sabato 26 dicembre 2009

L'America dello Nba special Christmas

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di Gabriele Santoro


ROMA (26 dicembre) - «Avrei trovato bizzarro non lavorare a Natale. E’ speciale giocare, mentre la gente è in casa e si gode le feste sorseggiando l'eggnog (tipica bevanda natalizia statunitense, una sorta di zabaione con latte uova e panna, annegato nel whisky e nel rum, ndr)». Ecco come Derek Fisher, playmaker veterano dei Lakers, descriveva alla vigilia della sfida con i Cavaliers la straordinaria normalità dell’Nba Special Christmas. Un evento unico, orchestrato a dovere dal commissioner Nba David Stern, capace di catturare l’attenzione di milioni di statunitensi, probabilmente anche quella del presidente Barack Obama, partito per le vacanze alle Hawaii rinfrancato dal traguardo ormai vicino della riforma sanitaria, fondamentale per la campagna elettorale di medio termine. Una notte per dimenticare le tribolazioni della Main Street americana, stritolata nella morsa della disoccupazione record e animata dalla rabbia verso i profitti record di Wall Street. Nell’anno della crisi globale i traders delle prime ventitre banche e fondi d’investimento della piazza borsistica Usa si spartiranno una torta di bonus record da centoquaranta miliardi di dollari.

Fuori dallo Staples Center il sole rende ancora più attraente la costa di Los Angeles, dentro all’arena losangelina l’atmosfera è ancora più calda. Scorrendo il parterre dei Lakers sembra di stare più alla prima di un film di Hollywood, che a una partita di pallacanestro. Prima della palla a due degli improbabili cantanti addobbati da Santa Claus eseguono una versione natalizia di The Star-Splanged Banner (la bandiera adorna di stelle, ndr), l’inno Usa. Bambini emozionati si tengono stretti i gadget distribuiti dalle star in canotta, immortalati nei poster che colorano le pareti di casa e animano i sogni.

«E’ una tradizione ed è davvero speciale farne parte». Kobe Bryant sa quanto la partita di Natale può essere lo spartiacque di un’intera stagione. Proprio un anno fa con i suoi Lakers inflisse una pesante lezione ai Boston Celtics, campioni in carica, interrompendo una striscia di diciannove vittorie consecutive e regalando al proprio coach la millesima vittoria in carriera. Una sconfitta che ha messo molta sabbia, complice una sequela infinita di infortunati, negli ingranaggi della squadra di coach Doc Rivers. Certo tra Cleveland e Los Angeles non c’è la stessa rivalità storica che con i Celtics, ma da settimane sulla bocca di tutti i media d’oltre oceano aleggia la sfida Bryant-James. Il campione, che non ne vuole sapere di cedere lo scettro, e l’erede designato, che ha fretta di vincere. Una scena esemplificata negli ultimi 2’ di garbage time: a partita ormai chiusa Kobe (35 punti con 35 tiri) difende come un ossesso su Lebron, lanciando messaggi chiarissimi.

Questa volta Mike Brown, tecnico di Cleveland, disegna la partita perfetta e i suoi dopo una partenza a rilento dominano in casa dei campioni. L’ex Lottomatica Roma, che nostalgia incolmabile, Anthony Parker monta una guardia asfissiante sul 24 gialloviola. Shaquille O’Neal (11 punti, 5 schiacciate), che scortato dalla guardia del corpo pure in panchina viene accolto da fischi e qualche timido applauso, schiaccia tutto quello che gli passa per le mani e in difesa è una muraglia. Malissimo il reparto lunghi dei Lakers: il Gasol (4/11 al tiro) fresco di rinnovo (57 milioni Usd fino al 2014) in post-basso è evanescente e Bynum è la solita testa svagata. King James (26 punti, 9 assist) spegne l’agonismo fine a se stesso del pittoresco Artest con la sua fisicità straripante: attacca il ferro con una prepotenza unica, dalle mani dorate scaglia assist sublimi.

Poi se anche il globetrotter di Cleveland Jamario Moon (13 punti, 7/8 al tiro) non sbaglia nulla, c’è poco da fare per dei Lakers troppo nervosi. Espulso un anonimo Odom (6 punti, -18 di plus/minus). Volano parole grosse tra Fisher e Mo Williams (28 punti). I due leader si portano troppo rispetto per affrontarsi direttamente, ma l’aria è frizzantina. Lo Staples non gradisce lo spettacolo e si scatena in un inedito, per le arene a stelle e strisce, lancio di oggetti in campo. Nell’intervista durante l’ultimo time-out un ecumenico e inimitabile Phil Jackson prima sposta il mirino verso la terna arbitrale, per poi lasciarsi andare a uno dei suoi sorrisi sornioni: «La cosa più importante è fare un augurio di Buon Natale a tutti gli appassionati». Già è meglio pensare alle feste coach Jackson.

domenica 15 novembre 2009

Fenomeno BJ, da Compton per Roma destinazione Nba

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i Gabriele Santoro


ROMA (15 Novembre) – Semplicemente fenomeno, Jennings ha fatto meglio anche di Kareem Abdul Jabbar. Che nel destino di Brandon Jennings ci fosse scritto di bruciare tutte le tappe era ormai una certezza. Ma il diciannovenne, primo giocatore statunitense a saltare il college per venire in Europa con la casacca della Lottomatica Roma, questa volta è andato veramente oltre: i 55 punti (14/26 da 2, 7/8 da 3) in tre quarti di gioco, realizzati contro la pur allegra difesa di Golden State, lo inseriscono di prepotenza nell’Olimpo della Nba. Per la cronaca la sua Milwaukee ha battuto i californiani 129-125 ed è giunta alla quarta vittoria consecutiva, una marcia davvero sorprendente rispetto alla qualità del roster.

Il play di Compton ha superato il record di punti per un rookie in maglia Bucks, detenuto da un certo Kareem Abdul Jabbar (51 punti il 21 febbraio del 1970), e si è fermato a tre punti, 58, dal record assoluto della Lega della leggenda Wilt Chamberlain. Il Bradley Center di Milwaukee si sta accorgendo sempre più di aver fatto il vero colpo dell’ultimo Draft. La sua scelta al numero 10 è passata sotto silenzio, ma ormai ha conquistato la fiducia di un coach esigente come Scott Skiles. Brandon è contento, ma non si sbilancia: «Mi sento come nell’ultimo anno da senior a Oak Hill. E’ vero le statistiche sono ottime, ma non penso solo a segnare. Mi adatto alle esigenze della squadra». Possiamo immaginare la straripante felicità della mamma, sua ombra nell’esperienza romana, che l’ha cresciuto da sola dopo il suicidio del marito e padre di B.J..

La copertina del portale Nba.com è tutta sua: “Benvenuti alla festa di Brandon”, così come impazzano tutti i forum degli appassionati statunitensi. Nella locker-room (spogliatoio) dei Bucks si affollano i microfoni. Scott Skiles quasi non ci crede: «Non so veramente cosa dire. In una partita giocata non bene difensivamente dalla mia squadra, Jennings ci ha letteralmente preso per mano. Ho detto ai miei diamo la palla a Brandon e lasciamolo lavorare: per un rookie alla settima partita tra i Pro è qualcosa di incredibile». Le parole del coach avversario il volpone Don Nelson sono ancora più esplicite: «Che partita! In trent’anni di carriera è la migliore prestazione di un rookie a cui abbia assistito. Abbiamo provato a fermarlo, ma è stato veramente dura».

Ora nella mente si rincorrono due domande. Quanto possa avergli fatto bene imparare a gestire la pressione di una stagione da professionista in Europa? Come è possibile che con la maglia di Roma, tolta l’ottima pre-season, non abbia combinato praticamente nulla?Alla prima domanda la risposta è sicuramente tanto. Jennings sta affrontando tutte le partite con lo spirito e la mentalità giusta, quella europea di chi sa che ogni vittoria è fondamentale fin dalla stagione regolare. La seconda domanda andrebbe girata allo staff tecnico della Virtus Roma. In ordine all’ex coach Jasmin Repesa e all’attuale Nando Gentile per la gestione del giocatore. Jennings nella scorsa annata è stato relegato a terzo playmaker, nelle rotazioni dietro a un certo Giachetti, e poi messo in tribuna per far posto ai disastri di Ruben Douglas e a Jurica Golemac. D’accordo il gioco in campo aperto dell’Nba si adatta maggiormente alle caratteristiche di Jennings, ma è possibile che in un paio di mesi si sia trasformato da brutto anatroccolo in cigno? Dejan Bodiroga, l’unico a difendere sempre BJ, ci aveva visto bene e non resta che consolarsi con l’idea di avergli almeno visto indossare la maglia virtussina.

giovedì 12 novembre 2009

L'arte fotografica di Woods e l'Africa

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di Gabriele Santoro


ROMA (12 Novembre) - Le copertine di Time, Newsweek, Internazionale e i servizi di molti quotidiani tra cui Le Monde e Le Figaro, ospitano regolarmente le fotografie di Paolo Woods. L’obiettivo del trentacinquenne fotoreporter, nato da genitori canadesi e austriaci, cresciuto in Italia e ora residente a Parigi, ha incontrato e raccontato la violenza e la paura delle guerre in Afghanistan e in Iraq, ha varcato le soglie proibite delle scuole clandestine dove si affollano per studiare le donne afgane e ha dato un volto agli “insorti” iracheni.

Nel 2004 il libro “American chaos” (reportage sul pantano Usa in Iraq) gli è valso il prestigioso premio World Press Photo Award.Woods ha sempre la valigia pronta con l’insaziabile curiosità di raccontare il mondo fuori dagli stereotipi. Un fotogiornalismo all’antica che senza l’ossessione dello scoop a orologeria coltiva i rapporti umani, non ruba gli scatti e percorre strade polverose per cercare storie che troppo spesso non fanno notizia. Si cala con rispetto in realtà spesso dure ed è in grado con lo scatto di restituirne la complessità emotiva e sociale. Nell’ultima opera, Cinafrica, Woods ha esplorato con i compagni di lavoro Serge Michel (corrispondente di Le Monde dall’Africa occidentale) e Michel Beuret (caporedattore della rivista L’Hebdo) quindici paesi africani catturando i fotogrammi della presenza cinese con le sue potenzialità e i suoi pericoli.

Cosa sta cambiando nell’Africa con gli occhi a mandorla?
«Cinafrica nasce dalla necessità di raccontare un’Africa diversa, non il solito stereotipo del continente con la mano tesa in richiesta di aiuto. L’investimento cinese ha una portata rivoluzionaria, che sta cambiando l’intero scenario africano. La Cina ha posato uno sguardo diverso. Il rapporto si gioca alla pari: gli Stati africani vengono trattati come business partner».

Non si corre il rischio di assistere a un film già visto: il neocolonialismo economico?
«Non lo definirei neocolonialismo, un termine carico di significati e che ha precisi riferimenti storici. Piuttosto il pericolo più incombente è l’affermazione di un capitalismo selvaggio, già motore del boom carico di iniquità cinese, dove i diritti dei lavoratori sono calpestati». Che tipo di rapporto avete instaurato nel libro tra fotografia e inchiesta giornalistica?«Da diversi anni lavoro con il giornalista di Le Monde Serge Michel. Dalla stretta sinergia tra reportage fotografico e inchiesta giornalistica nasce un prodotto più ricco, che ha un maggiore impatto sui lettori rispetto alle due modalità narrative prese singolarmente».

