venerdì 20 luglio 2018

Per un nuovo Rinascimento. La visione del Nobel Gao Xingjian

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 24

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

Gao Xingjian, il primo cinese insignito nel 2000 del Premio Nobel per la letteratura, è tante cose insieme: teorico della letteratura, traduttore, romanziere, poeta, pittore e cineasta; ma soprattutto è un uomo libero. Nato a Ganzhou nel 1940, laureatosi nel 1962 all’Istituto di lingue straniere di Pechino, durante la “Grande rivoluzione culturale” fu spedito per cinque anni in un campo di rieducazione. Scriveva in assoluta solitudine, per non mettere in pericolo testimoni con i suoi “reati” intellettuali, e spesso bruciava i manoscritti, affinché non finissero fra le maglie della censura, che non risparmiò le sue opere teatrali considerate sovversive.

Esule dopo la morte di Mao, Xingjian ha espresso in Francia tutto il proprio talento poliedrico. La montagna dell’anima è forse il suo manifesto letterario e come scrive il critico Liu Zaifu: «Nel mondo artistico di Gao ci si muove in un orizzonte che si estende da miti e leggende dell’antichità a racconti e romanzi d’avanguardia. La Cina dell’autocrazia totalitaria maoista, come pure la società occidentale in declino, sono rappresentate con quell’universalità che trascende i confini fra Oriente e Occidente».

Studioso appassionato della storia del Rinascimento, alla Milanesiana, rassegna ideata da Elisabetta Sgarbi, Xingjian ha toccato i punti focali del libro Per un nuovo Rinascimento (La Nave di Teseo, 173 pagine, 20 euro, traduzione di Simona Gallo), un testo denso e ricco di suggestioni per un futuro che tardiamo a immaginare.


Xingjian, qual è la lezione del Novecento di cui non abbiamo colto il senso?
«Il ventesimo secolo è stato profondamente segnato dalla politica autoritaria e dalle ideologie a essa legate. Mai prima nella storia dell’uomo le ideologie avevano pervaso così tanto la vita, influenzato gli artisti e gli scrittori. E non ne siamo fuori. La letteratura affiliata alla politica, persino subordinata a essa è stata un male endemico del XX secolo: ha esortato alla violenza e alla guerra, costruito eroi e leader da venerare. Dovremmo affrancarci definitivamente da tutti gli – ismi novecenteschi che ancora si aggirano fra noi».

Lei scrive che oggi la letteratura deve trascendere la politica e resistere al mercato.
«È esatto. La vera creazione artistica non ha un posto nella società: è la malattia del nostro tempo. La politica permea ancora troppi aspetti della vita come d’altra parte fa il mercato. La letteratura, acquisendo consapevolezza del reale, deve liberarsene. Solo lei è in grado di rendere manifesto ciò che la politica tace e che l’ideologia non può esprimere, ossia la voce e gli autentici sentimenti dell’uomo. La letteratura è espressione di un’indagine infinita, che ha origine dalla necessità dell’uomo di affermare la sua esistenza».

E il posto dello scrittore?
«Sono finite le proclamazioni della “morte dell’autore”, così come la storia non è finita come qualcuno prediva, però lo scrittore, creatore e innovatore della propria lingua, non può essere un funzionario statale. La società contemporanea non gli riserva una posizione particolare. La sua voce si sente quando entra in una polemica politica o si schiera con un partito. Chi vorrebbe resistere alle pressioni del mercato e salvaguardare la propria autonomia in quale condizione versa?».

Lei fa appello a un un nuovo Rinascimento.
«L’occidentalizzazione mondiale è passata per l’Europa con all’origine il Rinascimento italiano, che ha nutrito la fioritura di questa civilizzazione europea e ha risvegliato il senso del bello, l’umanesimo. Oggi c’è la globalizzazione, che non ha prodotto qualcosa di nuovo, una migliore conoscenza, al contrario ha impoverito lo spirito e generalizzato i problemi. Il mondo ha bisogno di un nuovo Rinascimento, che produca una cultura universale e il riferimento può essere a quello italiano. Senza esserne una copia. Lo scrittore non può cambiare il mondo, ma abbiamo bisogno di una nuova visione. Gli intellettuali dovrebbero affrontare la nostra società caotica ed entrare nella condizione dell’individuo contemporaneo».

