lunedì 24 settembre 2018

«Io, artigiano delle storie». L'intervista ad Arturo Pérez-Reverte

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 27

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro
«Non sono un artista, ma un artigiano delle storie. Quello che so e di cui scrivo, l'ho appreso rimboccandomi le maniche della camicia con lo zaino sulle spalle. Sul campo ho visto ciò che è l'essere umano, a volte qualcosa di straordinario, altre un essere pericolosissimo», dice Arturo Pérez-Reverte, scrittore spagnolo e per venti anni corrispondente di guerra.

Reverte continua a muoversi sulla materia narrativa che domina e che gli interessa: il racconto degli esseri umani in momenti di estrema lacerazione come i conflitti bellici. Il lavoro di documentazione del secondo episodio, dopo Il codice dello scorpione, della trilogia che ha come sfondo gli anni della Guerra civile spagnola è durato un biennio.

L'ultima carta è la morte (Rizzoli, 377 pagine, 20 euro, traduzione di Bruno Arpaia) è un noir avvincente, in cui ritroviamo Lorenzo Falcó, avventuriero, ex trafficante d’armi, divenuto spia franchista disincantata all'alba della Guerra civile spagnola. Nel marzo del 1937 Falcó giunge in missione a Tangeri per recuperare, prima che cada in mano ai russi, su un mercantile repubblicano un carico d'oro del Banco de España. Il titolo originale dell'opera è Eva, un'agente sovietica che immagina di lottare per un mondo migliore, ed è l'esatto contraltare di Falcó.


Pérez-Reverte, che cosa l'affascina ancora degli anni Trenta?
«Sono stati l'ultima grande occasione persa, uno spartiacque della storia. All'epoca era ancora possibile gettare le fondamenta di un'Europa diversa da quella travolta dai totalitarismi. Le persone lottarono e morirono per degli ideali. I conflitti sociali continuano a essere gli stessi, ma non abbiamo delle parole in cui confidare per il futuro. Sappiamo qual è stato l'esito tragico delle ideologie nel Novecento, ma c'era un'innocenza di fondo ora svanita. Le persone credevano realmente che il comunismo, il socialismo, il fascismo o l'anarchia potessero essere soluzioni politiche e non Auschwitz o i gulag. Oggi mancano le idee e il coraggio».

Che cos'è oggi l'Europa?
«Sono nato nel 1951 in una casa fornita di una grande biblioteca e mi hanno educato alla conoscenza. Per questa ragione Franco non ha mai calpestato la mia vita, perché ero già europeo e mediterraneo. Durante l'infanzia l'Italia, il Portogallo e Parigi erano casa mia. I miei avi erano etruschi, troiani e greci. Ho considerato sempre l'Europa quel luogo meraviglioso che ha illuminato il mondo con le idee, ma quell'Europa lì oggi sembra condannata a morte. Non temo una nuova guerra, ma l'ignoranza che dilaga, a cominciare da chi esercita responsabilità politiche. Senza Omero, Virgilio, Dante, Cervantes, Montesquieu, Voltaire, Montaigne siamo condannati al declino, perché sono loro l'Europa e li stiamo spazzando via dal nostro dna».

In questa trilogia ha cambiato il classico eroe revertiano. Falcó è diverso.
«Nei miei romanzi c'è quello che definisco l'eroe stanco. È una figura molto ricorrente da Lucas Corso ad Alatriste. In questa occasione intendevo privare l'eroe di qualunque qualità morale, però è bello e capace di gesti eroici, e misurarmi con la sfida tecnica della sua rappresentazione. Di solito i miei eroi hanno avuto una fede, che la vita ha strappato loro. Per Falcó conta l'avventura e lui dà la misura della nostra solitudine in territorio ostile».

Perché ha dato molta rilevanza a Eva?
«Questo romanzo risponde alla necessità di esplorare la donna quale eroe narrativo originale del nostro tempo. Da Omero a oggi abbiamo esaurito ogni possibile combinazione narrativa dell'eroe maschile. Nel ventunesimo secolo si profila un nuovo eroe: la donna che non è più Anna Karenina o Madame Bovary. È un processo creativo con prospettive inattese. Eva è una figura animata da una grande fede nella propria ideologia, che s'inquadra in una stagione di passioni politiche forti».

Lei narra un idealtipo di spie che sembra non esistere più.
«Questione pertinente, perché volevo proprio scrivere un romanzo sullo spionaggio. Oggi tutto si riduce alla tecnologia: droni, satelliti, telefoni. Il fattore umano è ormai secondario. Negli anni Trenta era molto più rilevante ed era ciò che faceva la differenza nella missione. Nei miei romanzi non mi sono ispirato alle spie di Ian Fleming, ma avvicinato a quelle di Eric Ambler, Somerset Maugham o ai primi romanzi di Graham Greene. Le spie in bianco e nero sono molto più gratificanti».

Anche lei si è innamorato della cosmopolita Tangeri, da sempre meta di letterati e artisti?
«L'ho percorsa palmo a palmo, posando lo sguardo dei miei personaggi. È stato il momento più bello, perché odio scrivere, è una fatica infame. La parte bella consiste nel preparare il romanzo, immaginarlo, creare i personaggi e pensare alle strutture che dovrà avere. Tangeri era lo scenario ideale».

Dove ambienterà l'ultimo volume della trilogia, che uscirà a breve in Spagna?
«A Falcó affidano la missione di andare a Parigi, perché c'è un pittore repubblicano di nome Picasso, che sta dipingendo un quadro, Guernica, e il governo franchista non vuole che la tela veda la luce. Chiedono a Falcó di infiltrarsi a Parigi nel mondo di Picasso e di distruggere il quadro. La domanda è: Guernica che conosciamo, è davvero quella che aveva dipinto Picasso? Il titolo del romanzo è Sabotaggio».

In che modo viene maneggiata la storia della guerra Civile, a lungo poco trattata dagli scrittori spagnoli?
«Era una storia chiusa. Era il ricordo dei nonni. La transizione e il processo politico post franchista avevano messo la parola fine. Poi è arrivata al potere una nuova generazione di politici, funzionari privi di una cultura solida, che erano nelle retrovie dei partiti. In assenza di idee forti, hanno dissotterrato senza una riflessione profonda la guerra civile con la divisione plastica tra buoni e cattivi. Non hanno analizzato nulla, etichettando tutto. La guerra è una tremenda ed eccellente scuola per comprendere la natura dell'essere umano. Sul campo di battaglia viene meno la nitidezza dei pregiudizi e delle certezze. In Spagna la causa era chiara: di fronte alla sollevazione fascista la Repubblica rappresentò la ragione e la legalità. Nonostante si sappia dove fosse la ragione, non si può abdicare alla complessità con un racconto repubblicano manicheo. La storia della Guerra civile non è quella di quattro militari e cinque vescovi contro il popolo».

È d'accordo con la proposta del governo spagnolo di spostare la tomba del Caudillo dalla Valle dei Caduti, dove giacciono 33.000 morti della guerra civile nel triennio 1936-1939? 
«Non mi interessa che i resti di Franco siano riesumati o che sia sepolto in un altro luogo. Franco ha smesso di essere un mio problema quarant'anni fa. Non sono un politico e non ho bisogno del suo fantasma. Gran parte degli spagnoli è indifferente alla disputa tra i partiti: a destra spingono per allontanarsi dall'eredità franchista, a sinistra non fanno altro che ricordarglielo».


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