Viviamo nell’epoca del giornalismo embedded. Com’è possibile ancora muoversi in posti di frontiera?
«Con i ritmi dell’attuale sistema dell’informazione un quotidiano, per esempio, non dà più la possibilità a un inviato di passare molto tempo in un posto senza offrire in tempi ristretti un prodotto finito. Il nostro è un modo di fare giornalismo all’antica, dove la cura delle fonti primarie e la costruzione di un rapporto fiduciario è fondamentale. E non è per niente facile muoversi. Ho realizzato reportage fotografici in zone di guerra come l’Afghanistan, l’Iraq, il Kosovo, ma in Africa è stato ancora più difficile. Per ottenere l’accesso e i permessi giusti abbiamo passato anche tre settimane nello stesso posto».

Chi vive in condizioni difficili come affronta l’obiettivo delle fotocamere?
«Non si tratta mai di scatti rubati. La foto arriva dopo la conoscenza, che spesso si è poi protratta nel tempo. Si verificano anche situazioni di pericolo come per esempio nelle scuole clandestine frequentate da donne in Afghanistan: dove i loro sguardi trasmettono la sensazione di paura di essere scoperte e fotografate oltretutto da un occidentale».

Cosa prova quando con lo scatto fotografico cattura uno sguardo, una situazione particolare? «La molla più grande che ti spinge è sempre la curiosità. Per fare belle fotografie bisogna vivere il piacere della scoperta. Le sensazioni poi cambiano da situazione a situazione, da quelle più appassionanti a quelle più formali. Come scherza Serge Michel il momento del clic sulla macchina può essere paragonato al raggiungimento di un orgasmo. Potremmo definirla come una piramide di emozioni che raggiunge il picco più alto nella frazione di secondo dello scatto».

Il "grande balzo" della Cina in Africa

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di Gabriele Santoro


ROMA (12 Novembre) – «Ni-hao». Per le strade di molte città africane i bambini hanno ormai imparato a salutare gli stranieri in cinese. Il nuovo «Grande balzo» verso il futuro della Cina si chiama Africa. Serge Michel e Michel Beuret, con le fotografie dell’italiano Paolo Woods, documentano in «Cinafrica» (ed. Il Saggiatore, euro 19.50, pag. 234) la presenza sempre più pervasiva del gigante asiatico nel continente africano e la rivoluzione geopolitica che ne scaturisce. Un reportage giornalistico d’altri tempi che ha toccato quindici paesi per comprendere come i cinesi siano riusciti a entrare nel cuore degli africani: conquistano la popolazione costruendo strade, dighe e ospedali e vanno d’accordo con i dittatori locali, perché i diritti umani sono da sempre l’ultimo dei problemi per Pechino.

Entro il 2010 gli investimenti della Cina in Africa potrebbero raggiungere i cento miliardi di euro: in Nigeria, Sudan e nella Repubblica democratica del Congo si concentrano le risorse più consistenti. Le imprese cinesi operanti sul territorio sarebbero già novecento. Nelle agenzie di viaggi della remote e sottosviluppate province cinesi campeggia la scritta: «Lavorate all’estero, realizzate i vostri sogni». Secondo stime attendibili sarebbero oltre cinquecentomila le «formiche silenziose» già emigrate in Africa. «Peng Shu Lin è seduto sul letto con la sua sola borsa nera sulle ginocchia. E’ pronto a trasferirsi per tre anni in Nigeria. “Qui in fabbrica guadagno 60 euro al mese - racconta Shu Lin nel libro - mentre in Africa avrei un salario di 373 euro. Al ritorno a casa con i soldi messi da parte potrò sposarmi e aprire persino un Internet café”».

A fronte di multinazionali occidentali che depredano a prezzi irrisori le risorse minerarie del sottosuolo africano senza lasciare alcuna ricchezza in loco, l’offerta di Pechino è destinata a soppiantare questo tipo di neocolonialismo economico. Le imprese cinesi, con il sostegno delle banche nazionali, garantiscono pacchetti completi, come spiega agli autori Ousmane Sylla ministro delle miniere guineano: «Una miniera, una diga, una centrale idroelettrica, una ferrovia e una raffineria, il tutto finanziato dalla Exim Bank of China (principale fonte di finanziamento dei progetti cinesi in Africa), che viene rimborsata in allumina. L’operazione a noi non costa nulla, ma crea lavoro, entrate fiscali, infrastrutture, energia».

«La Guinea produce ogni anno 20 milioni di tonnellate di bauxite. Sufficiente a fabbricare annualmente 200 miliardi di hard disk o 300 miliardi di lattine per bibite. Ma siccome il minerale viene esportato senza essere trasformato, senza creare un indotto lavorativo, valore aggiunto o entrate fiscali significative i suoi abitanti non hanno i soldi per comprarsi una lattina di birra». Una reciprocità virtuosa di interessi, chiamata vincente-vincente, che garantisce all’Africa di affrancarsi da questo paradosso secolare e alla Cina di soddisfare la voracità energetica del proprio impetuoso sviluppo.

Il mercato delle armi. In questo florido mercato, che dal 1997 al 2006 in Africa è cresciuto del 51%, la Cina è entrata prepotentemente a far concorrenza ai paesi del G8. «Nel periodo 2002-2005 il primo fornitore di armi all’Africa era la Francia, seguita dagli Stati Uniti (nell’anno fiscale 2007/08 i contratti di vendita Usa hanno toccato i 34 miliardi di dollari, ndr), Russia e Cina». «Dopo le riforme di Deng Xiaoping l’esercito cinese mette in piede dieci imprese. I loro nomi ora circolano ovunque in Africa: Norinco, Xinxing Corporation, Poly Group». Una buona parte dei machete che nel 1994 hanno sconvolto il Ruanda sono stati importati appositamente nel biennio precedente dalla Cina. Nel 2005 il gigante asiatico ha esportato quasi 100 milioni di dollari di armi in Sudan.«In Sudafrica la maggior parte delle rapine a mano armata viene realizzata con la pistola 9mm commercializzata dalla Norinco, arma che ha inondato il mercato sudafricano e tuttavia nessuna statistica doganale menziona il suo ingresso nel paese». Non stupisce la “morbidezza” di Pechino nei confronti dello Zimbabwe di Mugabe: «Nel giugno 2004 la Cina gli avrebbe venduto armamenti per una cifra di 240 milioni di dollari. Il 18 aprile 2008, tra il primo e il secondo turno delle elezioni presidenziali (mentre il mondo richiedeva sanzioni contro i brogli elettorali di Mugabe, ndr), i portuali di Durban per solidarietà con gli oppositori del regime si rifiutarono di scaricare sei container del cargo An Yue Jiang, contenenti 3080 casse con tre milioni di proiettili, 1500 razzi e 2700 proiettili da mortaio e diretti al ministero della difesa di Harare».

Cinafrica è una guida preziosa per chiunque voglia addentrarsi nelle complesse dinamiche africane. Il dato inequivocabile che si afferma è che gli sforzi messi in atto da Pechino «per raggiungere i propri obiettivi offrono all’Africa un futuro. La Cina ha recuperato un continente alla deriva, restituendogli un valore reale, tanto agli occhi dei suoi abitanti quanto all’estero».

martedì 10 novembre 2009

MarPiccolo, rabbia e speranza dal Meridione d'Italia

Nel MarPiccolo dell’avvelenata Taranto il regista Alessandro Di Robilant dipinge l’affresco quanto mai realistico del Meridione d’Italia, lacerato dalla rabbia di un futuro senza speranza e strozzato dal cappio mafioso. La pellicola, presentata e accolta con successo alla Festa del cinema di Roma, del regista del Giudice ragazzino (1994, la biografia di Rosario Livatino, giudice siciliano ucciso dalla mafia nel 1990)è una vibrante narrazione dello stato di abbandono strutturale in cui versano le periferie di troppe città italiane.

Nelle case di cartone della banlieue tarantina del quartiere Paolo VI, il personaggio commovente Tiziano, interpretato dal giovane Giulio Beranek , si dibatte negli espedienti quotidiani (dallo spaccio ai furti) della sua adolescenza rubata, portando sulle proprie spalle di tredicenne i debiti di un padre rimasto senza lavoro dopo aver denunciato i veleni dell’Ilva. Tiziano è già l’uomo di casa, che deve consolare la madre dalle frustrazioni quotidiane. Nella sua stanza costruisce un veliero di legno per volare via, legge le favole alla sorellina e la rassicura dalle paure che si trasformano in “onde” nello stomaco.

Di Robilant denuncia l’assenza di uno Stato capace di mandare solo i poliziotti di pasoliniana memoria, quando c’è da sgomberare il presidio delle madri che vogliono impedire l’installazione di un ripetitore di onde elettromagnetiche davanti a una scuola elementare. Lo Stato delle liste di attesa infinite per l’assegnazione delle case popolari, «quelle con i mattoni e la rete fognaria».

La storia d’amore adolescenziale di Tiziano con Stella, recitata dalla bella e brava Selenia Orzella, sull’orizzonte di un mare inquinato e puzzolente sprigiona tutto il calore e l’umanità repressa di una generazione nuova, che è costretta a ripercorrere sempre la stessa strada per la salvezza: l’emigrazione.
Sullo sfondo della vicenda aleggia il fine ricatto mai dei clan mafiosi, che tolgono anche la dignità alla povertà. Una volta entrato nel giro criminale, che appalta a pochi euro la libertà individuale, si contrae un debito estinguibile solo pagando il prezzo più alto: la propria vita.

lunedì 9 novembre 2009

K-Win, soft touch

di Gabriele Santoro


Kennedy Winston ha sempre un bel sorriso che gli disegna il volto. Anche nei momenti caldi delle partite sembra non scomporsi mai. Traspira la serenità di chi, dopo aver indossato già sei maglie in cinque stagioni europee, ha trovato nella Lottomatica Roma la dimensione giusta per esprimere con continuità il proprio talento. In questo scorcio di annata l’ala statunitense ha già conquistato la fiducia di allenatore, compagni, e l’entusiasmo dei tifosi grazie alla sua duttilità tecnica e a numeri inequivocabili: 13.5 punti, che salgono a 15.7 in Eurolega, e 4 rimbalzi di media in campionato. Andando oltre le statistiche piace l’eleganza del suo gesto tecnico e la capacità di prendersi i tiri che contano.

Winston proviene dalla difficile terra di Rosa Parks (coraggiosa attivista afroamericana, che nel 1955 compì il gesto storico di rifiutare di cedere il posto occupato nella parte del bus riservata ai bianchi), l’Alabama, che porta ancora le ferite dello schiavismo nelle piantagioni di cotone e della segregazione razziale (solo nel 1965 con il Civil Rights Act i neri acquisirono il diritto di voto). Dopo una brillante carriera universitaria non ha spiccato il volo per l’Nba e ha iniziato a cercare gloria dall’altra parte dell’oceano. Vanta esperienze con i migliori team continentali, prima Panathinaikos poi Real Madrid, in cui però non è riuscito mai a conquistare il copione dell’attore protagonista. La scommessa della dirigenza virtussina sta già pagando i primi dividendi. Ora c’è un intero anno per continuare a scoprirsi belli e per saziare la fame di vittoria di un’ottima forchetta (ha già girato molti ristoranti della Capitale, ndr) come Kennedy.