Il periodo rinascimentale fu pieno di scoperte rivoluzionarie. Nell’era dell’iperconnessione digitale lei che cosa inventerebbe?
«L’invenzione più importante, il cinema, già esiste. Da giovane studente sognavo di fare il cinema influenzato da Ėjzenštejn, il quale sosteneva che nel momento in cui si prendono due inquadrature diverse e si legano, otteniamo un nuovo senso come intrecciando le parole. Ho realizzato anche il mio sogno cinematografico impossibile, tenendomi distante dai produttori. Sono molte le strade espressive per raggiungere il libero pensiero».

La sua vita è stata caratterizzata dalla ricerca e dalla difesa della libertà. Ricorda quando e come iniziò ad avvertire tale esigenza insopprimibile?
«Negli anni della formazione, la lettura, la musica, il teatro insieme al mio grande interesse per la storia, la filosofia, la civiltà mi hanno nutrito e orientato verso il libero pensiero oltre la dittatura. Le meraviglie del Rinascimento italiano sono un patrimonio culturale umano universale, qualcosa che va al di là del tempo, delle frontiere e che è traducibile in tutte le lingue».

 Qual è lo stato della libertà?
«In questo mondo, la libertà individuale è sempre limitata da circostanze politiche e sociali di ogni sorta, e non diciamo qui dell’oppressione nei regimi totalitari. Questa è la gravosa condizione da cui l’uomo ancora non riesce a riscattarsi. Libertà è anche una ricerca ultima, se non l’unica, dell’uomo».

È una forzatura definirla archeologo della terra d’origine che forse non ha mai lasciato, aprendosi senza nostalgia al mondo?
«L’identità e l’identificazione culturale non sono altro che esigenze politiche degli stati-nazione. La letteratura non ha confini e le opere non necessitano del passaporto. Non esiste uno scrittore, degno di tale nome, che non subisca l’influenza di più di una cultura. Kafka, ceco scriveva in tedesco, l’irlandese Beckett in francese: molti hanno scelto una lingua diversa dalla propria originale, dando vita a una nuova esperienza di scrittura. L’interesse per la mitologia classica mi ha sempre accompagnato; dopo decenni di studi e di riflessioni brandelli inerti di memorie sulla Cina arcaica hanno animato il mio dramma epico dal titolo Cronache del “Classico dei monti e dei mari”. La Cina spirituale è sempre con me».

Che cos’è la creazione in questa stagione della sua vita?
«La scrittura è fatica. Ora mi piace dipingere, sperando di realizzare qualcosa di valore. Posso scrivere ancora le poesie non un romanzo, che richiede un tempo che non è più il mio. Bisogna sapere fermarsi e ascoltare il corpo, anche se lavoro ancora quasi tutti i giorni fino a mezzanotte».

Ci racconta il Premio Nobel?
«È equivalso all’essere travolto da una tempesta. Più di prima sono diventato cittadino di un mondo senza frontiere e senza distinzioni di mestieri; mi hanno definito un artista totale. Ne sono fiero e mi commuove».

mercoledì 18 luglio 2018

Nelson Mandela, cent'anni di battaglie

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 1-23

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

Cent'anni fa a Mvezo, un minuscolo villaggio sulle rive del fiume Mbashe, una terra splendida situata a oltre mille chilometri da Città del Capo, nacque Nelson Mandela, icona novecentesca di una storia collettiva e di un cammino verso la libertà e l'emancipazione che non è ancora concluso. 

Il Sudafrica, e il mondo, hanno celebrato il centenario del primo presidente eletto democraticamente  nel 1994 in un paese ancora lacerato dall'oppressione dell'apartheid. È viva la memoria dei 27 anni trascorsi in carcere da Mandela, insieme a tanti compagni di lotta, senza mai perdere la propria identità e il senso di un percorso che dopo aver scalato una montagna ne ha trovata sempre un'altra.

Barack Obama ha conquistato lo stadio di Johannesburg, stracolmo per il Mandela Day, nel discorso più importante da quando non è più il Presidente degli Stati Uniti d'America. Mandela e Obama si sono incontrati una sola volta, nel 2005 a Washington, poi quest'ultimo nel 2013 ha salutato la scomparsa «dell'ultimo grande liberatore del secolo scorso». Invitato a Johannesburg dalla Nelson Mandela Foundation, Obama è stato osannato col coro, “Yes we can”, che ha contraddistinto la sua campagna elettorale. 

