Il talento, cresciuto nel sobborgo di Oslo, ha piegato psicologicamente l’avversario con la resistenza fisica e la capacità fondamentale di decostruire le sue mosse. C’è chi lo definisce l’ingresso nell’era post moderna degli scacchi: Magnus ha avuto la stessa forza delle analisi prodotte dai computer nel condurre Anand all’umano errore. Carlsen trova insoddisfacente confrontarsi con il mezzo meccanico, ma lo strumento è ormai un sostegno fondamentale.

LA FAMIGLIA
Gli scacchi rappresentano la passione di famiglia. Il padre, Henrik, era un giocatore di discreto livello e ha sostenuto la crescita del figlio, viaggiando per migliaia di tornei in tutta Europa. Già da piccolo Magnus dimostrava doti mnemoniche e matematiche fuori dal comune. La scuola però l’annoiava, e ha rinunciato a diplomarsi. Faccia da bambino, e carattere introverso, ha sempre cercato di condurre un’esistenza normale. A tempo perso si diverte a posare anche da modello. «È facile ossessionarsi con gli scacchi. Amo il gioco e competere, ma non avverto questa ossessione. Sì, sono forte. Ma alla gente chiedo di considerarmi come un qualsiasi mio coetaneo», raccontò a Time.

Più che alla bellezza e alla poesia degli scacchi punta alla sostanza: «Considero la partita un combattimento». Lo stile aggressivo che l'ha sempre contraddistinto si è arricchito delle intuizioni e dell’abilità unica nel piazzare i movimenti più spiacevoli per il contendente. Un intreccio fenomenale tra creatività, memoria e studio. I numeri della carriera raffigurano il cammino di un predestinato: a tredici anni guadagna il titolo di Gran Maestro; nel 2010 scala la graduatoria mondiale fino al primo posto e l’anno successivo il parlamento norvegese lo insignisce del premio Arets Peer Gynt.

DOTI SPECIALI
Alla vigilia del mondiale Kasparov aveva predetto una sfida equilibrata, senza nascondere la propria vicinanza al norvegese. Il russo l’ha seguito per un periodo intenso di allenamenti, riconoscendone le doti speciali. Dopo “Mozart degli scacchi”, l’ha soprannominato Harry Potter. Più che su questioni tecniche l’allenamento si è concentrato sul metodo: la costruzione di un’etica del lavoro e un prezioso scambio di esperienze.

LE SUE TECNICHE
«Io e lui - ha spiegato Kasparov - abbiamo stili differenti. Ricalca campioni quali Karpov, Capablanca o Smyslov. Il suo punto di forza è riuscire a valutare le posizioni: spesso rompe situazioni cristallizzate di equilibrio, sfruttando le imprecisioni dell’avversario. Riesce a imporsi anche dalla difesa, ribaltando situazioni sfavorevoli. Sono felicissimo per la vittoria: il futuro appartiene alle nuove generazioni, alle quali spesso tagliamo le ali». Anche in India Kasparov non ha rinunciato al ruolo di oppositore del sistema, sollecitando la classe dirigente della federazione internazionale a una svolta della propria politica.

Questa vittoria preannuncia un dominio duraturo? Probabilmente. Ma sulla propria strada Magnus Carlsen potrebbe incrociare a breve l’italiano Fabiano Caruana: un classe ’92, già salito al quinto posto della classifica mondiale, che prefigura un nuovo esaltante duello al vertice degli scacchi.


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lunedì 11 novembre 2013

Lo spirito indomabile di Muhammad Ali nel ring invisibile di Lefranc

Il Messaggero, sezione Macro pag. 17, 
11 novembre 2013

di Gabriele Santoro



di Gabriele Santoro

LA STORIA
A Louisville l’aspettavano. L’aspettava il tredicenne nero Emmett Till, massacrato di botte a causa di uno sguardo proibito rivolto a una donna bianca. Lo invocava la moltitudine delle anime umiliate dallo schiavismo e dalla segregazione razziale. In fondo alla notte, Cassius Clay Senior, davanti all’ennesimo bicchiere di rabbia svuotato, sapeva che dal proprio seme sarebbe nato il riscatto. Un giovane pugile nero. Un prodigio di velocità capace di riscrivere i princìpi della boxe, stravolgere le ipocrisie mediatiche e scuotere la società americana.

Alban Lefranc, in un corpo a corpo letterario, immagina “Il ring invisibile” (questo il titolo del libro, 66thand2nd, 153 pagine, 15 euro) del tre volte campione del mondo dei pesi massimi e icona dello sport moderno. Una biografia visionaria della vita futura del giovane Cassius Clay, che ne tratteggia lo spirito indomabile e la costruzione della presa di coscienza, tanto fisica quanto linguistica. Lo scrittore francese raffigura con intensità la genesi di un'energia travolgente.

