giovedì 18 giugno 2015

La letteratura deve entrare nel paesaggio di chi non legge. Intervista a Dany Laferrière


di Gabriele Santoro

«Una venditrice, seduta con la schiena contro un muro, davanti una decina di manghi. È il suo lavoro. Per lei niente è cambiato. Questa gente è talmente abituata a procurarsi di che vivere in condizioni difficili che porterà la speranza perfino all'inferno». Dany Laferrière assembla, con la musicalità che gli è propria, in tanti scatti la lacerazione consumata nel tempo di una manciata di secondi. Un evento che non ha frammentato la fierezza del popolo haitiano resistente. Il terremoto, quanto il ritorno da un esilio forzato, rappresentano lo spazio ideale per l'autore, che nella narrazione riesce a costruire un io collettivo.

Le case editrici Nottetempo e 66thand2nd hanno appena pubblicato due testi dello scrittore, nato a Port-au-Prince nel 1953 e riparato a Montreal nel 1976, recentemente entrato all'Academie française nel seggio dello scomparso Héctor Bianciotti. Paese senza cappello (Nottetempo, 265 pagine, 16.50 euro, traduzione di Cinzia Poli) è una sponda senza soste fra il paese reale e quello sognato. Da esule, in fuga dalla dittatura Duvalier, al desiderio primitivo di riappropriarsi dello scrivere della propria terra, parlare di Haiti a Haiti: «Sistemo la mia Remington in questo quartiere popolare, in mezzo alla folla sudata. Folla urlante. E dire che questa continua cacofonia, questo disordine permanente negli ultimi anni mi sono mancati». Una scrittura a cielo aperto che si alimenta della vita. Tutto si muove intorno a me (66thand2nd, 133 pagine, 16 euro, traduzione di Giuseppe Girimonti Greco e Francesca Scala) è qualcosa di più e soprattutto diverso dalla cronaca della scossa tragica che il 12 gennaio 2010 uccise circa trecentomila persone, deturpando il volto di Port-au-Prince.

Laferrière è a Roma, dove stasera alle 21 interverrà al Festival Internazionale Letterature leggendo un bellissimo inedito, dal titolo Sono una macchina da presa. A fargli compagnia sul palco Binyavanga Wainaina e Concita De Gregorio, con la colonna sonora della kora di Madya Diebatè e delle percussioni di Vittorino Naso.

Dignità è una parola antica, alla quale lei fa sovente ricorso, sottraendola alla funzione passiva, consolatoria, del nostro tempo. Che cos'è la dignità ad Haiti?
«È la parola più diffusa nella resistenza di un popolo indomito. Si resta impressionati dalla serenità, dalla forza e dalla dignità attiva delle persone. La vita si impone col suo ritmo, malgrado nell'ultimo mezzo secolo non abbia risparmiato dittature ereditarie, colpi di Stato militari, cicloni e inondazioni devastanti. Gente dignitosa che sopporta il dolore con tanta grazia. Gioia e sofferenza che trasformano in canto e danza. Un nostro proverbio recita così: “Un haitiano forse non ti offrirà da mangiare, ma sarà sempre disposto a parlarti”».

È ormai radicata una certa letteratura critica sull'industria internazionale dell'aiuto umanitario. Quale segno ha lasciato nell'isola?
«Innanzitutto bisognerebbe affrontare l'argomento con serietà, senza generalizzare. C'è chi svolge bene il proprio mestiere. Il problema principale è che spesso chi dirige le Ong è distante dal terreno d'azione. Stabiliscono regole strette che impediscono quasi il contatto tra il proprio personale e la popolazione. La premessa dell'aiuto sta nella condivisione. Non si può pretendere di aiutare qualcuno che non conosci. Non si può aiutare, quando si prova diffidenza. Qualora si ritenga che non sussistano condizioni di sicurezza, ostative all'incontro con l'altro, l'intervento perde di significato. Chi dirige deve stare sul campo, e non limitarsi alla lettura dei rapporti redatti. Ricevo spesso la domanda: "A chi dobbiamo inviare soldi, senza correre il rischio che vengano sperperati?" Rispondo di verificare in prima persona. Usate quei soldi per acquistare un biglietto aereo. Fate l'esperienza che vi trasformerà. Non illudetevi di cambiare la vita delle persone, rinunciando allo scambio umano, emotivo».

A chi giova la logica della stampella internazionale?
«Gli haitiani sono rimasti sorpresi della reazione provocata dal terremoto nel resto mondo ed emozionati per l'empatia globalizzata. Il governo spinge per l'assistenzialismo dall'estero. Abbiamo sempre saputo vivere con poco e siamo ben consapevoli che per ogni aiuto c'è qualcosa da corrispondere. Nulla è gratuito. L'idea di Haiti mendicante è funzionale ai disegni delle élites politiche ed economiche. Gli haitiani sono sopravvissuti, perché non si sono mai aspettati di essere aiutati. Questo Paese già dopo quattro mesi, tifando in modo forsennato e gioioso Brasile ai Mondiali, ha mostrato la struttura individuale che regge all'impatto. Per la ricostruzione materiale serviranno almeno trent'anni, nel migliore dei casi. Il tempo di un'altra generazione dopo quella che ha resistito alla dittatura. Ognuno dovrebbe avere il diritto di dire la sua sul tipo di città in cui vorrebbe vivere. Dovrebbe avere il diritto di partecipare all'elaborazione del progetto della nuova città. E immaginare una nuova città che ci costringa a entrare in una nuova vita».

