domenica 24 novembre 2013

Carlo V, il sogno e il fallimento di una monarchia universale

Il Messaggero, Ernani L'evento pag. 62,
24 novembre 2013

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

L’INTERVISTA
Dall’impeto giovanile alla disillusione dell’abdicazione, Carlo V ha condensato nella propria persona un disegno di fede, vita e potenza dinastica, quella degli Asburgo, capace di creare un sistema imperiale transoceanico. Una sfida culturale, prima che politica e religiosa, piena di necessarie contraddizioni e conflitti. Il grandioso fallimento della sua impresa universalistica aprì la via alla modernità europea degli Stati nazionali. Elena Bonora, docente di storia presso l’Università di Parma, tratteggia il profilo e il senso dell’azione dell’imperatore che segnò il Cinquecento facendo convivere in sé l’uomo del Medioevo e quello rinascimentale.

È appropriato definire Carlo V un giovane cresciuto in fretta?
«Sì, anche se nel Cinquecento quindici anni era considerata un’età accettabile per essere re. Certo, su Carlo d’Asburgo si concentrò una quantità di poteri e domini che da secoli nessuno deteneva. Quindicenne, governò i Paesi Bassi, all'epoca una delle aree più urbanizzate ed economicamente avanzate d’Europa. L’anno seguente diventò re di Castiglia e di Aragona, ereditando anche i domini italiani e il Nuovo Mondo. Prima dei vent’anni, nel 1519, venne eletto imperatore del Sacro Romano impero».

La campagna elettorale tedesca per la corona imperiale fu feroce: un intreccio, tuttora inscindibile, tra politica, potere e denaro.
«Fu una campagna estremamente combattuta contro il rivale Francesco I re di Francia. I Sette Grandi elettori si riunirono a Francoforte. Carlo si accreditò come il candidato nazionale avverso al forestiero. Divenne imperatore grazie al denaro prestato dai banchieri tedeschi con cui corruppe i principi elettori e pagò un esercito acquartierato alle porte della città: lo elessero all'unanimità nel giugno del 1519».

Quale fu il sostrato politico e ideologico della sua pretesa imperiale universalistica?

«Si fondò sulla religione. L’ordine, di cui era garante l’imperatore, era secondo la mentalità dell'epoca, voluto da Dio. Per la prima volta, sette secoli dopo Carlo Magno, al titolo imperiale corrispose un potere effettivo ed enorme».

Una concezione medievale che sembra avversare il fermento culturale e l’innovazione delle idee politiche del periodo. Si trattò di un modello distante dalla realtà?

«Certo, la storia seguì poi percorsi diversi. Dopo l’abdicazione e la spartizione dell’eredità dinastica, una volta sancita la divisione confessionale dell’impero tra luterani e cattolici, si infranse il sogno di unità dell’Europa cristiana. La figura dell’imperatore perse il suo significato universale. E si aprì la strada al sistema moderno delle potenze europee, nel quale il peso di ciascuna è determinato dal potere territoriale, militare ed economico. E così la Spagna, con i suoi possedimenti americani, diventò la potenza più forte d'Europa».

In che modo lo influenzò Mercurino di Gattinara, prototipo dell’odierno spin doctor?
«Gattinara era un giurista piemontese, a capo della struttura che doveva mettere per iscritto e ufficializzare le leggi. Mantenne i rapporti con l’esterno, credendo nelle responsabilità globali di Carlo V. Gli ricordò sempre che Dio l’aveva posto lì, elevandolo sopra tutti i re e i principi della cristianità. Mediante la cancelleria imperiale cercò di imporre questa immagine. Dopo il Sacco di Roma, fu il regista di un’offensiva propagandistica, ben riuscita, che, davanti all’Europa attonita, giustificò quello scempio come punizione di Dio, irato contro un Papa inadeguato ai suoi compiti».

Cosa rappresentò in realtà il Sacco di Roma nel 1527?

«Mesi di violenze e saccheggi, perpetrati dai lanzichenecchi tedeschi e dai fanti spagnoli, ridussero la città a cadavere. Per quei soldati, perlopiù protestanti, Roma costituiva la Babilonia da distruggere. La Capitale della cristianità fu profanata non da orde di turchi, bensì dagli eserciti dell’imperatore cristiano. Lo scontro tra le due massime autorità della cristianità, papa e imperatore, continuò negli anni successivi. Nel papato Carlo V ebbe il maggior ostacolo al dialogo e alla mediazione con i protestanti per la salvaguardia dell’unità religiosa europea. Dovette confrontarsi con pontefici il cui scopo principale era conservare la supremazia nella penisola. In molti, e non solo tra i protestanti, sperarono che scendesse in Italia, invadesse lo Stato pontificio e riformasse la Chiesa con un concilio».

Tiziano fu il suo ritrattista e le fonti sono ricche delle sue gesta. Quale immagine pubblica si costruì?
«Ci ha trasmesso il fascino del suo progetto titanico. Riuscì, con gli scarsi mezzi comunicativi dell’epoca, a instillare per un momento in popoli diversi l’idea che ci fosse un’autorità dirimente sugli interessi locali. Una costruzione fragile, come le scenografie di cartone allestite in occasione delle sue entrate trionfali e dei suoi viaggi».


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