L’ADOLESCENZA
Illumina la scoperta del corpo e della parola. Quella tagliente e vincente, sussurrata con l’aria calda del soffio nell’orecchio dell’avversario; o urlata prima del match. “You like it bitch”: un linguaggio sessuale esplicito, per l’uomo che prima di Sonji evitò la distrazione del vellutato corpo di donna. La sua parola s’impadroniva dello strumento di diffusione. L’adolescente Emmett li aveva affrontati a viso aperto quei ragazzotti, eredi dell’aristocrazia terriera sudista, ma non conosceva la giusta distanza: lo spazio vitale da proteggere. Clay gliel’ha promesso: «Darò la mia faccia, ma non permetterò a nessuno di avvicinarsi». La medaglia d’oro olimpica a Roma ’60, l’obiettore di coscienza, la bandiera dei diritti civili danzava. Una manciata di minuti di appoggi leggeri, avanti e indietro, a destra e a sinistra. Lui esponendo il mento, senza mai distogliere lo sguardo da loro, che colpivano il vuoto del corpo in movimento.

LE OLIMPIADI
Roma ha rappresentato l’apprendistato alla gloria. Il diciottenne incontra il lusso inutile di Manhattan, che lo annoia. Non sarebbe stato uno dei tanti, perché possedeva il sogno, la visione e il desiderio che contraddistinguono i campioni. La meravigliosa, e priva di violenza cieca, interpretazione della nobile arte non era sufficiente. La boxe sfila su un piano parallelo. «Una sera, dopo tre giorni di maturazione e silenzio, Cassius va a prendere suo padre seduto davanti alla tv e lo porta nel suo bar preferito a quattro isolati da lì, paga un giro per tutti, «quello che volete», provoca suo padre su Emmett Till («che se l’è cercata»), provoca un altro gruppo su Malcolm X («un vero profeta»), un altro ancora sul reverendo King («venduto ai bianchi»), un terzo su J.F.K. («bianco cicalante in fregola»), un quarto su Sonny Liston («grosso orso lento»). Il bar si riempie subito, le parole schizzano per ogni dove, Cassius beve a piccoli sorsi la sua limonata.

LA CONVERSIONE
Seguirà la predicazione di Malcom X; si convertirà all’Islam fino a diventare ministro di culto. Dopo aver steso Foreman davanti ai microfoni consegnò l’impresa ad Allah: «Questa sera sul ring non so se l’abbiate visto; ma ciò che avete visto era soprannaturale. George non era mai stato battuto. Deve essere stato Allah». Coincide il ring invisibile con quello visibile; la realtà entra nelle corde e i pugni assumono un valore inestimabile. Muhammad Ali, esiste e resiste oltre al talento pugilistico. La sua gestualità è diventata patrimonio dell’umanità, perfino nelle mani tremolanti. Nella narrazione del mito, Lefranc intuisce ed evita la confusione che disperderebbe il senso di un’esistenza preziosa. Accantona l’effimero, che distrae la folla. Il protagonista sfuma nel pieno della carriera, per ritrovarsi denudato dal Parkinson. E, chiudendo gli occhi, sembra rivolgerci una delle sue frasi indelebili: «Io so dove sto andando, e conosco la verità. E non devo essere chi volete che io sia. Sono libero di essere ciò che voglio».


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domenica 10 novembre 2013

Il rientro sulla Terra del satellite Goce, che misura il campo gravitazionale terrestre

Il Messaggero, sezione Macro pag. 1-21,
10 novembre 2013

di Gabriele Santoro




di Gabriele Santoro

L’ALLARME
La “Ferrari dello spazio” sta per tornare sulla Terra: un impatto dalla localizzazione senza coordinate certe, malgrado il monitoraggio dell’Agenzia spaziale europea. Il Goce è un satellite prezioso per l’attività di osservazione e misurazione, destinato a concludere il proprio viaggio sulla superficie terrestre, a differenza di altri che si disintegrano nell’impatto con l’atmosfera. Mandato in orbita nel 2009, ha portato a termine con successo la missione per la quale è stato progettato e costruito con una struttura molto pesante (907 chilogrammi, 5.2 metri di lunghezza, dotato di una straordinaria aerodinamicità). Il 21 ottobre, una volta esaurita la propulsione, ha iniziato la discesa, che dovrebbe concludersi tra stanotte e domani.

LE FASCE ORARIE
La Protezione civile, in coordinamento con altri enti, sta monitorando la situazione e ha avvisato sul rischio di deflagrazione dei detriti in Italia: «Non è ancora possibile - avvertono - escludere - la remota possibilità che uno o più frammenti del satellite possano cadere sul nostro territorio. Stamattina, potenzialmente, tra le 8.26 e le 9.06 potrebbero essere coinvolte le regioni del centro-nord e la Sardegna. Dalle 19.44 alle 20.24 la Valle d'Aosta, Piemonte, Liguria e Sardegna. L’ultima fascia considerabile è domani dalle 7.48 alle 8.28. Il materiale potrebbe provocare danneggiamenti a edifici, senza però avere una forza tale da causarne il crollo». Insomma, il consiglio è di stare al coperto.