«Viviamo in tempi molto strani e molto incerti – ha scandito Obama – . Ogni giorno sentiamo notizie estremamente inquietanti. Per capire come siamo arrivati qui dobbiamo capire che cosa è successo cento anni fa. Le politiche della paura, del risentimento e dell'arretramento iniziano ad avere presa, e questo tipo di politiche ora sono in crescita». E su Mandela: «È il simbolo delle lotte di tutti i diseredati nel mondo. Non erano solo gli oppressi a essere liberati, ma gli oppressori hanno ricevuto un enorme dono: l’opportunità di contribuire agli sforzi per costruire un mondo migliore».

La ricorrenza della nascita di Mandela, festeggiata annualmente, è l'occasione per guardare anche dentro alle contraddizioni e alle disuguaglianze, che tuttora segnano la società sudafricana. Da poco sono usciti in Italia tre libri, che consentono di compiere un viaggio nella memoria, proiettandosi verso il futuro: Il reattivo (Pidgin edizioni) di Masande Ntshanga, La signora della porta accanto di Yewande Omotoso (66thand2nd) e Terra di Sangue di Karin Brynard (e/o). Si tratta di importanti voci non solo letterarie sudafricane, che non evadono le questioni politiche.


«Mandela è stato e resterà una figura immensa nella storia del Sudafrica: l'eroe della liberazione, che ci ha salvato dalla guerra civile e ci ha insegnato il perdono – dice Omotoso –. È un periodo interessante per il paese. C'è la generazione nata libera in democrazia, che senza eresie interroga il mito, i suoi compromessi e la fallibilità propria di ogni essere umano. Questa generazione ha dinnazi lotte altrettanto complesse, che non prescindono dall'eredità di Mandela».

Masande Ntshanga ci porta a Città del Capo, una città moderna e globale di per sé, ma in molti modi ancora definita dalle divisioni di razza e classe del passato. Lo scrittore rafforza le considerazioni di Omotoso: «I giovani continuano ad avere difficoltà a trovare accesso all'educazione e al lavoro. Negli ultimi anni c’è stata una crescente sfiducia nel governo, seguita da un aumento dell’attivismo, nonché una pressione per avere leader politici più giovani. In un primo momento il passato è stato definito dall’ottimismo, che poi si è trasformato in disillusione. Ora il presente è definito da un aumento del coinvolgimento politico, con molti giovani uniti dall’imperativo culturare di costruire una società inclusiva ed equa».

Tra un anno il Sudafrica tornerà al voto in quadro politico in movimento dopo il tramonto della discussa stagione dell'ex presidente Jacob Zuma con l'African National Congress, il movimento e partito politico nato l’8 gennaio 1912 per combattere l’apartheid guidato da Mandela, in piena transizione. «La presidenza Zuma è stata spesso considerata disastrosa; un qualcosa che la gente non vuole che si ripeta. Siamo curiosi di vedere se l’ANC perderà la sua presa o se acquisirà nuovamente la sua forza. La crisi del partito ha prodotto però una reazione con una rinnovata partecipazione delle persone alla sua vita».

Una questione sempre centrale nel dibattito pubblico sudafricano, e lo diventerà sempre più in vista delle elezioni, è la proprietà terriera, che rimane uno dei simboli della diseguaglianza. Il thriller di Karyn Brynard illumina il tema, toccando quello della violenza che ancora domina i rapporti sociali: «La polizia non considera la violenza brutale degli assalti alle fattorie, che non colpisce solo i proprietari bianchi, per bottini esigui con una propria specificità, la derubrica a criminalità comune; i gruppi politici bianchi invece non esitano a definirlo un genocidio. L'agricoltura in Sudafrica non è mai stata semplice; ha profonde implicazioni storiche e politiche. La terra conserva tutto il retaggio ingombrante del passato coloniale e delle ferite dell'apartheid».

E poi c'è il razzismo, male endemico ancora da debellare: «È difficile raccontare una storia sudafricana senza affrontare la questione razziale – conclude Brynard –. Siamo uno degli ultimi paesi al mondo in cui il razzismo è stato soppresso in modo formale dalla legge e dichiarato un crimine contro l'umanità. Non abbiamo pienamente fatto i conti col pregiudizio culturale che ci attanaglia. Ma l'intera società umana è ancora alle prese con il razzismo. Il Sudafrica con il suo difficile processo di riconciliazione post apartheid insegna al mondo quanto il razzismo danneggi sia le vittime sia chi lo perpetra».