venerdì 11 luglio 2008

Mugabe, l'Africa prigioniera dei suoi dittatori

Lumsa News, praticantato giornalistico

di Gabriele Santoro

ROMA – Robert Mugabe sarà ancora il padre-padrone dello Zimbabwe. Le elezioni legislative vinte dal Movimento Democratico di Morgan Tsvangirai, la pressione della comunità internazionale e dell’Unione Africana non hanno scalfito il sistema di potere del dittatore africano. Abbiamo intervistato padre Giulio Albanese, missionario comboniano e fondatore dell’Agenzia di stampa missionaria Misna, grande conoscitore della realtà africana e delle sue dinamiche geopolitiche.

Qual è la situazione dello Zimbabwe oggi, dopo le elezioni farsa che hanno mantenuto Robert Mugabe al potere? E’ credibile l’ipotesi di un governo di unità nazionale come avvenuto nella recente crisi keniota?
La situazione è molto diversa dal Kenya. I due candidati alla presidenza, Mwai Kibaki e Raila Odinga, erano freschi non venendo da un’esperienza di dittatura o comunque di lungo governo. Robert Mugabe è presidente dello Zimbabwe dal 1980, quando guidò il movimento di indipendenza del paese. Bisogna capire che Mugabe resta un eroe nell’immaginario della gente e ha anche avuto dei meriti. I problemi sono venuti fuori quando ha rifiutato una qualsiasi forma di alternanza al potere, come ha gestito il potere con la violenza di fronte alla crescita del movimento di opposizione. Oggi il paese è allo stremo: il 90% della popolazione fa fatica a sbarcare il lunario, l’inflazione è alle stelle, il rischio di inedia e pandemie incombe sul Paese. Proprio di recente ho ricevuto notizie da Harare che riferiscono di oltre 200 oppositori del regime costretti a rifugiarsi fuori dall’ambasciata statunitense, perché cacciate dai miliziani di Mugabe, per trovare accoglienza.

Come si è arrivati a questa situazione?
Lo Zimbabwe era considerato come un piccolo gioiello. Un Pil in costante crescita, un sistema di infrastrutture all’avanguardia e soprattutto era considerato il granaio dell’Africa australe. Il Paese ha iniziato ad arenarsi sulla riforma agraria: gli interessi dei grandi farmer, con il ruolo decisivo delle multinazionali, e il sistema violento di espropriazione dei terreni del governo di Mugabe hanno innescato un conflitto che ha paralizzato l’economia nazionale.

A differenza di altre volte la comunità internazionale si è mossa, definendo illegittima la consultazione elettorale. Ma la pressione esercitata su Mugabe non è servita a molto. Quante responsabilità ha l’Occidente in questa deriva?
Ragionando con obiettività non si può negare il ruolo negativo assunto dai Paesi occidentali, o comunque economicamente sviluppati, nell’intessere relazioni economiche con regimi dittatoriali salvo poi pentirsi. Il governo di Pechino, seguendo il principio del business, continua a fare affari con lo Zimbabwe di Mugabe affermando di non voler interferire con gli affari interni del Paese. Nel consesso africano Thabo Mbeki, presidente sudafricano, non ha combinato nulla di concreto rispetto a quelle che erano le proprie potenzialità. Si è dimostrato troppo tenero con Mugabe. Anche il Sudafrica ha il suo tornaconto economico nei rapporti con il vicino. Lo stesso vertice dell’Unione Africana di Charm El-cheick non ha espresso una condanna netta e inappellabile al padre padrone Mugabe, invocando l’opportunità di un governo di unità nazionale. Morgan Tsvangirai, leader dell’opposizione democratica, ha già provveduto a rimandare al mittente la proposta: “Un governo di unità Nazionale non risponderebbe ai problemi del Paese e non rifletterebbe la volontà del popolo”. Mugabe ha dimostrato un’arroganza senza pari: dopo aver perso le elezioni legislative e probabilmente anche quelle presidenziali al primo turno, con la minaccia della destabilizzazione ha mantenuto il potere.

Molti dubitano sulle facoltà intellettive e sulla stabilità mentale di Robert Mugabe.
Certamente non è più quello di prima. Molte sue uscite sono sintomo di uno stato di demenza. Quando era sano di mente ha fatto anche cose intelligenti, come nel ruolo assunto nella vicenda del Mozambico. Mugabe è un vecchio che ha trasformato una repubblica in una Monarchia, va messo da parte.