Si tratta comunque di un evento più che raro: dal 1987 è il primo rientro non completamente ponderabile di un satellite. Come sono infinitesimali le probabilità di esserne colpiti, considerando che oltre il 70% della superficie terrestre è acquatico. «Parliamo di un rischio molto piccolo - assicura Rune Floberghagen, responsabile della missione - L'evolversi della vicenda viene seguito istante per istante dall’Inter-Agency Space Debris Coordination Committee».

INCANDESCENTE
Secondo l’ultima rilevazione disponibile sarebbe a circa centocinquanta chilometri dal contatto con l’atmosfera. L’80% circa del corpo del satellite si polverizzerà all’impatto, mentre i frammenti residuali (oltre duecento chilogrammi) sono destinati a disperdersi. L’attrito tra aria e satellite aumenta la velocità alla quale viaggia e lo rende incandescente. «Il suo rientro risulta più complicato - spiega Enrico Flamini, coordinatore scientifico dell’Agenzia spaziale italiana - perché si distrugge relativamente poco nell’atmosfera. È una massa abbastanza pesante e compatta. Mediamente i satelliti in genere si polverizzano per l’attrito con l’atmosfera».
L’obiettivo di Goce, che porta la firma italiana della Thales Alenia Space di Torino, è fornire una misura più dettagliata del campo gravitazionale terrestre e di conseguenza della forma del geoide. Goce è l’acronimo di Gravity Ocean Circulation Explorer. È stato posizionato volontariamente in un’orbita relativamente bassa, che risente ancora molto dell’influenza della Terra, dovendo occuparsi delle misure di gravità.

«È un satellite unico nel suo genere - conclude il fisico dell’Asi - La terra è una sfera schiacciata, non precisa, a pera, con un bel po’ di bozzi qua e là. Questa differenza di campo gravitazionale ha un effetto piuttosto evidente sulla determinazione, con pressione, della posizione dei satelliti che per esempio inviano il segnale Gps. Il risultato dell’osservazione ci restituisce una misura di enorme precisione; quella che ci aspettavamo. Ora sappiamo molto bene come è fatta la terra. Dove sono le concentrazioni principali di densità di materia e le anomalie gravitazionali. Conosciamo meglio l’effetto che la terra produce sullo spazio che la circonda».


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mercoledì 6 novembre 2013

Filippo Timi debutta in televisione: investigatore al BarLume di Malvaldi

Il Messaggero, sezione Spettacoli pag. 37,
6 novembre 2013

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro
TELEVISIONE
L’intuizione dell’editrice Elvira Sellerio ha compiuto una strada lunga e felice. Nell’Italia che ama vivere in provincia, le storie raccontate dal microcosmo di un bar letterario, costruito dall’ex chimico Marco Malvaldi, sono diventate un fenomeno editoriale e ora approdano sul piccolo schermo. Due film per la tv (in onda l’11 e il 18, Sky Cinema1), sui quali Sky punta forte per ampliare la propria offerta.

I delitti del BarLume si ispira ai romanzi dello scrittore pisano “Il re dei giochi” e “La carta più alta”, che fanno parte della serie BarLume. «Sul set ho ritrovato le atmosfere che ho inteso rappresentare nei miei libri - dice Malvaldi -. Ci sono aggiustamenti essenziali, ma il senso non svanisce».

La commedia incontra la detective story con l’intenzione di illuminare la complessità, le ipocrisie e la profondità dei legami umani, in luoghi dove ancora non è arrivata l’anonimia urbana.
Al tavolo del BarLume, che si affaccia sul mare toscano, gli irresistibili pensionati Amelio, Pilade, Gino e Aldo scrutano i fatti che segnano la vita di paese. Un omicidio irrompe e stravolge la quotidianità. Loro, una squadra di improbabili investigatori, ne sanno più degli altri. Raccolgono le voci, indagano. Si occupano della cosa pubblica. Incalzano le autorità.

Il barista Massimo, interpretato da Filippo Timi,
prova a trattenere l’irruenza degli amici clienti, per poi lasciarsi coinvolgere dalle tracce che seminano. «Il protagonista è uno vero - spiega l’attore - non uno splendido. Mollato dalla moglie e alle prese con quattro vecchietti terribili. Nella realtà paesana spesso paludata appare un eversivo. Il bar, in fondo, è un agorà: raccoglie i miasmi, i pettegolezzi, l’ironia feroce e l’umanità ricca della provincia italiana. I miei compagni di viaggio raffigurano ed esaltano quel piccolo mondo, scartavetrando le ipocrisie; alla ricerca dell’autenticità».