Si aspettava un inizio di stagione così positivo?
«Nella preparazione estiva ho lavorato duro, così come tutti i miei compagni. Volevo ambientarmi il più velocemente possibile nella nuova realtà e sono contento di esserci riuscito. Ho trovato una situazione e un ruolo che permette di esprimermi al meglio. Certo la strada da percorrere è lunga e non mi accontento di quello che sto facendo».

Nel corso della sua carriera la mancanza di continuità è sempre stato il suo tallone d’achille. In questa realtà pensa possa essere diverso?
«Non è facile essere continui quando hai pochi minuti a disposizione, nei quali non puoi permetterti di sbagliare nulla. A Roma sono un punto di riferimento per la squadra, resto in campo oltre venti minuti in media e ho molte responsabilità. Il mio obiettivo è quello di migliorare ed essere protagonista sempre grazie alla fiducia del coach e dei compagni».

Il paragone con l’Anthony Parker visto a Roma le pesa o crede di poter interpretare quel ruolo di giocatore all-around pieno di talento?

«Parker è un giocatore favoloso. Non mi interessano le etichette, penso a fare la mia parte. Certo anche a me piace rendermi utile in tutte le situazioni del gioco. Curare tutti i particolari che aiutino a vincere. Non bado alle statistiche: è inutile fare venti punti o più a sera, se poi non difendi con aggressività o non ti fai sentire a rimbalzo».

La Lottomatica è la sua sesta squadra in Europa. La considera un punto di arrivo o una semplice tappa?
«Dopo il college ho fatto un passo molto lungo andando al Panathinaikos. Sento di non aver avuto la possibilità di dimostrare tutto il mio valore. Ora finalmente ho l’opportunità di farlo e voglio far vedere alla gente chi è il vero Winston sul parquet».

Obradovic l’ha sempre descritto come un giocatore di qualità. Hai qualche rimpianto per l’esperienza al Panathinaikos?
«Non si possono avere rimpianti, quando giochi nella squadra più forte d’Europa. Vestire la maglia del Pana è stata un’esperienza unica. Ho imparato moltissimo, soprattutto cosa significa essere un vero professionista dentro e fuori dal campo».

venerdì 30 ottobre 2009

Furia divina, l'Islam tra dialogo e radicalismo

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di Gabriele Santoro


ROMA (30 Ottobre) – José Rodrigues Dos Santos, anchorman di punta della tv pubblica portoghese Rtp e scrittore di successo, in Furia divina (Cavallo di ferro, pag. 507, euro 19.50) rappresenta in maniera inedita, documentata e accattivante il radicalismo islamico e la derivante minaccia terroristica.

Nella fiction letteraria l’incubo della bomba nucleare s’intreccia con l’interpretazione letterale dei versetti coranici insegnata nelle madrase (scuola in lingua araba) del mondo musulmano. Dos Santos nel suo romanzo thriller, che riporta fedelmente citazioni religiose dal Corano e dati reali sul traffico dell’uranio, richiama l’Occidente distratto e “buonista” a una diversa presa di coscienza del fenomeno. Torna sulla scena il professore e criptologo Tomas Noronha, presente già nel romanzo dell’autore «Einstein e la formula di Dio», chiamato a sventare un attentato nucleare, che vede come protagonista il giovane islamico Ahmed, in uno scenario globale che affonda le radici nelle paure e nelle contraddizioni del nostro tempo.

In Furia Divina rievoca scenari da scontro di civiltà tra radicalismo islamico e Occidente. Nel suo romanzo il Corano è un libro di “guerra”?
«L’Islam è una religione complessa. Disegnata spesso agli occhi degli occidentali come pacifica, tollerante e questo è in parte vero. Molti versetti coranici parlano di amore e tolleranza. Ma c’è un’altra faccia dell’Islam, quella della guerra, rintracciabile nel Corano e di cui nessuno parla. Spesso derubrichiamo gesti come l’ultimo attentato alla caserma di Milano come semplice opera di squilibrati. In realtà i radicali islamici sono persone assolutamente normali. Allora perché lo fanno? La risposta si trova nel Corano. Il 60% dei versetti richiamano alla guerra con l’impartizione di ordini precisi e la loro interpretazione letterale è un pericolo per tutti. In questo romanzo voglio mostrare questa parte occulta dell’Islam».

L’intreccio narrativo è incalzante. Una fiction che vuole riprodurre, con continui riferimenti ai versetti coranici, il cortocircuito culturale che anima il terrorismo di matrice religiosa. Quale lavoro linguistico c’è stato dietro e su quali fonti si è basato?
«Intanto la lettura e l’analisi del Corano nella traduzione in portoghese e delle cronache della vita del profeta Maometto in inglese, poiché non conosco l’arabo. In un secondo momento ho studiato i testi dei radicali islamici, per comprenderne l’ideologia. In tutti i miei romanzi la fiction, come una storia d’amore o di spionaggio, è lo strumento per raccontare un tema reale. Dopo averlo scritto lo sottopongo alla verifica di esperti dell’argomento per averne un riscontro di attendibilità. In questo caso mi sono affidato a un religioso musulmano moderato e alla testimonianza di un ex membro di Al-Qaeda (arrestato nel 1991 a Roma, dopo aver attentato alla vita dell’ex Re afgano Zahir Shah, ndr), che ha confermato l’aderenza alla realtà della mia descrizione degli estremisti».

La minaccia nucleare di Al-Qaeda è così incombente come la descrive nel romanzo?
«Certo non si tratta di una minaccia esclusiva. Come spiego in Furia divina fabbricare una bomba nucleare è facile, si può farla anche nel garage di casa. La cosa difficile è fornirsi sul mercato di circa cinquanta kg di uranio arricchito al 90%. Sappiamo che Al-Qaeda è in possesso di una quantità non precisamente quantificabile di uranio arricchito. Sappiamo che Al-Qaeda ha consultato degli scienziati del progetto nucleare pachistano. Osama Bin Laden definisce come “un dovere religioso l’acquisizione di armi per impedire agli infedeli di infliggere incredibili sofferenze”. Servizi di intelligence occidentali sostengono che adesso non è più questione del se avverrà un attentato nucleare, ma solo del quando».

La Cia e gli altri servizi di intelligence occidentali, che nel suo thriller assumono il ruolo di garanti della nostra sicurezza, non hanno precise responsabilità nella proliferazione e nella forza bellica del radicalismo islamico?
«Nella contrapposizione tra blocchi durante la guerra fredda, l’America ha certamente armato i nemici di oggi. E’ una verità storica che nel mondo arabo per fermare il diffondersi del nazionalismo socialista, si è sostenuto formazioni militari di matrice religiosa. Ma il fondamentalismo non è un’invenzione statunitense. Non è la Cia ad aver scritto il Corano».

La figura del giovane Ahmed rappresenta il travaglio interiore di un ragazzo fatalmente attratto dalla predicazione nelle madrase. L’importanza dell’educazione è al centro della sua opera?
«La questione delle madrase è lo snodo cruciale. Il problema è che con i soldi dell’Arabia Saudita si stanno costruendo e diffondendo in tutto il mondo islamico le madrase e nel curriculum pedagogico di queste scuole c’è l’interpretazione letterale del Corano. Sono una fabbrica di estremisti . Ma per l’Occidente si pone la stessa necessità di vigilanza sulla predicazione nelle nostre scuole islamiche. Non si tratta di proibire l’insegnamento del testo religioso, ma occorre stroncare ogni tipo d’incitamento alla violenza che si fondi sull’analisi letterale del Corano. Bisogna rispettare tutti i credenti che amano e non odiano, in questo l’educazione gioca un ruolo fondamentale».

martedì 13 ottobre 2009

Vdb e il ciclismo

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di Gabriele Santoro


ROMA (13 ottobre) – La parabola, fatta di pochi alti e molti bassi, del ciclista belga Frank Vandenbroucke è finita in una stanza d’albergo in Senegal, stroncato da un embolia polmonare. Vandenbroucke solo la settimana scorsa aveva annunciato di voler tentare un ennesimo ritorno alle gare professionistiche con il sostegno del tecnico italiano Aldo Sassi (già allenatore del campione del mondo Cadel Evans, ndr): «Lo so che a 34 anni non sarà facile trovare un nuovo ingaggio, perché tutti pensano che non sono riuscito a liberarmi dai miei demoni».

Prima il doping, poi il tunnel della cocaina, la depressione e problemi in famiglia culminati in due tentativi di suicidio nel 2005 e nel giugno 2007 a Milano. Una deriva progressiva che purtroppo non è una novità nel mondo del ciclismo: dalla tragica fine di Marco Pantani nel residence Le Rose di Rimini a quella dell’amato scalatore spagnolo José Maria Jimenez scomparso a trentadue anni in una clinica psichiatrica di Madrid, dove era ricoverato per curare una profonda depressione che lo aveva colpito quando era ancora in sella.

«La grazia», «classe e talento allo stato puro», «un’intelligenza nelle gare considerevole». Dalla prima vittoria in una tappa nel 1994 al Giro del Mediterraneo abbondavano gli aggettivi per definire il talento cristallino di Vandenbroucke, la più grande speranza del ciclismo belga nella seconda metà degli anni Novanta. Un movimento che ha radici profonde nelle Fiandre e in Vallonia, dove si corrono alcune delle corse classiche più importanti. Vandenbroucke è stato da subito designato come l’erede del mostro sacro del ciclismo belga, Eddy Merckx: «L’unico in grado di riportare la maglia gialla in Belgio». Un’eredità e una responsabilità pesantissima anche per questo estroverso e sfrontato vallone.

Vandenbroucke ha fretta di vincere. All’età di cinque anni viene investito da un’auto e da allora convive con una debolezza strutturale del ginocchio sinistro con la gamba più corta di sedici millimetri rispetto all’altra. «Pensa che avrà una carriera breve - spiegano i tecnici a lui più vicini - e questo spiega la sua frenesia di vittoria. Corre sempre come se fosse l’ultima gara». Vandenbroucke da professionista vince quarantacinque gare e fa le cose migliori in maglia Mapei, diretto dal belga Lefévère. Nel suo palmares ci sono le classiche Parigi-Bruxelles, la Gand-Wevelgem, la Parigi-Nizza nel 1998. L’anno seguente arriva il successo più prestigioso in maglia Cofidis: la Liegi-Bastogne-Liegi.

Nel giugno della stessa stagione iniziano i problemi per il doping. Non viene trovato positivo, ma passano sotto la lente d’ingrandimento i suoi rapporti con Bernard Sainz, il “dottor Mabuse”. Dopo un estenuante tira e molla con la Cofidis il contratto viene ridotto a una sola stagione e inizia la sua discesa agli inferi. Nel 2000 si susseguono i ritiri e le rinunce alle gare. Vandenbroucke non accetta l’ombra dei sospetti, la sconfitta e cade in depressione: le gambe non girano come la testa. Nel 2002 il “santone” francese Sainz viene fermato dalla polizia per eccesso di velocità . Durante i controlli nella sua auto vengono trovate fiale e siringhe e lui afferma di essere stato in Belgio “per fornire tre persone e di aver passato la notte nella casa di Vandenbrouke”.