La storia dell'indipendenza di Haiti, agli albori dell'Ottocento, è un simbolo di redenzione assai significativo. Incarnò una sfida radicale al colonialismo, alla schiavitù e al razzismo, e aveva il carattere di una rivoluzione sociale. Resiste quella traccia?
«Resta che quella è la vicenda fondante dell'identità haitiana. In Occidente ascolto spesso dibattiti sulla problematica ricerca di un'identità, che in taluni paesi è divenuta questione politica. Ad Haiti invece l'identità è ben marcata, anche troppo. La gente è affamata, si dibatte nell'estrema povertà, ma pensa che può rivoluzionare il Paese. Pensa che il proprio figlio possa divenire presidente. Oggi in Francia il figlio di un operaio farà l'operaio. Non che questo sia disonorevole. Ma c'è una cultura che dice al figlio di essere fiero di percorrere le strade del padre. In Francia non si ritiene più credibile la mobilità sociale. Haiti permane globalmente politicizzata, perché la lotta coinvolse tutte le zone dell'isola. Gli schiavi erano ovunque. La mia infanzia è stata cullata dalle storie di schiavi che non avevano altre armi se non il loro desiderio di libertà e un folle coraggio. Non è come quando si espugna e rivolta solo il centro politico nella capitale. Alla periferia del cuore politico statunitense potrete incontrare cittadini che discorrono di agricoltura e commentano delle tasse da versare a Washington. Nelle campagne di Haiti sentirete accalorarsi per la sorte dell'Iraq e della Palestina. Sbalordisce la generale politicizzazione della società haitiana, che è dovuta alla partecipazione di massa alla battaglia per l'indipendenza».

Lei restituisce questa realtà con l'immagine letteraria della reazione popolare alla notizia del crollo del palazzo presidenziale.
«Ciò ha costituito una rottura con la concezione propria della sinistra internazionale, che associava quella caduta alla fine dell'epicentro della corruzione. Di quel luogo invece gli haitiani hanno sempre preservato il senso dell'istituzione, che hanno nutrito perché conquistata con l'indipendenza. Non hanno fatto confusione fra gli uomini e le istituzioni, perché non intendevano semplicemente essere uomini liberi, bensì cittadini. Anche sulle macerie materiali e morali di quel palazzo, crollato durante il sisma, l'hanno identificato quale ancoraggio dell'esigenza di cittadinanza. Non c'è minuto in cui abbiano smesso di sognare un giorno senza corruzione, lo Stato immaginato dai padri».

La tragedia del terremoto ha acceso il sentimento nazionalistico?
«No, forse alla radio e nei discorsi televisivi. Nelle ore successive al sisma ha prevalso la solidarietà umana, un sentimento di fraternità. Per una volta in questa città (Port-au-Prince) irta di barriere sociali, tutti hanno circolato alla stessa velocità. Nei quartieri ho visto i poveri, ai quali sfuggiamo sfrecciando in macchina, accogliere il dolore degli altri, di una madre benestante che aveva appena perso la propria creatura».

È possibile descrivere il linguaggio di un terremoto?
«Il linguaggio si riduce all'essenziale. Poi quel silenzio indimenticabile. Sdraiati sul suolo, sentiamo nella nostra fibra più intima ogni sussulto della terra. Siamo tutt'uno con lei. Non è possibile prendere le distanze da un momento eternamente presente. Nei dieci secondi del terremoto non ero il prodotto di nessuna cultura. Sono stati i dieci secondi più preziosi della mia vita. Il cemento che si oppone viene frantumato, i fiori più fragili dondolano e sopravvivono. Il romanzo è stato già scritto dalla natura».

Spiccano le figure femminili della sua famiglia. Sembrano personaggi per lei irrinunciabili. La letteratura come intimità tradotta in parole. Non ha ipotecato lo spazio letterario all'esilio, alla dittatura subita. In che modo convivono nei suoi libri pubblico e privato? È un suo compito ricucire la distanza tra il paese reale e quello sognato?
«Sì, ciò è molto bello. È vero che esiste un paese collettivo e poi l'individuo, l'io. Tuttavia credo che l'io scrittore sia un essere collettivo. Lei ha trovato una bella metafora nel legare questo spazio intimo a quello pubblico. Può darsi che sia nella mia natura haitiana la ricerca costante di uno spazio riservato alle cose interiori, che poi nutriranno i libri rivolti al mondo esterno. Soltanto la scrittura o la lettura possono rendere il mondo circostante più tangibile o cancellarlo. Quando si proviene da una nazione secondaria sullo scacchiere internazionale, stiate sicuri che non vi lasceranno mai parlare di letteratura. Hanno tutti una curiosità, che oscilla fra la circostanza disinteressata e la morbosità, sull'attualità politica, economica delle persone. Una battaglia, dalla quale temo non usciremo mai, per evadere dalla nostra riserva. Haiti dovrebbe diventare una superpotenza».