Per Timi è la prima esperienza televisiva. «Sono un po’ snob - confessa -, ma non rifiuto le proposte. Il problema è che i tempi produttivi sono talmente stretti, che poi non si riescono a realizzare bene. Non ero un lettore di Malvaldi, ma il progetto è originale, interessante e divertente: sarei stato un cretino a rifiutare. Non ho paura di essere di identificato per questo ruolo: mi attrae l’idea di far rinascere più volte lo stesso personaggio; spero che la serie si arricchisca di nuovi episodi».

Il produttore di Palomar Carlo degli Esposti, padre del successo del Commissario Montalbano, gli ha fatto una corte serrata, e ora non intende lasciarselo sfuggire. «Dopo il rifiuto iniziale sono riuscito a convincerlo: volevo solo lui. Malvaldi miscela con equilibrio gli ingredienti più fortunati del romanzo popolare italiano». Possiamo immaginare un’evoluzione alla Montalbano? «Ho proposto questo film a Sky - conclude - per inserirmi in un filone che non avevano ancora esplorato. Ora valuteremo i possibili sviluppi».


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domenica 3 novembre 2013

Pession e l'amore molesto: una fiction contro la violenza sulle donne

Il Messaggero, sezione Spettacoli pag. 26,
2 novembre 2013

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

FICTION
Gabriella Pession vive tra l’Italia e gli Stati Uniti, terra natia e d’approdo professionale. Il pubblico d’oltreoceano l’ha scoperta con il successo mondiale di Crossing lines, trasmesso da Nbc. Un serial di matrice europea che narra le avventure di una squadra speciale anticrimine, istituita dalla Corte Penale Internazionale, nella quale interpreta l’agente Eva, specializzata in operazioni antimafia. Ora a Praga è impegnata sul set del sequel, con le riprese che dureranno fino a marzo. «Sono felice della mia svolta americana - spiega l'attrice -. Allargare gli orizzonti all’estero è stato fondamentale. Lo consiglio a molti colleghi. Ma non dimentico il Paese nel quale sono cresciuta».

I telespettatori italiani, invece, la ritroveranno da lunedì su Raiuno con la fiction Rossella Capitolo secondo, coprodotta da Raifiction e Cattleya. Un progetto che l’accompagna da quattro anni, e che in questa stagione promette un cambio di passo. «La prima serie aveva un tratto più sentimentale e melodrammatico - prosegue -. Stavolta è stato fatto un lavoro diverso sulla sceneggiatura con la firma di Sergio Silva. I temi affrontati sono trasversali e attualissimi con un filo conduttore: l’emancipazione femminile».

Lo sceneggiato ricomincia dall’esame di laurea in medicina
di Rossella, che tra mille difficoltà corona l’aspirazione di diventare pediatra. «Una cosa impensabile nella Genova di fine Ottocento e inizio Novecento, in cui si sviluppa la vicenda». Il riferimento è a Ernestina Paper, prima donna a laurearsi nell’Italia post-unitaria? «No, in realtà il personaggio è di pura fantasia, ma si ispira a tante grandi donne: tra le quali lei, Sibilla Aleramo o Maria Montessori».

GLI EPISODI
Nei cinque episodi s’intrecciano molti argomenti con l’intenzione di raccontare l’evoluzione del ruolo femminile nella società, rappresentando questioni tuttora irrisolte. La pasionaria, rampolla di una famiglia di industriali, rompe i legami familiari per costruirsi un’identità autonoma e difendere la propria passione per la medicina. «Anche se le epoche non sono comparabili, permangono soprattutto in Italia dei nodi non sciolti: l’inserimento lavorativo, il sostegno alla maternità e la violenza alla quale spesso non riusciamo a sottrarci, specialmente in casa. Rossella non è bigotta. Vive pienamente la propria femminilità: compagna, madre e dottoressa. Una donna reale senza caricature o ipocrisie». Rossella Andrei trova ostacoli nell’affermarsi come medico, e tra le mura domestiche con Giuliano; un violento: «Insistiamo molto su questo aspetto. Rossella è vittima di uno stupro consumato dall’ex marito, e ha la forza di denunciare. Compie uno sforzo, superando la vergogna e la paura di parlare».

Inevitabile dunque il collegamento all’attualità: l’emergenza femminicidio. «Dobbiamo avere il coraggio di denunciare fin dalla micro molestia, senza aspettare quando ormai è tardi. Occorre rimuovere i tabù che inducono a tacere e avere una maggiore capacità di ascolto. Rispetto agli Stati Uniti mi rendo conto che qui siamo più indietro: domina ancora il retaggio di una cultura maschilista, facilmente riscontrabile nello sviluppo delle carriere professionali, alimentata anche dal linguaggio televisivo. In Italia è complicato essere donna. Questa fiction vuole proporre qualcosa di diverso».