La gendarmeria ritroverà nell’abitazione del ciclista Epo, morfina e anabolizzanti e arriva la squalifica di sei mesi. Altre formazioni, come le italiane Lampre e Acqua e sapone scommettono nella sua rinascita, ma lui continua la personale fuga solitaria dalla vita.

sabato 10 ottobre 2009

Quelli che resistono e costruiscono un futuro diverso

http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=76230&sez=HOME_INITALIA

di Gabriele Santoro


CASTEL VOLTURNO (10 ottobre) - Michele Zaza, re dei contrabbandieri partenopei (deceduto nel 1994) negli anni Settanta e Ottanta ed esponente del clan camorristico napoletano dei fratelli Mazzarella, nel podere di via Pagliuca gestiva il più imponente stoccaggio di “bionde” della regione e allevava cavalli di razza. Oggi quella terra porta il nome di don Peppe Diana, prete ucciso dalla camorra, e dell’associazione Libera a cui il comune di Castel Volturno ha affidato il riutilizzo con finalità sociali del bene confiscato. Sette ettari di terreno argilloso a pochi chilometri sul litorale domiziano e da quel che resta della splendida pineta marina, devastata dalla speculazione edilizia.

La bufala legale e biologica è più buona. Dallo scorso giugno a settembre oltre cinquecento giovani volontari da tutta Italia hanno passato almeno una settimana nella fattoria didattica di Libera. Hanno appreso i rudimenti del lavoro nei campi, coltivando biologicamente peperoni e melanzane, poi raccolti da cooperative di ragazzi diversamente abili. Hanno fatto scuola di legalità in un territorio dove lo Stato spesso latita. Ora un manipolo di lucidi visionari, uomini e donne di Libera Caserta, hanno un progetto che attende solo di sciogliere gli ultimi legacci burocratici per partire. Nelle stalle dove c’erano i cavalli del contrabbandiere arriveranno delle asine, per produrre un latte di pregiata qualità. Nell’azienda salernitana Improsta, che fornirà il latte per la mozzarella, si stanno formando i caseari che dal prossimo marzo, questo è l’obiettivo della Cooperativa, produrranno quotidianamente circa 500 kg di mozzarella di bufala. Inoltre è in cantiere la realizzazione di un impianto Biogas in cui smaltire il letame della bufale, che inquina fortemente il terreno. Un’impresa che non punta certo a fare concorrenza sul
mercato ai numerosi produttori locali di bufala, bensì a cooperare con le aziende sane in nome di una produzione ecosostenibile.

L’interesse degli inglesi. In questi giorni le Terre di Don Peppe Diana hanno ricevuto la visita di una rappresentanza dell’ambasciata britannica a Napoli con il console Michael Burgoyne. Un’occasione di confronto su modelli di sviluppo virtuosi e sostenibili in realtà complesse. Si è parlato della cosiddetta “One-stop-shop”; la ricetta adottata nel Regno Unito per risollevare zone economicamente depresse come il Galles e la Scozia. Un referente pubblico unico, finanziato con i soldi europei, che si occupa dal procacciamento dei mutui bancari all’adempimento di tutte le pratiche burocratiche necessarie a tutti coloro che hanno un progetto solido e vogliono fare impresa. Una ricetta dinamica difficilmente replicabile nel sistema italiano, a partire dal caso delle aziende confiscate alla mafia. Nel nostro paese la rinascita di queste imprese procede a fatica: solo 38 su 1000 hanno ripreso l’attività. In questa situazione svolgono un ruolo centrale le banche, che vantano mutui e ipoteche su quelle aziende. Si aprono contenziosi infiniti che paralizzano la situazione o nella peggiore delle ipotesi rischiano di restituire, una volta fallite, a prezzi irrisori le proprietà nelle mani della criminalità organizzata. Qui lo Stato si gioca la propria credibilità. Non può permettersi di confiscarle e poi di farle fallire, danneggiando i lavoratori e offrendo l’immagine di una mafia come unica garanzia del posto di lavoro.

Casal di Principe. I ragazzi campani di Libera hanno una fibra forte, amano la loro terra nonostante tutto. Non hanno paura di indossare la maglia di Libera per le strade casalesi: «Ormai sanno chi siamo». Mi portano nel cimitero comunale, dove riposa don Peppe Diana. A Casal di Principe come negli altri paesi del casertano qualcosa sta cambiando. Lentamente, faticosamente, ma il seme di giustizia e verità è stato piantato.

Imprenditore coraggio

http://www.ilmessaggero.it/articolo_app.php?id=22755&sez=HOME_INITALIA&npl=&desc_sez=

di Gabriele Santoro


CASTEL VOLTURNO (8 ottobre) - «Mi hanno bruciato il deposito, ma la mia azienda non l’avranno mai». Franco D’Angiolella è un imprenditore diverso. O per dirla alla camorrista “n’o cape de mierda”. Sì, perché lui ragiona in un altro modo. D’Angiolella è una persona libera. Una libertà pagata a caro prezzo: l’ultimo di una serie di attentati incendiari l’ha subito il 19 luglio 2009.

Nei primi anni Novanta quando l’azienda di famiglia, una semplice falegnameria che produce soprattutto cassette per l’ortofrutta, era sull’orlo del fallimento lui l’ha presa in mano e fatta ripartire senza accettare aiuti compromettenti. Nel 1999 gli estorsori gli hanno chiesto cento milioni delle vecchie lire. Poi è arrivato lo sconto, 70 milioni. Infine li hanno voluti a rate: una da trenta, l’altra da quaranta. Da quel momento in poi, ogni volta che si sono presentati nella sua azienda a chiedere il pizzo Angiolella li ha denunciati all’autorità giudiziaria e fatti arrestare.

Nel 1998 ha aderito all’associazione anti-racket Fai, ma chiede più tutela dalle forze dell’ordine e più certezze dalla troppa burocrazia, che rallenta le pratiche di risarcimento previste dalla legge per chi subisce le ritorsioni conseguenti alla scelta della legalità. Tutte le filiali assicurative gli rifiutano la polizza sull’impresa, perché chi non si adegua al Sistema camorra corre rischi troppo alti, ricorrenti e per l’assicurazione non c’è business. In questo periodo, complice la tremenda crisi economica, lo stabilimento di Angiolella sta lavorando poco. Ma in realtà è stato messo in una situazione di isolamento; solo la Cooperativa Sole acquista da lui le cassette per la frutta.

«Non sono un eroe, ma sono libero. Nella mia impresa decido da solo chi ci deve lavorare e da chi acquistare i macchinari. Non ho una grande istruzione, ma ai miei diritti di cittadino e imprenditore non abdico». Lei è figlio di questa terra, cosa la spinge a essere una voce fuori dal coro? «Troppi imprenditori coltivano l’illusione che alla fine, tutto sommato, convenga non dare fastidio e si avrà un significativo vantaggio economico. Non è così. Dopo aver mangiato sul tuo lavoro, si prendono tutto. Il problema è che fino a quando la legalità non conviene la catena non si spezzerà».

L’imprenditore casertano ha un chiodo fisso, che ripete in continuazione: la politica. «Negli ultimi anni si sono fatti dei passi in avanti, ma guai a regredire. Soprattutto a livello locale è fondamentale avere un’amministrazione pulita, trasparente». Ma quello che gli sta più a cuore è il problema culturale: «Fino a quando non cambia la testa delle persone, il modo di pensare, il resto sarà vano (lo sguardo si fa triste, ndr). Così com’è sta terra è ‘na munnezza».

mercoledì 7 ottobre 2009

A tu per tu con Ibrahim "Ibby" Jaaber

http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=75900&sez=HOME_SPORT

di Gabriele Santoro


ROMA (7 ottobre) – Ibrahim Jaaber è la mente e il braccio armato della nuova Lottomatica Roma, pronta a esordire in campionato. Nato a Elizabeth, New Yersey, il 3 febbraio del 1984 in una famiglia d’altri tempi (12 tra fratelli e sorelle sparsi per il mondo), Jaaber è un personaggio a tutto tondo, profondo, figlio di quell’America multietnica che s’identifica in Barack Obama. Sul braccio sinistro ha tatuato il profeta Maometto con lo sguardo rivolto alla Mecca, simbolo di un sentimento religioso molto forte. Nel tempo libero Jaaber ama scrivere poesie, un hobby raro tra i colleghi.

Dopo l’esperienza alla Peddie High School e quattro anni splendidi alla Pennsylvania University, dove oltre ad affermarsi come atleta si laurea in sociologia, Ibby (il soprannome con cui si presenta, ndr) non si perde d’animo per la mancata chiamata al Draft Nba e sbarca in Europa. All’Egaleo di Atene conquista in fretta l’attenzione degli scout continentali a suon di trentelli. Nel febbraio del 2008 Dejan Bodiroga, allora gm di Roma, ha la migliore intuizione della sua carriera dietro la scrivania capitolina e lo porta alla Virtus. Da allora ha conquistato tutto l’ambiente romano con canestri impossibili, con il suo atletismo esplosivo e soprattutto grazie alla dedizione assoluta all’interesse della squadra. L’obiettivo di Jaaber è di trasformare le lacrime di rabbia della scorsa stagione per l’umiliante eliminazione subita da Biella, in uno dei suoi larghi sorrisi per una Roma finalmente vincente.

Domenica parte il campionato come valuta la preparazione e i nuovi compagni di squadra?
«Il lavoro di queste settimane è stato molto intenso e positivo. Devo dire che i nuovi arrivati si sono calati subito nella nuova realtà, integrandosi bene con il gruppo della scorsa stagione. Rispetto al passato mi sento ancora più responsabilizzato e sono pronto a guidare una squadra giovane».

Siete pronti per Cremona (domenica ore 18 al PalaLottomatica)?
«Innanzitutto dobbiamo toglierci dalla testa Siena e pensare solo a noi stessi. Abbiamo i mezzi per disputare una buona stagione, ma dobbiamo costruire giorno dopo giorno una nostra identità. Cremona è una squadra pericolosa, per cui portiamo rispetto e dovremo giocare una partita paziente».

Durante l’estate si è discusso molto su quale fosse il ruolo migliore per Jaaber. Playmaker o guardia?
«Più che un problema, credo che questa sia una risorsa per la squadra. Mi sento di poter interpretare entrambi i ruoli. Nel roster ci sono playmaker puri come Giachetti e Vitali, quindi in diversi frangenti posso essere impiegato anche da guardia».

A partire dai play-off del 2008 è entrato nel cuore dei tifosi della Virtus. Cosa le ha dato Roma?
«La finale con Siena, nonostante la dura sconfitta, resta un ricordo indelebile. La passione della gente, trascinante in quella gara 4 vinta al PalaLottomatica, cerco sempre di ricambiarla spendendo tutte le energie possibili sul parquet. A Roma vivo benissimo e per la mia carriera è una tappa di crescita».

Proprio in quella partita nessuno dimentica l’Hawkins romano, in versione tifoso dietro la panchina virtussina. Che effetto le fa vederlo con la maglia di Siena?«David (Hawkins, ndr) innanzitutto è un amico fraterno. Penso che abbia fatto la scelta che riteneva migliore per la sua carriera e per il futuro della sua famiglia. Non possiamo che rispettare la sua decisione (sorride imbarazzato Jaaber, ndr)».

Durante il ritiro estivo ha osservato il Ramadan. Quanto è importante nella sua vita la religione, l’Islam, e come la concilia con l’attività sportiva?«Mi ritengo un buon musulmano, certo non perfetto (sorride Ibby). La religione ha un ruolo fondamentale nella mia vita. La mia crescita spirituale, interiore, mi aiuta a essere un atleta migliore. L’idea di non essere egoista e pensare al bene comune diventa fondamentale anche nel basket. Il tipo di alimentazione e la condotta fuori dal parquet è un altro fattore importante».