Un altro fronte africano caldo è il nord-Uganda e il Sudan. Dopo i trattati di pace del 2005 a Parigi il quadro geopolitico si è stabilizzato?
La situazione è decisamente migliorata soprattutto per le popolazioni del nord-Uganda, che non sono costrette a vivere con l’incubo delle razzie del Lord's Resistance Army di Joseph Kony. Una scheggia impazzita che trova ancora riparo, insieme ai resti del suo esercito, nel territorio congolese. Un movimento che si è macchiato di crimini indicibili, arruolando bambini soldato. È necessario trovare un modo per snidare Kony. In questo senso il mandato di cattura emesso nell’ottobre 2005 dalla Corte Penale Internazionale dell’Aja per crimini contro l'umanità non aiuta. Bisognava farlo uscire dalla clandestinità, come accaduto per Charles Taylor in Nigeria, e poi arrestarlo: è fondamentale togliere Kony dal suo contesto geopolitico.

Periodicamente in Africa spuntano gruppi di ribelli, ben armati e pronti a combattere in nome di Dio. Quali sono le reali ragioni che armano questi movimenti?
I cosiddetti Ribelli incarnano precisi interessi economici: dai minerali al petrolio. Il movimento di Kony era una estensione militare finanziata dal governo sudanese di Khartoum, che aveva interesse nel pieno controllo del bacino petrolifero del Sud del paese. Gli esempi possono essere molti. In Sierra Leone la guerra civile, con la vergogna dei bambini soldato, è stata fatta per il controllo della produzione diamantifera. In Angola, dopo anni di guerra civile è scoppiata improvvisamente la pace. Non per amore della pace, ma perché ci si è resi conto che serviva per portare avanti il business del petrolio. In Somalia e nel corno d’Africa, il controllo del petrolio, del gas e dell’uranio spiegano il conflitto tra le Corti Islamiche e le forze governative. La frase dell’economista francese Fredirick Bastiat sintetizza bene il quadro: “dove non passano le merci passano le armi”.

Molti paesi africani sono dominati ancora da padri padroni. Dal Gabon di Omar Bongo, presidente dal 1967, alla Libia di Gheddafi. Quale futuro per le classi dirigenti africane: esiste la possibilità di un ricambio generazionale?
Alle spalle di questi leader vetusti c’è una società civile vitale, che sta emergendo con forza. Per sostenerla è necessaria una vera cooperazione internazionale, che non si rifaccia solo alla sfera economica, ma investa nella formazione e nelle risorse umane del territorio. Occorre formare classi dirigenti oneste in grado di amministrare la Res publica. Scuole per la pubblica amministrazione sono importanti quanto i pozzi d’acqua, se non di più.

mercoledì 2 luglio 2008

Il cammino dell'Europa dopo il no irlandese

Lumsa News, praticantato giornalistico

di Gabriele Santoro

ROMA - L’Europa si ferma di nuovo. Il voto popolare irlandese boccia il nuovo Trattato costituzionale europeo nato sulle ceneri delle precedenti bocciature olandesi e francesi. Il no di 860mila irlandesi ripropone il paradosso di un’integrazione europea tanto ambiziosa quanto fragile. Il destino di 500 milioni di europei è stato affidato alle dinamiche identitarie di un Paese, l’Irlanda, che è si trasformato con gli aiuti economici comunitari da paese di emigranti affamati in una Tigre celtica. Quello che era il fiore all’occhiello del successo delle politiche economiche comunitarie ha sbattuto la porta all’idea dell’unione politica e civile europea. Un voto che conferma lo scarso appeal di Bruxelles agli occhi di europei, che ogni qualvolta sono stati a chiamati alle urne per dire la loro sull’Europa ne hanno bocciato le aspirazioni. Per entrare in vigore il Trattato doveva essere ratificato da tutti i 27 stati membri. La via referendaria per l’approvazione è stata scelta solo dall’Irlanda, mentre diciannove paesi, con Francia e Germania in testa, avevano già provveduto alla ratifica per via parlamentare. Il risultato immediato della bocciatura irlandese è stato un nuovo congelamento della situazione: il consiglio europeo ha rinviato al mese di ottobre, inizio della presidenza francese, ogni decisione su come superare l’impasse.