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venerdì 1 novembre 2013

A Testaccio si riscrive il futuro con il Salone dell'editoria sociale

Il Messaggero, sezione Tutta Roma Agenda pag. 50,
1 novembre 2013

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

IL SALONE
A Testaccio, la cultura incontra e racconta l’impegno civile con la quinta edizione del Salone dell’editoria sociale, diretto da Goffredo Fofi e Giulio Marcon. Un appuntamento unico che è diventato uno strumento per la circolazione delle idee e la promozione di esperienze di cambiamento della realtà. Fino a domenica lo spazio di Porta Futuro (Via Galvani 108) ospiterà presentazioni di libri, dibattiti, proiezioni video e concerti: oltre quaranta incontri con 130 ospiti e protagonisti della galassia del terzo settore. Si analizzeranno gli esiti e le mutazioni indotte dalla gravissima crisi economica, che ha eroso soprattutto diritti individuali fondamentali e la qualità della relazioni umane.

«La crisi globale che stiamo attraversando non è contingente
, né legata solamente al declino dei sistemi produttivi o di uno specifico modello economico - sottolineano gli organizzatori -. È anche una crisi sociale, ecologica, culturale, antropologica, etica e politica che per essere affrontata ha bisogno di qualcosa di più e di diverso di aggiustamenti o modeste riforme. Ha bisogno di una rivoluzione del modo di pensare, di comportarsi: di rimettere al centro la dimensione etica, dell’esempio, del “ben fare” e di un paradigma differente del rapporto tra economia e politica, ecologia e tecnica, società e individuo».

Un tema chiave della manifestazione è il che cosa ne sarà del Welfare State. L’Europa, culla di questo modello di tutela e promozione dell’eguaglianza, verso quale direzione si sta orientando? Si discuterà del destino politico dell’Unione Europea con l’intellettuale polacco Adam Michnik e il tedesco Claus Offe. Con loro anche il sociologo inglese Colin Crouch per approfondire le conseguenze di una società sempre più diseguale.

TAVOLE ROTONDE
Il ministro del Lavoro Enrico Giovannini, e gli studiosi Michele Cangiani e Peter Kammerer, esploreranno l’attualità dell’eredità delle analisi critiche della società di mercato dell’economista ungherese Karl Polanyi. Per il ciclo di tavole rotonde “I maestri ancora necessari”, il primo incontro è dedicato alla figura di Giuseppe Dossetti con l’intervento del presidente del Censis Giuseppe De Rita.

Di particolare interesse è l’appuntamento con il regista Andrea Segre che, accompagnato da Vinicio Capossela, con il documentario Indebito ci conduce mediante la riscoperta del rebetiko, musica di ribellione, nel cuore della crisi greca. Si affronteranno questioni ormai ineludibili come la risoluzione dell’emergenza carceraria italiana, con la testimonianza di Ilaria Cucchi, e i diritti di cittadinanza collegati all'immigrazione con la partecipazione del ministro Cécile Kyenge e Luigi Manconi. Stefano Rodotà terrà una lectio dal titolo “Il diritto di avere diritti”. Goffredo Fofi, Nicola Lagioia e Jaime Riera Rehren con le letture dell'attore Fabrizio Gifuni, renderanno omaggio a Roberto Bolano. Mentre il Premio Strega Walter Siti, chiuderà la rassegna con un dialogo con il critico Alfonso Berardinelli.


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Come vivevano i felici, la saga dei Madoff e quel suicidio rivelatore

Il Messaggero, sezione Cultura pag. 24, 
1 novembre 2013

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

L’INTERVISTA
Massimiliano Governi non si accontenta della superficie; indaga il sottosuolo dei sentimenti, la psiche. Narra i disequilibri e raccoglie i frantumi di una famiglia che si credeva onnipotente, prima di cadere su sé stessa. Come vivevano i felici (Giunti, 139 pagine, 10 euro) non è la cronaca dell’ascesa e del declino dell’ineffabile trader, o del più grande truffatore di tutti i tempi, Bernard Madoff. L'autore, immedesimandosi e scrivendo in prima persona, assume il punto di vista del figlio suicida Mark per denudare un sistema onirico, crudele e la malattia di legami portatori di infelicità.

«Conoscevo approssimativamente la vicenda
 - dice Governi - e la finanza in sé non mi appassiona per nulla. Mi colpì però la notizia del suicidio di Mark. In una sorta di voyeurismo letterario mi imbattei nell’immagine tremenda, poi rimossa da Google, del volto gonfio con il sangue indurito dal naso dopo l’auto-impiccagione. La prima frase è nata lì; dal guinzaglio del cane con il quale si è tolto la vita: una metafora del rapporto con il padre dal quale non è riuscito a liberarsi».