L’anno scorso è stato molto vicino a Brandon Jennings. Che notizie arrivano dall’Nba?
«Ultimamente non sono riuscito a sentirlo, perché è molto impegnato nella preseason. Sono sicuro che ha tutti i mezzi tecnici per affermarsi. La passata stagione non è stata facile per lui, ho cercato di stargli vicino dentro e fuori dal campo».

E’ ancora prematuro parlare del 2010 (anno in cui scade il contratto di Jaaber con Roma, ndr), ma quanto pensa alla Nba? E se dovesse materializzarsi la possibilità di un trasferimento a Siena?«Non ho ancora le idee chiare, certamente il mondo dell’Nba è un obiettivo per tutti i giocatori statunitensi. Al momento sono totalmente concentrato su Roma, non ci ho mai pensato. Ma non mi sento di promettere niente o dare risposte assolute».

sabato 12 settembre 2009

Il caso suicidi a France Telecom

http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=72983&sez=HOME_NELMONDO

di Gabriele Santoro

ROMA (12 settembre) - Mobilità interna, esuberi, declassamento di ruolo, sovraccarico di lavoro e perdita di senso: questa è la miscela esplosiva che dal febbraio 2008 ha travolto i dipendenti di France Telecom, colosso francese delle telecomunicazioni. L’ultimo caso dei trentatrè tentativi di suicidio è quello di una impiegata trentaduenne, che durante una riunione sulla riorganizzazione del servizio di assistenza alla clientela, dove era addetta, si è lanciata dal quarto piano dell’edificio del gruppo e ora lotta tra la vita e la morte all’ospedale parigino Beaujon. Dalla metà di luglio a oggi sono stati già sei i tentativi di suicidio.

Il 14 luglio a Marsiglia un dipendente si è ucciso lanciando questo pesante atto di accusa: «Mi tolgo la vita a causa del mio lavoro a France Telecom. È l’unica ragione. La totale disorganizzazione dell’impresa, gestita incutendo il terrore nei dipendenti, mi ha stravolto. Sono diventato un relitto, un naufrago. E’ meglio finirla qui».

La direzione del gruppo, dopo aver spiegato che i casi di suicidio si mantengono nella media (28 nel 2000 e 29 nel 2002, su un totale di oltre centomila addetti), ha accettato di aprire un tavolo (previsto per il 18 settembre) di concertazione con le forze sociali e il governo per fermare questa escalation. La mobilità interna, che al momento coinvolge 500 persone (tra il 2006 e il 2008 14mila salariati sono stati ricollocati verso i settori più trainanti: Adsl, telefonia mobile e servizi commerciali), è stata congelata fino alla fine di ottobre. Olivier Barberot, direttore delle risorse umane di FT, ha reso l’onore delle armi «agli eroi di ieri, entrati in France Telecom quando il telefono ancora non era un servizio a disposizione di tutti, che avevano il posto sicuro e hanno sofferto il cambiamento della cultura aziendale». Didier Lombard, presidente del gruppo ha inviato una lettera ai quadri dirigenziali intermedi chiedendo di «rinforzare la vigilanza e di fare attenzione a tutti i segni di turbamento dei colleghi più prossimi».

La privatizzazione del gruppo. Nel 2008 France Telecom ha registrato un utile netto di 4.1 miliardi di euro. Negli ultimi due anni hanno lasciato il gruppo, tra licenziamenti e prepensionamenti, 22.450 impiegati e il 65% dei funzionari risulta assunto prima della privatizzazione del gruppo nel 1997. Danièle Linhart, sociologa e membro dell’Osservatorio sullo stress dei soggetti coinvolti dai piani di mobilità, in un’intervista a Le Monde collega la condizione di smarrimento e insicurezza sociale proprio alla privatizzazione, che ha cambiato la logica di France Telecom: da servizio pubblico a società quotata in Borsa. «Con la privatizzazione i lavoratori non sanno più dove sono, - spiega Danièle Linhart - centrifugati dai continui cambiamenti di mansioni e dall’ambiente di lavoro irriconoscibile. Il credo del management è quello di scuotere l’azienda come fosse un albero di cocco, per superare un supposto immobilismo. Si lavora in una condizione di allarme e di concorrenza interna sfrenata, che svuota di senso la propria funzione».

“Management della paura”. Il terrore che un giorno o l’altro si possa cadere nello stesso vortice ha contagiato molti lavoratori di France Telecom. Queste sono alcune testimonianze raccolte da Le Monde.fr. «Dieci anni fa ero fiera del mio posto a France Telecom,- racconta Olivia J. - il lavoro era stimolante ed ero contenta. Dopo è cambiato tutto. L’azienda si è disumanizzata, ormai siamo solo cifre. L’unica cosa che conta è quante vendite si riescono a portare a termine alla fine della giornata. Lo stress è permanente e gli smottamenti sono incessanti: sono alla sesta mansione. Ogni volta ci viene chiesto di ricominciare da zero e vendere sempre di più. La maggior parte dei miei colleghi va avanti ad antidepressivi. Quando sarà il mio turno di scoppiare?» «Non si lavora più ma si naviga a vista - si sfoga Daniel Lebrun - la ricerca e l’innovazione sono disorganiche. Tecnici pieni di professionalità si ritrovano al servizio marketing: da quando ci siamo trasformati in una società di servizi, abbandonando la tecnica e lo sviluppo industriale, non siamo più noi stessi».

venerdì 21 agosto 2009

Ramadan, lavoro e integrazione

http://espresso.repubblica.it/dettaglio-local/ramadan-deroganei-lavori-pesanti/2107533

di Gabriele Santoro


MANTOVA - Corano, versetto numero 184. "(...)Coloro che non possono digiunare completeranno il periodo con giorni supplementari(...)". Versetto 185: "Mese di Ramadan!(...)Dio auspica per voi felicità e non tristezza".Il Centro islamico di Mantova sgombra il campo da interpretazioni radicali del testo sacro e annuncia: i lavoratori fedeli che ne sentono il bisogno possono bere. La comunità islamica mantovana ha chiesto e ottenuto dallo sheikh (sapiente) Abdel-Bari Zamzmi, presidente dell'associazione dei giureconsulti islamici marocchini e autorità di spicco nel mondo arabo, l'interpretazione più aderente ai versetti coranici e la soluzione alla vicenda "bevi o ti licenzio" che ha ormai fatto il giro del mondo: "Se il lavoro è particolarmente pesante, provoca problemi di salute o comunque si prova il bisogno di idratarsi il lavoratore deve fermare il suo digiuno - ha comunicato Zamzmi - e può completare i giorni previsti successivamente, come è già previsto per i malati e i viaggiatori".

El Atassi Abdelkader, presidente del centro islamico di via Londra (Porto Mantovano), come il resto della comunità locale è frastornato per essersi trovato al centro di una bufera senza ben capirne le ragioni. "Non ci può essere una religione o una semplice osservanza che metta in pericolo la salute di un fedele - spiega Abdelkader - In questi giorni abbiamo parlato con molti ragazzi, spiegando che nell'interpretazione del Ramadan sul posto di lavoro non c'è un divieto assoluto a bere. Il fine ultimo dell'osservanza religiosa deve essere la felicità. Poi la fede è anche una questione personale, quindi è anche sbagliato generalizzare comportamenti individuali".Il Centro islamico in questi giorni ha dialogato anche con le aziende in cui lavorano musulmani, trovando una mediazione che comprende le liberatorie.

Nel Sermidese, dove si concentra il maggior numero di braccianti musulmani, diverse imprese ortofrutticole, di propria iniziativa senza un coordinamento associativo, hanno infatti già pronte nei cassetti le liberatorie concordate con i propri dipendenti. Per l'inizio del Ramadan, per esempio, l'azienda agricola sermidese Zerbinati (come la Lorenzini Naturamica) emetterà una circolare interna, condivisa dagli islamici, i cui punti chiave sono tre: "L'azienda rispetta appieno il credo religioso dei propri dipendenti, senza alcuna particolare condizione. L'azienda si impegna a fornire una riserva idrica disponibile in qualsiasi postazione aziendale, anche se non esiste alcun obbligo al consumo di acqua. L'azienda declina ogni responsabilità nei confronti dei propri lavoratori per eventuali danni di salute occorsi agli stessi che siano imputabili al mancato consumo idrico o di cibo durante il lavoro".

Quest'ultimo punto resta il più controverso e artificioso dell'intera vicenda, infatti costituirebbe un precedente assoluto nei rapporti di lavoro e nelle leggi che li regolano. Daniele Sfulcini, direttore generale di Confagricoltura, non crede nella validità di questa soluzione. "Non siamo a conoscenza di queste liberatorie, - spiega Sfulcini - ma non credo abbiano valenza giuridica. Invece giudico positivamente l'intesa sugli altri punti".Una via auspicata anche dai sindacati di categoria, Fai-Flai-Uila, che richiedevano una diversa articolazione degli orari di lavoro, la prevenzione da parte dei lavoratori e la predisposizione di tutte le misure utili di intervento in caso di malessere dovuto ai colpi di calore.

mercoledì 12 agosto 2009

La vittoria degli operai e della sana imprenditoria

"Non ci prenderanno per stanchezza". L'avevano promesso, l'hanno fatto. I metalmeccanici dell'Innse di Lambrate sono scesi da quella Gru solo dopo la firma dell'accordo in Prefettura, che sigla il passaggio dello stabilimento all'imprenditore bresciano Camozzi. Davanti ai cancelli lo striscione "Hic sunt leones" e il camper con amici, familiari e sindacalisti gli hanno fatto coraggio per molti giorni. La parola crisi, chiusura, tutti a casa non l'hanno voluta intendere. Hanno difeso fino in fondo quel posto di lavoro a cui hanno dedicato le migliori energie, la sopravvivenza economica della propria famiglia e la dignità di un'occupazione onesta.

"Dopo tre giorni ci hanno tolto la corrente - raccontano gli operai - e abbiamo avuto seri problemi a ricaricare i nostri cellulari. Ora abbiamo la schiena a strisce per il fatto di aver dormito sui carri per tutte queste notti, ma siamo contenti perchè abbiamo vinto grazie al sostegno di tutti gli operai e delle nostre mogli. In tutti questi giorni non abbiamo mai perso la speranza. Ora niente ci fa più paura". La partita per il futuro dell'Innse è ancora tutta da giocare, ma quello che resta è l'esempio di chi non abbassa la testa di fronte alla deindustrializzazione incessante del tessuto produttivo nazionale. D'altra parte quale futuro può avere un Paese che molla chiusura dopo chiusura i principali avamposti industriali?

La storia dell'Innse è sintomo di questa china. Due anni fa Silvano Genta acquistò nel 2006 le officine metalmeccaniche, in amministrazione controllata, al prezzo stracciato di 700.000 euro, promettendo uno sviluppo duraturo alla fabbrica. Il 31 maggio del 2008 l'azienda invia le raccomandate che aprono la procedura di mobilità, il giorno successivo chiude lo stabilimento e parte la protesta degli operai. Il 25 agosto genta chiude la procedura licenziando tutti i lavoratori, senza pagare il preavviso. Genta si rifiuta di vendere al gruppo bresciano gli stabili e la Innse viene messa sotto sequestro giudiziario. Lo scorso febbraio il proprietario cerca di portare via i macchinari, provocando fortissimi scontri tra operai e poliziotti fuori dai cancelli dell'azienda. Il 4 agosto gli operai e un sindacalista sono riusciti a eludere il presidio delle forze dell'ordine e salire su un carroponte dentro lo stabilimento, per sette lunghi giorni e notti. Come ha sottolineato il prefetto milanese Lombardi "la protesta è stata utile, ma se non c'è un compratore serio come Camozzi la sola protesta non serve". Genta intascherà dal gruppo bresciano per la vendita la cifra tonda di 4 milioni di euro, dopo averne sborsato solo 700mila per l'acquisto e non essere stato in grado di fare il proprio presunto mestiere, l'imprenditore.