S'interroga sui metodi dell'osservazione, che traspare vivida nei suoi testi come l'urgenza del modo di concepire il mestiere dello scrittore. L'intervento che terrà stasera è eloquente in tal senso. Lei è una macchina da presa?
«Ho scritto senza sapere di scrivere un libro, durante il terremoto di Port-au-Prince. Troppo spesso cerchiamo di scrivere invece di consentire agli eventi di imprimersi sulla retina dei nostri occhi o scorrerci nelle vene. La mia vita di uomo divora la mia vita di scrittore. Ritengo che l'osservazione per me determinante risalga all'infanzia, quando mi sedevo accanto a mia nonna mentre sorseggiava il caffè e l'offriva ai passanti sulla strada. C'è un unico modo per trovare pace: far affiorare dall'infanzia più profonda il volto sorridente di mia nonna. L'osservazione contiene tutte le arti. Questa osservazione mi ha permesso di scrivere e intendere la scrittura come un'arte totale. A tal proposito ricordo un passaggio di Hemingway. Sosteneva che la gente leggesse molto i giornali. E sarebbe stato interessante creare un libro che assomigliasse a un articolo di giornale senza svanire nel tempo. Qualcosa che la gente possa leggere e rileggere. Mi attrae sempre l'idea di toccare tutti con uno stile primitivo, essenziale, prossimo al giornalismo che dura».

Qual è l'orizzonte della letteratura?
«La letteratura deve trovare nuovi lettori ed entrare nel paesaggio di chi non legge mai. E lo si può realizzare, facendo sapere loro che dentro ai libri ci sono anche le loro vite da andare a cercare».

Perché sostiene che la cultura sia l'unica cosa che Haiti abbia prodotto?
«Non si tratta di una cultura necessariamente insegnabile. I nostri migliori scrittori sono dei narratori notturni. La nostra scrittura scaturisce anche da quella oralità. Gli haitiani possono essere analfabeti e al contempo acculturati. L'Haitian Vodou è complesso e come religione richiede una ginnastica intellettuale enorme. Malgrado tutto la nostra cultura popolare è ricchissima, basta fare riferimento all'inestimabile patrimonio poetico dei proverbi, che si abbina a quella officiale. L'unica sovvenzione sotto il regime dei Duvalier consisteva nel riuscire a non farsi incarcerare. Da poco tempo è stato istituito un ministero culturale, ma questa è un'altra storia».

Quanto conta la musicalità nella sua scrittura?
«Nessuno può insegnarti a scrivere una frase che suoni bene. È scrivendo che si impara a scrivere. Ci sono due aspetti fondamentali che non bisogna mai perdere di vista: la musica e il ritmo. Non si può rendere la scrittura una sorta di elucubrazione intellettuale, perché nella vita tutto è ritmo. Oggigiorno mi sembra tutto decisamente troppo inquadrato. Non si balla abbastanza. Mi piace sentire che dietro al libro c'è qualcuno. Per arrivarci non basta il talento, ci vuole carattere. Conservare la spontaneità che ne costituisce il vero fascino. Nella quotidianità bisognerebbe tradurre la musica che esiste nella cultura popolare, ossessionata dalla bellezza del ritmo e dall'emozione propria dei grandi poeti. Una poesia dovrebbe riprendere i canti e i movimenti dei contadini durante la semina del riso: Tre foglie/tre radici oh/colui che getta, dimentica/colui che raccoglie, ricorda. Quando si perde il ritmo evapora l'energia vitale di un testo. La ricerca del contagio della bellezza, che non ha nulla a che fare con l'aristocrazia, è il cuore della mia attività. Nel Vodou ci sono dei canti così belli, rapidi e vitali che darei tutti i miei libri per uno di essi. Nella letteratura francese tale ritmo e sonorità è riscontrabile solo in François Villon».

Qual è stata la prima reazione alla notizia dell'ingresso all'Academie française?
«Non ho percepito emozioni particolari, poiché appreso il fatto, Haiti mi ha rubato l'emozione. Persino mia madre, che non si interessa di questi argomenti, mi ha detto: “Deve essere un affare grosso, no?” Haiti aspetta tutti i giorni notizie del genere, lo ritiene normale. Si sogna, non importa di cosa. All'aeroporto parigino Charles De Gaulle ho incontrato un congolese, che mi ha strappato un sorriso: “Sappi, fratello mio, che noi africani sogniamo tutti di divenire presidenti, mai accademici!” L'emozione vera è stata tornare in incognito a Petit Goâve, dove sono cresciuto. Subito hanno scoperto però della mia presenza. Si è presentato un dodicenne, cominciando a recitare un elenco di nomi. Quando ha pronunciato Montesquieu, ho compreso che aveva imparato a memoria la lista di quelli che avevano occupato la sedia numero due all'Academie. “Dany Laferrière da Petit Goâve”, ha aggiunto. In quel momento sono stato nominato ufficialmente all'Academie».