Che cosa racconta di noi il disfacimento del family business Madoff?

«Dalla truffa finanziaria mi interessava tirare fuori quella familiare. Alla costruzione esteriore di mondi fittizi, corrispondeva quella interiore come accade in molti microcosmi familiari. Mi sono ispirato a famiglie letterarie come la Compson ne L’urlo e il furore di William Faulkner o la famiglia Pollit ne L’uomo che amava i bambini di Christina Stead».

In che modo ha interpretato il suicidio?

«Stava per essere coinvolto nelle indagini. La moglie voleva cambiare il cognome ai figli. Viveva tra minacce di tutti i generi, ossessionato dai commenti del web. Il giorno dell’anniversario dell’arresto del padre ha capito di essere l’agnello sacrificale di un sistema».

«Questo uomo mente», appunta su un quaderno una compagna di classe immaginaria di Mark. C’è mai stato un momento di autenticità nel rapporto padre-figlio?

«Quando confessa ai figli il crollo del sistema. Le parole della bambina rappresentano una visione fondamentale. La rincorre, come la verità che tenta di afferrare, ma scappa per poi svanire».

L’intreccio, circostanziato e documentato, appare ambientato in un non-luogo.
«Non sarei riuscito a scrivere la storia ambientandola negli Stati Uniti. Senza citare luoghi l’ho impostata in Italia, dove abbiamo assistito allo sgretolamento di famiglie potenti; come nel crack Parmalat. In realtà però ho trovato una terra di mezzo; un limbo nuvoloso, color cenere».

La figura di Bernie è indispensabile, ma latente nel plot; svelandoci la banalità feroce di un sistema finanziario farsesco.
«La Bernard Madoff Investment Securities era una scatola vuota; non producevano e vendevano beni: garantiva alti ritorni agli investitori, utilizzando le somme versate da nuovi clienti. Un ex bagnino di Long Island, lanciatosi dagli Anni ’60 nell’attività di brokeraggio, ha costruito un impero bugiardo: un caso di longevità unica per i “Ponzi scheme”. Godeva della fiducia di clienti facoltosi, istituzioni e colossi finanziari. Non l’ho visto come un mostro, piuttosto banale nella distorsione funzionale del valore denaro. Ha giostrato un gioco finito male per tanti innocenti».


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lunedì 21 ottobre 2013

Pasticceria, moda e design: la creatività in carcere per reinventarsi con il lavoro

Il Messaggero, sezione Macro pag. 19, 
21 ottobre 2013

di Gabriele Santoro



di Gabriele Santoro

LE STORIE
«V.S. si muoveva con pesantezza. Le braccia mostravano segni evidenti di ferite da taglio, leggere ma fitte. All’inizio era schiva, mi fissava con l’ira negli occhi e chiedeva alle guardie di essere riportata in cella. Tra tessuti, lane, bottoni e filati ha compiuto il primo passo verso il cambiamento: ha trovato la materia per trasformarsi. Noi abbiamo governato artisticamente i suoi eccessi, lei ha scoperto la propria grazia». Monica Cristina Gallo, fondatrice dell’associazione La Casa di Pinocchio, racconta l’impresa quotidiana che si sviluppa nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Un laboratorio tessile dietro le sbarre, sostenuto dalla Compagnia San Paolo, in cui la capacità di progettare e produrre da materiale riciclato di un gruppo di detenute, contrattualizzate e retribuite, ha portato due anni fa alla nascita di Fumne, un marchio di moda ormai commercializzato nei negozi.

CALL CENTER E CERAMICA
Nella difficile realtà dei penitenziari italiani esistono delle oasi con numeri ancora molto piccoli, dove vi sono gli strumenti per attuare con risultati eccellenti il dettato costituzionale di rieducazione del condannato. Storie di riscatto sociale che cambiano la vita a chi ha sbagliato e costituiscono una sfida culturale per il Paese.

A Natale lo squisito panettone, sfornato dentro al Due Palazzi di Padova, registra spesso record di ordini. La pasticceria I Dolci di Giotto è il fiore all’occhiello del Consorzio Rebus, che dal 1990 porta avanti l’integrazione mediante l’occupazione vera. Nelle varie attività (call center, officina meccanica, produzione di ceramica) sono impiegati circa 130 detenuti, che arrivano a guadagnare anche novecento euro al mese. «Non pratichiamo assistenzialismo: qui si compete sul mercato con la qualità del manufatto e la professionalità. Abbattiamo sul campo la recidiva: chi impara un’arte raramente torna a delinquere», evidenzia il presidente Nicola Boscoletto.