Le prime parole del Cavaliere Camozzi segnano un'importante inversione di tendenza. "Ho molto rispetto per gli operai della Innse perchè hanno sofferto, cercheremo di ricompensarli e sono ansioso di incontrarli. Hanno avuto le loro buone ragioni, perchè permettere che un'azienda così venisse distrutta sarebbe stato veramente un delitto. Non sarà difficile riportarla in auge. Abbiamo garantito i 49 posti di lavoro, perchè questi operai sono una grossa risorsa e hanno un grande know-how. Per i primi di ottobre contiamo di ripartire. Vogliamo essere e non apparire: la Innse milanese farà parte di un polo industriale che comprende la nostra Innse Berardi di Brescia e la Ingersoll americana (acquista nel 2003 sotto commissariamento e che ora conta 400 operai). Mio padre mi ha insegnato che la faccia si perde una volta sola, mentre i soldi si possono perdere più volte".

giovedì 6 agosto 2009

Album di famiglia

di Gabriele Santoro

Da quel tragico tre settembre 1982 Nando dalla Chiesa non si è mai tolto dall'anulare sinistro l'anello di famiglia. Il simbolo di riconoscimento familiare fieramente portato dal padre, il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa gliel'hanno restituito quella stessa notte di colore rossobruno, impregnato della sua ultima traccia di sangue e di vita. In "Album di famiglia" (Einaudi, pag.194, euro 17) Dalla Chiesa, partendo dall'Io so di pasoliniana memoria, con trentacinque brevi tuffi nel passato e nel futuro delle proprie radici restituisce giustizia a un'istituzione sociale tradita dalle troppe false morali pubbliche e dai più retrivi vizi privati di uomini dello Stato, che svuotano di senso legami altrimenti indissolubili.
"Questo singolare personaggio scaltro e ingenuo, maestro di diplomazie italiane ma con squarci di candori risorgimentali", come lo definiva nell'ultima intervista Giorgio Bocca, che amava Sciascia e identificarsi con il giovane ufficiale nordista de "Il Giorno della civetta", ha sempre indossato la stessa casacca di uomo inflessibile al richiamo del dovere e dell'etica, dentro e fuori le mura di casa. Nel libro si ritrovano molti gustosi aneddoti dell'uomo di Stato casalingo, che cordialmente rispediva al mittente la Fulvia regalata dall'avvocato Agnelli o le borsette inviate a Natale da solerti industriali alla signora Dora. I tanti "no" detti e il sacrificio condiviso con i figli, la pretesa dei capelli corti e della barba sempre impeccabile, ma l'assoluta libertà di scelta a cui non è mai venuto meno. Nando dalla Chiesa esalta il ruolo di mamma e di moglie della signora Dora, ricordando i quadernini in cui appuntava tutte le spese di famiglia e la sua trepidazione nell'attendere il primo telegiornale della sera per avere la certezza del ritorno a casa del marito. Le partite al mitico subbuteo con il piccolo Carlo Alberto, figlio di Nando e nipote del Generale, che riportano all'infanzia dell'autore e ai suoi giochi nelle varie caserme d'Italia con i soldatini di pace. La grande camerata e i tanti scherzi con le sorelle Rita e Simona, fondamentali a cementare un rapporto che non ha mai conosciuto avvocati e notai.
Dalla Chiesa, impegnato come presidente onorario dell'associazione Libera, continua a girare il Paese per raccontare la favola di una famiglia italiana particolare, capace di sopravvivere al dolore e agli sconvolgimenti politici, sociali di cui è stata protagonista suo malgrado.

Il coraggio e l'amore di mamma Felicia per l'indomabile figlio Peppino Impastato. L'infinita storia di amore tra la giovane borghese Giuseppina Zacco e un ribelle della terra come Pio La Torre. Le attenzioni e l'affetto quotidiano del generale Dalla Chiesa per tutta la famiglia. Cosa rende veramente unici questi rapporti umani sottoposti alla costante minaccia mafiosa e li fa sopravvivere anche al lutto, alla tragedia?
Vivere sotto rischio senz'altro fortifica i rapporti. Ma è la condivisione di un destino comune, l'ammirazione per un'etica della responsabilità che non contempla deroghe tra le mura di casa e nel proprio impegno pubblico, a creare un legame indissolubile. Si viene allenati dalla vita e alla lunga l'unico grado di libertà che ti è concesso è quello di decidere come starci dentro al tuo destino. Non permettere alla mafia di controllare il primo e il secondo tempo della tua esistenza. "Album di famiglia" è la favola di una storia che non ha per forza un lieto fine, ma è densa di amore e bellezza. Nel 1982 prima di imbarcarsi per quello che sarebbe stato l'ultimo viaggio a Palermo, mio padre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ci lasciò questo testamento spirituale, che in famiglia non abbiamo mai tradito: "Vi scrivo da 7-8 mila metri di altezza in cielo, mentre l'aereo mi porta veloce verso palermo, verso il mio nuovo incarico. In questo momento mi sento più vicino alla vostra mamma, mi ritorna com'era, bellissima. in questo momento vi chiedo di essermi vicino. Voletevi bene sempre, proprio come oggi. Vi abbraccio forte, forte. Il vostro papà".

Del suo album di famiglia fa parte l'associazione Libera, che custodisce e coltiva la memoria delle parole e del sacrificio di Don Diana in terra di camorra. Come spiega le esternazioni dell'onorevole Pecorella?
Ero ospite nella stessa trasmissione di Telelombardia, quando l'avvocato-deputato Pecorella ha reagito d'istinto all'incalzante domanda di quei due ragazzi. La sua risposta è sintomo di quanto uomini dello Stato, che ricoprono anche ruoli importanti, siano estranei e ignorino il radicamento di simboli come Don Peppino Diana in terre dove la pressione dei clan è soffocante. Il 19 marzo scorso una manifestazione di popolo ha riempito le strade di Casal di Principe, ricordando il messaggio di questo uomo di chiesa ucciso dalla camorra: "Per amore del mio popolo non tacerò". Sui terreni confiscati ai Casalesi sta nascendo una cooperativa agricola che porta il suo nome. Non penso che boss come De Falco (condannato in primo grado in quanto mandante dell'assassinio di Don Diana, ndr) non possano permettersi avvocati difensori. Chi si è assunto responsabilità pubbliche come quella di presidente della commissione giustizia o d'inchiesta deve scegliere da che parte stare.

La montagna di denaro pubblico pronta a riversarsi sulla Sicilia è la cura per il rilancio o la medicina paliativa per il sistema clientelare?
Ci voleva la Lega Nord al governo per riesumare la Cassa del Mezzogiorno, il carrozzone della spesa pubblica gettata in pasto delle clientele. Credo si aprirà una nuova voragine, pronta a divorarsi anche queste risorse.

Le procure di Caltanisetta e Palermo con le indagini sulla strage di Via d'Amelio hanno riaperto uno squarcio su quella zona di grigio del rapporto mafia-Stato. Pensa che questa volta si riesca ad andare fino in fondo?
Per molti anni anche riguardo all'omicidio di mio padre ho denunciato il clima di collusione e quel terzo livello impenetrabile. Spesso i processi si arenano in dibattimento per la mancanza di prove. I magistrati spero che riescano ad andare avanti con i nuovi elementi acquisiti, non solo annusando quell'aria da grande famiglia che c'è dietro i delitti di mafia.

http://www.mamma.am/mamma/articoli/art_3108.html

domenica 2 agosto 2009

Kennedy Winston a Roma

http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=68053&sez=HOME_SPORT

di Gabriele Santoro


ROMA (2 agosto) - La Lottomatica Roma con l'arrivo della guardia-ala Kennedy Winston (198 cm per 104 kg) e la conferma di Rodrigo De La Fuente chiude, forse, un roster equivoco con giocatori che fanno della versatilità e adattabilità la principale caratteristica.

Winston, dichiaratosi al draft Nba (senza essere scelto) con un anno di anticipo uscendo dal college di Alabama a fine 2005, è un tiratore che può mettere a referto 15-20 punti a serata, con un solido tiro da tre e un grande atletismo che lo rende molto pericoloso in campo aperto e ha molti modi per fare canestro. Possiede una buona meccanica di tiro, veloce nel rilascio e non ha bisogno di molto spazio per tirare, con un grande controllo di palla fondamentale nell'uno contro uno. Winston ha anche alcuni movimenti in post-basso e una certa etica del lavoro. I punti deboli della guardia classe '84 sono soprattutto in difesa: pochi recuperi e non mette la stessa aggressività che ha in attacco.

Nelle precedenti esperienze europee con grandi squadre come Panathinaikos e nell'ultima stagione pochi mesi al Real Madrid ha evidenziato una certa "morbidezza" e una scarsa intensità, tende ad assentarsi dal gioco quando non è coinvolto offensivamente. Winston non ha di sicuro la stimmate del leader. Come point guard non può offrire alcun contributo, visto le scarse doti da passatore. Queste le sue statistiche europee: nel 2006/07 al Panionios 14.9 punti 3.2 rimbalzi, 2 assists, di media in olttre trenta minuti di impiego. La stagione successiva passa al Panathinaikos e fattura 8 punti e 3 rimbalzi di media in 19 minuti nel campionato ellenico (miglior prestazione dell'anno con i rivali storici dell'Olympiakos: 26 punti e 7/8 da tre).

Il mercato di Roma. Con la firma di Winston la Virtus ha scelto di non prendere un vero playmaker "sacrificando" Ibrahim Jaaber nel ruolo in cui lo vede Nando Gentile, con il back-up di Jacopo Giachetti. Il reparto esterni conterà su molte, troppe, ali: Ricky Minard (utilizzato probabilmente come guardia), lo stesso Winston, De La Fuente e Datome. La conferma dello spagnolo è una buona notizia per il suo apporto in termini di esperienza, ma forse alla squadra serviva più un play di ruolo. Un reparto esterni che ha molti punti nelle mani, ma resta il dubbio soprattutto sulla loro adattabilità difensiva a tenere guardie rapide.

Anche sotto canestro la dirigenza romana per il ruolo di centro ha confermato l'adattato Andrè Hutson, che pivot puro non è e che per l'Eurolega è certamente sottodimensionato. Una delle scommesse più importanti nel ruolo sarà il rendimento di Andrea Crosariol, che può diventare un fattore in attacco se innescato con il pick 'n roll e che in difesa deve fare la voce grossa visti i centimetri, 210, e i chili, 110. Rispetto alla passata stagione Hervè Tourè ha preso il posto di Roberto Gabini ed è atteso al salto di qualità dopo una carriera in provincia, mentre capitan Tonolli è pronto a staccare il biglietto della quindicesima stagione in maglia Virtus.