Gli scenari futuri Organizzare un nuovo referendum in Irlanda, uscita parziale dell’Irlanda dall’Ue o un ritorno al Trattato di Nizza? Queste sono le opzioni plausibili sul tavolo degli analisti e dei politici europei. Tornare al voto in Irlanda, dopo una pausa di riflessione interna, è la possibilità più concreta. Come già avvenuto per il trattato di Nizza, dopo una prima bocciatura nel 2001, nel 2002 gli irlandesi sono tornati alle urne dicendo si. L’idea di una rinegoziazione del Trattato di Lisbona sembra impossibile, essendo il frutto di un compromesso complicato e al ribasso del testo costituzionale europeo bocciato in precedenza dai referendum francese e olandese. Continuare a puntare sul Trattato di Nizza renderebbe ancora più stagnante la situazione: quest’ultimo, infatti, prevede il voto all’unanimità per la maggior parte delle decisioni, già difficile per un Europa a 15 e pressoché impossibile con l’allargamento a 27 paesi. Andare avanti solo con chi ci sta è la tentazione forte di alcuni paesi, ma qui si aprirebbero problematiche del tutto nuove e non meno complicate. L’Europa a due velocità non convince soprattutto la Germania di Angela Merkel, mentre il presidente della Repubblica italiano Giorgio Napolitano ha sottolineato la necessità di uno sforzo propulsivo dei paesi fondatori, superando gli ostacoli di un sistema a maggioranza paralizzante.

Il presidente francese Nicolas Sarkozy, in vista della presidenza di turno francese, ha espresso l’intenzione di un’approvazione del Trattato di Lisbona prima delle elezioni europee del giugno 2009. Il nuovo trattato costituzionale ridisegna il parlamento europeo e i rapporti di forza modificati dall’allargamento. Sarkozy aveva puntato forte su questo Trattato semplificato, “leggero”, arrivando a minacciare una sospensione dell’allargamento:”Non si procederà all’allargamento fino a quando non si concretizzerà l’Europa a 27. Niente Lisbona, niente allargamento”. Una minaccia rivolta a uno dei paesi più euroscettici, la Repubblica Ceca, ancora indecisa sull’approvazione del Trattato. Come dichiarato dal presidente della commissione europea Josè Manuel Barroso: “penso sia inconcepibile che un governo firmi un trattato per poi non procedere alla sua ratifica”. L’obiettivo del presidente francese è quello di arrivare al mese di ottobre con in tasca le 26 ratifiche, mettendo l’Irlanda con le spalle al muro.

Un voto contro l’Europa o l’impotenza di Bruxelles? Gli esempi dell’Irlanda e dell’Olanda mostrano che a un alto grado si soddisfazione per l’Europa non corrisponde un impegno positivo in suo favore. Le rilevazioni dell’Eurobarometro nel dicembre 2007 ci dicono come irlandesi e olandesi siano i cittadini più propensi all’Unione europea: rispettivamente il 79% e il 74% considera l’Europa come una buona cosa. La paura di una perdita di influenza con l’allargamento, l’impotenza politica europea di fronte alle sfide di una società globalizzata, la burocrazia e la sovrabbondanza di regole e un deficit di democrazia partecipativa dividono l’Europa dai suoi cittadini. La scelta dei governi nazionali di procedere alla ratifica per via parlamentare accentua la paura di una partecipazione democratica alla costruzione dell’integrazione europea: i cittadini sono chiamati a fidarsi delle scelte delle élites politiche continentali. In sintesi un’Europa fatta per gli europei, ma non dagli europei.

Il ruolo dell’Italia La reazione più decisa alla nuova crisi europea è venuta da un europeista di lungo corso come il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il voto irlandese ha “drasticamente posto un grande problema, il rapporto tra governanti e governati. Troppi governi nazionali hanno negli anni scorsi ritenuto di poter gestire in solitudine gli affari europei. Troppi governi hanno dissimulato le posizioni da essi sostenute in sede europea chiamando in causa l’ Europa, in particolare la burocrazia di Bruxelles come capro espiatorio per coprire le loro responsabilità e insufficienze”. Un vero e proprio atto di accusa per i governi nazionali e le élites politiche che poco o nulla hanno fatto per motivare l’esigenza di una più forte unità europea» dimenticando il «principio ispiratore» della stessa Unione. Vale a dire il «conferimento di quote di sovranità condivisa alla comunità, e quindi all’ Unione europea». Il governo italiano, dopo la parentesi del brindisi leghista a base di birra irlandese, ha ribadito la volontà di ratificare al più presto il Trattato. Il ministro degli esteri Franco Frattini ha spiegato come sia “politicamente impossibile” fermare il processo d’integrazione europeo e un approvazione del parlamento italiano prima delle vacanze estive costituirebbe un forte segnale politico”.