Il filo che unisce queste esperienze cooperativistiche è la creatività. A Rebibbia si sogna di aprire il primo museo d’arte contemporanea in un carcere. Un’idea visionaria coltivata da Luca Modugno, che da privato cittadino, in accordo con la direzione della casa di reclusione romana, ha fatto decollare la declinazione sociale della cooperativa Artwo, che investe nel design ecosostenibile. In un laboratorio s'incontrano artisti e detenuti, che nascondono talenti, e dalla decontestualizzazione e il riuso di scarti industriali prendono vita nuovi oggetti belli e utili.


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sabato 12 ottobre 2013

Mala vita, racconti dal carcere e il premio letterario Goliarda Sapienza

di Gabriele Santoro

ROMA – Paola Francesca Iozzi appare a disagio sul palco; gli occhi inseguono il suo altrove distante dai meccanismi di riproduzione della quotidianità. «Anche essere qui è un’esperienza dolorosa», dice. Si è messa in gioco, scrivendo. Come altri quattrocento detenuti nei penitenziari italiani ha concorso al Premio Goliarda Sapienza, dal quale è nata la raccolta Mala vita Racconti dal carcere (Rai Eri, 443 pagine, 11 euro), curata da Antonella Bolelli Ferrera. Un universo di storie: quella della luminosa Nezha Er-Raouy che con il proprio figlio a Sollicciano ha riscoperto la passione smarrita; le memorie indelebili del bambino soldato Richard Goodman; la qualità letteraria di Giovanni Arcuri, già protagonista nella pellicola Cesare deve morire dei fratelli Taviani.

La giuria presieduta da Elio Pecora ha classificato Iozzi al secondo posto, e il suo pensiero si rivolge subito alla sezione femminile di Rebibbia dove è stata reclusa. «Mi auguro che qui entrino i libri, come altre attività culturali». Associazione con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico, attraverso la formazione e le azioni della Federazione Anarchica Informale, è l'accusa e la ragione dell'arresto della poco più che trentenne insegnante marchigiana. «Ci sono finita mentre cercavo la primavera, e qui ho trovato i fiori più duri e aspri che l’inverno da cui fuggivo abbia prodotto», si legge nel racconto breve. Alla ricerca del vento è la narrazione degli esiti nefasti di scelte definitive e totali. Dopo la “disperazione appassionata dell’assalto al cielo”, ora sogna un’altra frontiera da varcare. Quel calore estivo, meraviglioso, che restituiscono i piedi nella sabbia. «In carcere s’impara a trarre la verità delle cose, importa solo l’essenza. Continueremo ancora a pagare quando usciremo. Ho conosciuto più dolore che colpa qua dentro», conclude.

La platea del teatro di Rebibbia accoglie i finalisti del premio
,
giornalisti, politici, magistrati. E in seconda fila i detenuti astanti che si sciolgono parlando di calcio con il presentatore di giornata Pino Insegno. Giancarlo De Cataldo è uno dei tanti amici di penna, che hanno accompagnato gli autori reclusi nell’elaborazione dei testi. Un legame che promette di mantenersi anche dopo l’evento. «Io, che in molti casi ho contribuito a imprigionarli, voglio che il carcere diventi qualcosa di diverso: un centro di recupero attivo delle persone anche mediante la scrittura. Far accettare alla società ciò che afferma la Costituzione rappresenta una sfida culturale non più eludibile», sottolinea il magistrato.

Il cielo in una stanza. In prima fila siede Gino Paoli, presidente della Siae principale promotrice dell’iniziativa. E il vincitore Giuseppe Rampello non se lo lascia sfuggire: «Quando scrivo, penso alla sua canzone, che ho sempre amato e la mia cella non ha più pareti, e il soffitto nero miseria, no, non esiste più. Vedo il cielo e mi risveglio dall’anestesia che mi tiene vivo insieme a mia figlia». La prossima istanza difensiva sarebbe la richiesta d’ergastolo: «E mo che ho vinto chi si muove diretto’! Morire qua è meno spaventoso del rifiuto che mi aspetta fuori». Professionista sessantaquattrenne benestante, sta scontando a Regina Coeli una condanna a oltre quattordici anni per l’omicidio della moglie. «Era gravemente malata. La uccisi perché non volevo vederla soffrire», ripete ancora oggi. 

Con il cronista Pino Corrias è nato Pure in carcere ha da passà ‘a nuttata. In una lingua gaddiana illumina con ironia i Miserabili di Victor Hugo suoi nuovi compagni di strada, che nell’esito delle carte smazzate in cella prefigurano il destino, o più semplicemente un cambio di letto. Persone che entrano ed escono come una massaia dal supermercato di fiducia: «(…) Poi ‘e guardie me conoscono più de Belen Rodriguez e così ‘gni vorta manco me movo che già m’aritrovo ar gabbio! Ahò te dico solo, fèrmate!» Si disegnano le gerarchie nello spazio asfittico di una cella. Si ascoltano le preghiere der talibano mescolate alle imprecazioni. «Qua ho conosciuto la povertà indicibile - dice Rampello -. Vedo sempre gli stessi volti. Ora faccio l’avvocato dei poveri: scrivo loro le istanze, le lettere a casa: mi rendo utile. Sono immerso in un’astronave che ho deciso di raccontare con leggerezza. In queste condizioni la tragedia del carcere non serve a nulla. Così non si rimedia agli errori. Il lavoro dovrebbe essere la parola d’ordine, piuttosto che misure di clemenza».