Il nuovo corso romano si apre con un ringiovanimento generale della squadra, tutti i nuovi arrivati sono abbondantemente sotto i trenta anni, una chiara impronta italiana con i nazionali (Gigli, Crosariol, Datome e Giachetti tutt'ora impegnati con la maglia azzurra) e giocatori che dopo una buona esperienza europea vogliono compiere il salto di qualità (Minard, Tourè e Winston). Il tutto miscelato con le colonne portanti della scorsa annata Jaaber, Hutson e De La Fuente. Fondamentale sarà il lavoro dello staff tecnico, ancora da completare, e di quel Nando Gentile che dovrà conquistare la fiducia dei giocatori e dell'ambiente, dopo la brutta conclusione della prima esperienza sulla panchina romana.

martedì 21 luglio 2009

Crimine a Grozny

Editoriale Le Monde 22 luglio

Il 15 luglio, Natalia Estemirova era stata prelevata nella sua casa di Grozny, capitale della Cecenia, da sconosciuti. Qualche ora più tardi, il suo corpo è stato ritrovato crivellato di colpi, in Inguscezia, altra repubblica caucasica della Federeazione russa. Natalia Estemirova era una delle figure più coraggiose ed emblematiche di Memorial, l'organizzazione per la difesa dei diritti dell'uomo fondata dal famoso dissidente sovetico Andreï Sakharov.

Natalia Estemirova indagava sulle esecuzioni sommarie commesse in Cecenia dopo la deflagrazione della guerra voluta nel 1999 da Vladimir Putin. Sconvolta da questo conflitto che ha causato decine di migliaia di morti, dispersi e centinaia di migliaia di profughi, lei era una di quelle rare persone che non hanno voltato lo sguardo, che cercava di stabilire la verità, raccogliere testimonianze e prove inconfutabili. Affinchè un giorno finalmente fosse fatta giustizia.

Indagava sui crimini perpetrati dall'armata federale russa e su quelli delle milizie cecene utilizzate da Mosca come rinforzi. Il giorno del suo omicidio, un rapporto al quale aveva lavorato Natalia Estemirova rendeva pubblico in Russia, concludendo che i più alti dirigenti del paese, tra cui Vladimir Putin, oggi primo ministro, potrebbero dover rispondere dei crimini commessi nel Caucaso del Nord.

L'omicidio di questa donna solleva, una volta di più la questione dell'evoluzione politica della Russia, dove gli omicidi politici si moltiplicano, sul fondo del nazionalismo intollerante. Solleva la questione del grado di implicazione dei dirigenti e dei servizi segreti russi nella spirale di violenza che persegue il Caucaso.

Dopo l'omicidio di Natalia Estemirova, come dopo quella nel 200 della sua amica, la giornalista Anna Politkovskaia, il dito (doigt) puntato sul leader ceceno, Ramzan Kadyrov, piazzato e sostenuto da Mosca. Costui controlla la regione sous sa férule: torture ed esecuzioni sommarie sono la moneta corrente. Kadyrova aveva minacciato e insultato Natalia Estemirova in più occasioni.

Il presidente russo Medvedev è stato ambiguo. Si è detto indignato; ha promesso che "i responsabili saranno puniti". Ma ha giudicato "primitivo e inaccettabile" l'idea che Kadyrov o degli ufficiali russi possano essere implicati in questa meurtre.

Insomma Kadyrov ha sempre carta bianca.


Editorial Le Monde 22 luglio
Crime à Grozny


Le 15 juillet, Natalia Estemirova était enlevée près de chez elle à Grozny, capitale de la République de Tchétchénie, par des inconnus. Quelques heures plus tard, son corps était retrouvé criblé de balles, en Ingouchie, autre République caucasienne de la Fédération de Russie. Natalia Estemirova était l'une des figures les plus courageuses et emblématiques de Memorial, l'organisation de défense des droits de l'homme fondée par le célèbre dissident soviétique Andreï Sakharov.

Natalia Estemirova enquêtait sur les exactions commises en Tchétchénie depuis le déclenchement de la guerre de Vladimir Poutine, en 1999. Révoltée par ce conflit qui a fait des dizaines de milliers de morts et de disparus et des centaines de milliers de déplacés, elle était de ceux - rares - qui n'ont pas détourné les yeux, qui cherchaient à établir la vérité, compiler des témoignages, des preuves irréfutables. Pour qu'un jour - peut-être - justice soit faite.

Elle travaillait sur les crimes perpétrés par l'armée fédérale russe et sur ceux des milices tchétchènes utilisées par Moscou comme forces supplétives. Le jour de son assassinat, un rapport auquel Natalia Estemirova avait contribué était rendu public en Russie, concluant que les plus hauts dirigeants du pays, dont Vladimir Poutine, aujourd'hui premier ministre, pourraient avoir à répondre des crimes commis dans le Caucase du Nord.

Le meurtre de cette femme soulève, une fois, de plus la question de l'évolution politique de la Russie, où les assassinats politiques se multiplient, sur fond de nationalisme intolérant. Il soulève la question du degré d'implication des dirigeants et des services secrets russes dans la spirale de violence qui se poursuit au Caucase.

Après le meurtre de Natalia Estemirova - comme après celui, en 2006, de son amie, la journaliste Anna Politkovskaïa -, le doigt est pointé sur le dirigeant tchétchène, Ramzan Kadyrov, mis en place par Moscou. Celui-ci tient la région sous sa férule : tortures et exécutions sommaires y sont monnaie courante. Il avait menacé et insulté Natalia Estemirova à de multiples reprises. Mais ses crimes ne doivent pas occulter l'impunité dont il bénéficie au Kremlin. Le président russe, Dmitri Medvedev, a été ambigu. Il s'est dit indigné ; il a promis que " les responsables seraient punis ". Mais il a jugé " primitive et inacceptable " l'idée que M. Kadyrov ou des officiels russes puissent être impliqués dans ce meurtre.

En somme, M. Kadyrov a toujours carte blanche.

Bruce Springsteen all'Olimpico



Bruce Springsteen è il rock. Ti trascina dentro con la sua musica struggente e vitale, non si risparmia un attimo in tre ore di concerto fantastico. Cerca il contatto con la gente, non gli serve una scaletta dei brani. Sventola i cartelli raccolti tra il pubblico, un cenno d'intesa con la E street band e one-two-three si parte...La mia palma d'oro della serata va alla toccante esecuzione di American skin e l'infinita Thunder road.

martedì 30 giugno 2009

Hadopi e diritti fondamentali

Il percorso tortuoso della legge Hadopi (Alta autorità per la protezione dei diritti d’autore su Internet), iniziato circa un anno fa e fortemente sostenuto dal presidente Nicolas Sarkozy, si è nuovamente bloccato davanti alla severa bocciatura della Corte Costituzionale francese. Nel 2006 era già stata approvata la legge Dadvsi, che prevedeva multe pesanti fino a 300mila euro e tre anni di reclusione per i pirati ma che non ha sortito effetti, contro il fenomeno del peer to peer di film e della musica.
Il progetto di legge “Creàtion et Internet” dopo molti passaggi parlamentari è stato adottato dalla Camera il 13 maggio scorso. L’impianto della Hadopi segue la linea dura della repressione scelta dall’esecutivo, con il pieno sostegno degli artisti e dell’industria culturale francese, per fermare il dilagare dello scambio e scaricamento illegale sulla Rete di contenuti culturali.
Una legge che ha diviso e divide tanto in Francia quanto nel resto d’Europa con approcci totalmente diversi al problema. Uno scontro inevitabile tra due principi e modelli economici opposti. Da una parte la protezione e la sopravvivenza del diritto d’autore, che consente all’artista di vivere del suo lavoro e di vedere tutelata la propria opera. Dall’altra parte si è affermata una cultura, che ha accompagnato lo sviluppo di Internet, che risponde ai principi dell’accessibilità, della gratuità e dell’universalità dei contenuti. Si stima che almeno la metà dei circa 30 milioni di navigatori francesi ricorra al peer to peer, considerandolo come una pratica del tutto naturale. Inoltre non va dimenticato come questo fenomeno abbia ingigantito il traffico della Rete e quindi il business dei fornitori dell’accesso, stranamente molto silenziosi nel vivace dibattito pubblico animato da questa legge.
La volontà legittima dell’Eliseo si è tradotta in sanzioni tanto dure, come l’interdizione all’accesso Internet per gli utenti scoperti almeno tre volte a scaricare, quanto inutili rispetto alla mobilità della Rete e alla libertà fondamentale di espressione riconosciuta dal diritto costituzionale transalpino.

Contenuti della legge Hadopi. L’obiettivo dichiarato della legge Hadopi è quello di fermare l’emorragia delle opere culturali scaricabili su Internet gratuitamente. Il testo approvato in parlamento contiene tre nuove misure: la creazione dell’Hadopi, il taglio della connessione per gli scaricatori recidivi e l’obbligo di certificare la sicurezza del proprio accesso a Internet.
L’Hadopi è un’autorità amministrativa per la diffusione e la protezione del diritto d’autore sul web. Il suo compito principale sarebbe quello di constatare le violazioni del diritto d’autore sulla Rete e sanzionarlo. Al contempo la legge le affida la missione di sostenere e sorvegliare lo sviluppo dell’offerta legale di contenuti culturali in Internet. La nuova autorità dispone di livelli sanzionatori graduali. La prima violazione prevede l’invio al trasgressore di una e-mail di avvertimento. Alla seconda infrazione è prevista la spedizione di una raccomandata. Alla terza penalità l’abbonamento a Internet è sospeso per un periodo che va dai tre ai dodici mesi, la persona sanzionata non può sottoscrivere alcun nuovo contratto e deve continuare a pagare il proprio fornitore. Una gradualità dissuasiva nei confronti dell’utente invitato così più volte a desistere dal commettere il reato.
La terza norma prevede l’assicurazione, al momento della sottoscrizione dell’abbonamento a Internet, della sicurezza della propria connessione. Il proprietario della connessione viene considerato come l’unico responsabile dello scaricamento illegale, senza la necessità di accertare se sia stato effettivamente lui stesso o meno ad effettuarlo. Una scelta che non tiene conto dei numerosi mezzi tecnici, dalla clonazione dell’Ip al criptaggio, che permettono ai veri responsabili di sfuggire abbastanza facilmente alla pena. Indirettamente l’Hadopi rischia di non punire con certezza lo scaricamento, ma la mancata sufficiente protezione della propria connessione a Internet.
Inoltre l’eventuale installazione di un sistema particolare di protezione entrerebbe in conflitto con sistemi operativi liberi, come Linux, e richiederebbe un aggiornamento continuo. Ciò comporterebbe l’obbligo dell’utente a dotarsi di un sistema operativo commerciale, ledendo ulteriormente la libertà di scelta individuale. Di qui anche la gaffe del ministro Albanel, secondo la quale “il suo ministero disporrebbe già di un sistema di sicurezza per la connessione per l’utilizzo del programma Open Office”, peccato che si tratti solamente di un elaboratore di testi senza alcun rapporto con il sistema operativo e la suddetta sicurezza…

La bocciatura della Corte Costituzionale. Non capita di sovente che la Corte censuri le disposizioni chiave di una legge emanata dal parlamento, al punto di svuotarla della sua ragion d’essere. La pronuncia della Corte ha condannato sia la sanzione che prevede il taglio della connessione a Internet, richiamando l’articolo 11 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo dl 1789, sia il mancato diritto di difesa davanti a un’autorità giudiziaria competente. “La libera espressione del pensiero e delle opinioni è un diritto inalienabile. I servizi offerti da Internet hanno assunto un’importanza centrale per la partecipazione alla vita democratica e l’espressione delle proprie idee. Inoltre considerando che i poteri sanzionatori istituiti dalle disposizioni della legge consentono alla nuova autorità, che non ha valore giurisdizionale, di impedire l’accesso a Internet dei legittimi titolari di abbonamento il legislatore non può affidare tali poteri a un’autorità amministrativa. In virtù dell’articolo 9 della Dichiarazione del 1789 tutti sono innocenti fino a prova contraria. Il legislatore nega il rispetto di questo principio difensivo e quindi le suddette disposizioni Hadopi sono dichiarate contrarie alla Costituzione”.
In sintesi la connessione alla Rete rientra nel diritto fondamentale alla libera espressione, con il riconoscimento del ruolo ormai essenziale assunto da Internet nella nostra società e nell’acquisizione di nuovi spazi di democrazia. Inoltre la Corte ha evidenziato come venga meno la presunzione d’innocenza, in quanto il testo della legge prevede la cessazione del servizio Internet senza possibilità di appello giudiziario e senza l’onere della prova a carico dell’accusa. “La legge era un po’ folle – commenta a Le Monde un costituzionalista - in quanto sosteneva: ”Voi avete scaricato illegalmente. No? Provatelo”. Per esempio è molto facile allacciarsi alla connessione wi-fi di altri e poi come è possibile distinguere il vero Ip di chi ha realmente effettuato lo scaricamento?