Gugli è il suo nome d’arte, e ha vinto nella sezione minori. Lo sguardo limpido stavolta mostra un sorriso franco al fianco di Fiamma Satta. Si sta riappropriando del tempo sospeso di una perduta giovinezza. Stringe forte il pc sul quale potrà continuare a scrivere come in una promessa di futuro. Come in un romanzo che si rispetti La seconda volta tiene appeso il lettore. Il riscatto sociale dello scugnizzo non consiste nel Rolex da rapinare, bensì nella passione da coltivare per il teatro. «Non conoscevo i miei sentimenti, la mia onestà, il mio essere gentile, la mia capacità di adattamento a situazioni costruttive, dove realmente ci si mette in discussione. Ora sento l’immenso bene di cui sono capace, e sento l’amore nel mio piccolo cuore innamorato della vita. La seconda volta che sono stato arrestato è stata e sarà anche l’ultima».

venerdì 11 ottobre 2013

Susanna Basso, l'anima italiana delle opere del Nobel per la letteratura Alice Munro

Il Messaggero, sezione Cultura pag. 1-22,
 11 Ottobre 2013

di Gabriele Santoro



di Gabriele Santoro

Ieri Susanna Basso (
nella foto) ha vissuto una giornata particolare. La distanza oceanica che la separa da Alice Munro è stata colmata dalla gioia per il Nobel. È uscita dal cono d’ombra che spesso avvolge il mestiere complesso e duro del traduttore. «Il primo suo libro che tradussi, dodici anni fa, fu Il sogno di mia madre - dice Basso - poi ho compiuto un viaggio nel tempo delle sue opere. Ma in Italia era già arrivata grazie a piccoli editori coraggiosi, quali La Tartaruga, Serra e Riva, E/O. La Einaudi la fece conoscere al grande pubblico. L’ho adorata dalla prima lettura».

È rimasta spiazzata dall’assegnazione del Nobel?

«Mi ha sorpreso completamente, ma ci speravo tantissimo. Per rievocare il titolo di una sua raccolta di racconti: sento Troppa felicità!»

«Me ne ero dimenticata, ma è meraviglioso». Munro prima è apparsa disincantata, poi si è sciolta. La ritraggono sfuggente e impenetrabile. Lei l’ha incontrata?

«La reazione è in linea con il suo carattere. In lei credo convivano due grandi personalità: da una parte l’autrice consapevole del proprio valore, dall’altra la donna che scriveva storie senza smettere di dire allo specchio: chi ti credi di essere? L’ho incontrata una sola volta ma mi fece un’ottima impressione: elegante e ironica».

Concorda o aggiungerebbe qualcosa alla motivazione del premio: «Maestra del racconto contemporaneo»?

«Sì. È una grande maestra del narrare. Parte da un piccolo gomitolo di storie, che poi continua a dipanare senza abbandonare gli stessi embrioni narrativi che invecchiano nel senso più alto. Dice: “Scrivo da dove mi trovo nella vita”. Da lì riprende i bandoli dei racconti e ce li ripropone sempre diversi, nonostante contengano gli stessi personaggi, gli stessi scenari tra l’est e l’ovest del Canada. Tra l’Ontario e Vancouver. Tempi e spazi si scambiano nel corso dei suoi racconti e riesce comunque ogni volta a sorprenderti».

In che modo si è evoluta la sua costruzione dei racconti, che appaiono sempre più diretti e cruenti?
 
«L’evoluzione è molto interessante. I suoi primi racconti erano più radicati nel quotidiano. La sua scrittura è andata asciugandosi. Sì, nelle ultime raccolte ci sono racconti feroci. La violenza che prima era suggerita diventa manifesta. Le cose vengono raccontate con una libertà senile sempre più rilevante. Di particolare interesse è l’operazione che fa sul genere autobiografico in La vista da Castle Rock. Mescola la finzione alla sua vita. Appare lievissima la differenza tra biografia e narrativa».

Il Nobel la farà tornare sulla scelta di non scrivere più?

«Già due volte ha annunciato che avrebbe smesso. L’ultima volta dopo Uscirne vivi che sarà pubblicato da Einaudi. È bellissimo pensare a una terza, imprevedibile, smentita».


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