Il ministro della cultura francese Christine Albanel, su forte spinta di Nicolas Sarkozy, non intende comunque arretrare: ”Ora promulgheremo il testo approvato dalla Corte, mentre la parte censurata sarà modificata e ripresentata in consiglio dei ministri entro la fine di giugno, per poi tornare al vaglio del Parlamento”. Quello che appare certo è che si ripartirà “dal convergere dell’ordine costituzionale francese e la legge europea, riaffermando che la libertà di espressione include anche la libertà di esprimere opinioni e ricevere le informazioni via Internet, e che questa libertà può essere tolta solo con la decisione di un giudice”.
Per sopperire a questa mancanza il ministro confida di “completare la legge con un giudice esterno che dovrà pronunciarsi sull’ultima sanzione della risposta graduale. L’Hadopi, su indicazione delle Società che si considerano parte lesa, esamineranno i primi dossiers, poi invieranno le mail di avvertimento e lettere di diffida ai navigatori (secondo il ministro si partirà con l’invio delle email di avvertimento già dal prossimo Ottobre). Infine incaricherà un giudice per l’eventuale sanzione definitiva”. Ma a questo punto occorrerebbe l’aggiornamento del codice penale, creando una nuova incriminazione visto che pare difficile l’equiparazione al tradizionale reato di contraffazione.
“Se il governo vuole mantenersi su una linea repressiva del fenomeno – spiega Gilles Guglielmi docente di diritto pubblico all’università Paris II - non potrà evitare l’emanazione di una legge penale che definisca chiaramente se si tratta di un reato o di una contravvenzione. Il rischio di ritrovarsi di fronte a un giudice o piuttosto alla detenzione, seppur breve, potrebbe influenzare psicologicamente l’internauta evitando di compiere il reato. L’autorità amministrativa Hadopi può segnalare l’infrazione, ma poi dovrà esserci un’indagine della polizia incaricata dal giudice con tutte le garanzie difensive del caso per gli accusati”.

Le critiche della Commissione europea. Già nel novembre 2008 la Commissione europea aveva manifestato le proprie perplessità sul disegno di legge Hadopi, chiedendo delle sostanziali modifiche che lo rendessero aderente alla legislazione comunitaria. Lo scoglio più grande era proprio la negazione dell’accesso a Internet che andava contro la direttiva votata nel 2002 che definisce la Rete come un “servizio universale, il cui accesso spetta a tutti i cittadini europei”. Il taglio della connessione è dunque considerato come una sanzione sproporzionata. Come stabilito poi dalla Corte di Parigi, le autorità di Bruxelles avevano chiesto la possibilità di difendersi dell’internauta di fronte alla prima accusa di pirateria. Mentre il governo francese prevede di affidare il tutto a un’autorità amministrativa, Hadopi, gli eurodeputati ribattono che questo potere può essere assunto solo dalla giustizia penale.
L’Europa richiama dunque al rispetto dei “diritti fondamentali e della libertà delle persone. La protezione dei dati sensibili e l’accesso alle informazioni, soprattutto il diritto a un giudizio davanti a un tribunale indipendente e imparziale”.
Come accade spesso su molti temi l’Europa non si esprime con una politica comune. Lo scorso 20 gennaio il governo italiano, per voce del ministro della cultura, aveva annunciato la firma di un accordo di cooperazione con la Francia sul contrasto alla pirateria e l’adozione di una legislazione simile al modello Hadopi. In Irlanda il principale fornitore dell’accesso, Eircom, ha dato il suo benestare al taglio del servizio alla terza infrazione dello scaricatore.
La Germania, che nel 2006 ha approvato una legge molto severa per reprimere il peer to peer, si è rifiutata di imporre “il blocco dell’accesso a Internet in quanto si tratta di una sanzione inaccettabile, costituzionalmente e politicamente molto difficile da applicare”. La Gran Bretagna ha rinunciato alla mano pesante, come spiega il ministro David Lammy: “Trovare una soluzione legislazione adeguata in questo campo è molto difficile. Non possiamo adottare un sistema che scovi, arresti o tagli Internet nelle stanze di milioni di teenager”. Tra le case discografiche d’Oltre Manica si è aperto un’importante dibattito sulle soluzioni da adottare. La British Phonographic, principale rappresentante dell’industria musicale britannica, si è espressa a favore del modello francese dei tre avvertimenti prima dell’espulsione definitiva dal network.
Mentre il modello di vendita Itunes non decolla, usata solo dal 10% e con introiti pari all’8% degli incassi totali dell’industria inglese, secondo Feargal Sharkey, ex popstar e ora presidente della Uk music, almeno un quinto degli utenti della Rete sarebbero invece disposti a pagare un prezzo congruo per il servizio di file-sharing. Anche la Svezia ha rifiutato il modello Hadopi.
Il Belgio e la Danimarca hanno percorso una strada alternativa, chiedendo ai rispettivi principali fornitori della connessione l’oscuramento dei siti peer to peer, come The Pirate Bay. Le imprese hanno dovuto però constatare l’impossibilità tecnica dell’oscuramento su larga scala e si sono aperti dei contenziosi giudiziari.
La soluzione più alternativa spetta al paradiso fiscale delle Isole Man, 80mila abitanti nel mare irlandese, ha istituito una licenza globale obbligatoria, che permette ai propri residenti di scaricare a piacimento tutta la musica e i film in cambio del pagamento di una tassa. Una decisione che ha scatenato le ire degli isolani, poco avvezzi al pagamento dei tributi. Bard Solhjell, ministro dell’istruzione e della ricerca norvegese, ha ripreso questa idea di una licenza globale come modello economico di retribuzione del diritto d’autore. “Gli artisti devono essere pagati per il loro lavoro. E’ inaccettabile diffondere le loro produzioni senza pagare nulla. Ma dobbiamo anche smetterla di cercare di fermare il futuro”.
Vincent Frèrebeau, direttore della casa discografica francese Tot ou tard (nata da una separazione dal gigante Warner), è apparso scettico sulla creazione di una licenza globale: “Un sistema del genere, che garantisca la giusta remunerazione agli aventi diritto, richiederebbe un calcolo preciso di quanto quell’opera circoli e ciò è possibile solo con un controllo serrato della Rete. Altrimenti bisognerebbe pagare a forfait (più sei conosciuto più ti pago), rompendo quel legame virtuoso tra la fruizione dell’opera e l’autore, a danno soprattutto delle piccole produzioni e degli artisti emergenti”.

Una legge già vecchia? Secondo l’associazione per la lotta alla pirateria audiovisuale Alpa nel 2008 sarebbero stati 450.000 gli scambi illegali quotidiani di film tradotti in lingua francese. In Francia le prime cento e più importanti produzioni cinematografiche nazionali e internazionali costituiscono il 90% dello scaricamento illegale. La domanda supera di gran lunga l’offerta di scambio: i server del peer to peer sono regolarmente saturi e soddisfano solo il 40% delle richieste. Bienvenue chez les Ch’tis (nella traduzione italiana Giù al Nord), commedia autoctona francese che ha riscosso un ottimo successo, è apparso sulla rete appena quattro giorni dopo la sua uscita nelle sale cinematografiche, battendo ogni record con una media di 9.800 scaricamenti al giorno. D’altra parte basta provare a digitare il titolo del film sul principale motore di ricerca, Google, per trovare indicizzati migliaia di indirizzi utili per scaricare gratuitamente il film come Torrent o se si vuole guardarlo al momento ci sono altrettante migliaia di soluzioni in streaming…
I detrattori della Hadopi fanno notare anche il vuoto legislativo più grande che concerne proprio lo streaming, ovvero la diffusione in diretta spesso non autorizzata di film o la riproduzione di interi album musicali. Se i grandi portali come Youtube o Dailymotion cercare di limitare la pubblicazione illegale di video, si moltiplicano i siti in cui è possibile guardare film o ascoltare musica live. Il diritto francese prevede che quando si venisse a conoscenza della riproduzione illegale di un film su un certo sito, se ne può chiedere e ottenere la rimozione immediata o l’oscuramento. Mentre coloro che hanno usufruito del servizio non possono essere puniti, ma può essere solo identificato il loro Ip. Hadopi potrebbe essere applicata quindi solo al peer to peer, quando studi recenti dimostrano come stia segnando il passo rispetto all’avanzare dello streaming: per esempio in Germania dal 14% del 2007 si è già passati al 26% del 2008, mentre il peer to peer è sceso dal 70% al 52%.

Coniugare Internet e il rispetto della produzione artistica. Andando oltre gli interessi delle parti in causa l’imperativo resta da una parte quello di garantire proprio grazie a Internet un’ampia offerta culturale a prezzi equi e dall’altra correggere una cultura della gratuità che affonda maggiormente le etichette indipendenti, mentre le major continuano a macinare soldi puntando sui soliti grandi nomi.
Addossare le responsabilità della crisi del settore, in questo caso quello musicale, solo allo scaricamento illegale di musica è senz’altro miope (vedi tabella in basso). Partendo da un’analisi della ripartizione degli introiti dell’industria discografica si nota come il diritto d’autore e il compenso dell’artista siano sproporzionati rispetto a quello del management. Gli artisti emergenti guadagnano il 10% del prezzo di copertina, mentre i loro colleghi più famosi il 25%. Il 9% del prezzo del cd va per i diritti d’autore, tra il 30 e il 35% alla distribuzione, mentre il 10% nei costi di produzione. Il restante si spartisce nel profitto del produttore, a cui vanno sottratti i costi fissi (il pagamento degli addetti ai lavori, con una spesa complessiva tra i 60 e 100mila euro per la produzione dell’album di un esordiente). Per giungere in pareggio economico occorre raggiungere generalmente tra le 40 e le 50mila copie vendute.
D’altra parte occorre anche riconoscere come siano i calati negli ultimi tempi i prezzi del prodotto musicale, anche grazie alla rete. Sulla piattaforma Itunes è ormai possibile acquistare a 9,99 euro un intero cd, che prima nei negozi si trovava sui canonici 20 euro. Negli stessi store musicali ora il costo dei cd è sceso sui 15-16 euro.Per vincere la battaglia della qualità della produzione culturale e della legalità è quindi necessario un incontro tra le parti, battendo sul campo della tecnologia e non nelle aule di tribunale il fenomeno della pirateria, con una maggiore offerta a prezzi sempre più competitivi.