giovedì 21 gennaio 2010

Radio Haiti

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di Gabriele Santoro


ROMA (21 gennaio) – La radio è il mezzo d’informazione più diffuso ad Haiti. Sono oltre duecento le stazioni radiofoniche nel paese caraibico, concentrate soprattutto nella capitale haitiana, molte delle quali distrutte dal terremoto. Gli abitanti di Port-au-Prince vivono con l’orecchio incollato a vecchie radioline per cercare contatti e voci rassicuranti. Per tutta la giornata l’equipe di Radio Caraibes, come testimonia questo video dell’Afp, trasmette notizie dal marciapiede antistante la sede lesionata dell’emittente. Un generatore elettrico, che serve anche a ricaricare i cellulari di centinaia di persone, e una grande antenna rossa permette di diffondere i programmi in francese e in creolo.

«Siamo giornalisti, dobbiamo fare il nostro mestiere - raccontano i giornalisti di Radio Caraibes - La gente aspetta notizie dei propri cari. La nostra priorità è spiegare alla gente che si tratta di un terremoto e non della fine del mondo, come pensano in molti». La radio si è trasformata anche in uno strumento per lanciare messaggi: «Ciao Nadia Chaduc, se sei viva chiama al 3428-3218». «Mi chiamo Jocelyne Junie, sto bene e sono stata curata all’ospedale Renaissance, vorrei che i miei parenti mi raggiungessero con del cibo». Da un paio di giorni ha ripreso a funzionare la radio dell’Onu, Minustah Fm, grazie al lavoro dei tecnici di Radio France e TDF (Telediffusion de France).

Il centro di trasmissione della radio è situato nei pressi dell'aeroporto di Port-au-Prince. «In una situazione in cui solo qualche stazione radio ha potuto continuare a trasmettere fra le decine che sono state distrutte, la radio dell'Onu - afferma Radio France - diventerà un luogo aperto a tutti che raggruppa più di 25 giornalisti haitiani venuti da diverse stazioni. La radio propone un programma quotidiano per un pubblico haitiano, in francese e in creolo, denominato "Ensemble, avec Haiti"».

Ci sono molte radio haitiane che trasmettono anche da città statunitensi, come Radio Soleil d’Haiti da New York o Radyo Leve Kanpe disponibile in FM sia dal New Jersey sia da Inche nell’isola caraibica. Dalle frequenze di Radio Melodie in uno studio resistito al terremoto. Nei primi Anni Novanta la diffusione capillare di piccole radio, chiamate comunitarie, ha permesso la circolazione delle informazioni anche nei centri più poveri e isolati di Haiti.

Radio Haiti Inter, Montas è viva. Nella storia della radiofonia haitiana Radio Haiti Inter occupa un posto speciale. Nei giorni scorsi l’haitiana Michèle Montas, fondatrice con il marito Jean Dominique di Radio Haiti Inter e negli ultimi tre anni portavoce del segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, dopo essere data per dispersa i funzionari del Palazzo di Vetro hanno comunicato invece notizie rassicuranti sulle sue condizioni. L’esperienza d’informazione indipendente e democratica di Radio Haiti Inter, narrata nel film The Agronomist, ha accompagnato dal 1960 la travagliata storia della “Perla delle Antille”. Da radio di intrattenimento con l’arrivo di Jean Dominique, l’agronomo «che coltivava la mente del suo popolo», e di Michèle Montas si è trasformata in strumento di opposizione alla dittatura sanguinaria dei Duvallier e dei regimi militari corrotti susseguitisi. La prima emittente a comunicare in lingua creola, perché come ricordava Dominique «non siamo inglesi, non siamo francesi e tantomeno americani. Siamo haitiani».

Il “business rischioso” d’informare come lo definiva Dominique era diventato uno straordinario punto di riferimento per le aspirazioni democratiche dell’isola. L’omicidio, consumato nell’aprile del 2000 e a tutt’oggi impunito di Dominique, i numerosi attacchi alla Montas e la violenza crescente hanno costretto nel 2002 Radio Haiti Inter a chiudere i battenti. Chissà che dalle ceneri di questo devastante terremoto non possano ricominciare a vibrare anche le frequenze libere di questa radio.

lunedì 18 gennaio 2010

L'Esquilino tra integrazione e degrado

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di Gabriele Santoro


ROMA (18 gennaio) - Il vento e la pioggia di questi giorni non hanno spazzato via i fiori e i ceri adagiati vicino ai cancelli dei giardini di Piazza Vittorio, all’angolo tra via Bixio e via Principe Eugenio, in memoria di Sher Khan. Mohammad Muzaffar Alì, chiamato dagli amici Sher Khan, uno dei leader storici dei movimenti antirazzisti cittadini, ha atteso vanamente per vent’anni il permesso di soggiorno. Nella notte del 9 dicembre è morto al freddo avvolto da qualche cartone e coperta di fortuna proprio nel cuore di Roma, all’Esquilino. La fine più cruda di quell’integrazione mancata de “Il rione incompiuto”, che si dibatte tra le opposte rappresentazioni del felice quartiere multiculturale e dell’invivibile Bronx.

Il volume. Il rione incompiuto. Antropologia urbana dell’Esquilino (CISU, pag.340, 32 euro), curato da Federico Scarpelli ricercatore in Scienze etnoantropologiche dell’Università La Sapienza, è un viaggio nelle trasformazioni di “una città nella città”, che ha il suo snodo centrale nei portici tardo-ottocenteschi ideati dall’architetto Gaetano Koch. Un quartiere dal grandissimo valore simbolico e dalla forza comunicativa svelata dal milanese Gadda nel “Pasticciaccio brutto di via Merulana”, «in cui la città e l’Esquilino sono scelti per rappresentare la vita nella sua totalità, caotica, zeppa di dialetti, di gerghi, di umori, di emozioni». O più recentemente dal giornalista e scrittore migrante Amara Lakhous nel romanzo “Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio”. Questa ricerca sull’Esquilino ha il pregio di scendere tra la gente. Fa parlare le suggestioni e le insoddisfazioni dei residenti, riannoda in un lavoro prezioso i fili della memoria del quartiere e fotografa la realtà senza infingimenti.

Una realtà variegata che attrae anche «stranieri ricchi desiderosi di comprare una casa all’Esquilino come fosse New York - svela Adriana Serpi nel capitolo “Il rione europeo” - Il rione più cosmopolita e multietnico di Roma e almeno in questo ricorda la Grande Mela. Avevo già rilevato come l’eterogeneità sociale, culturale ed etnica, rappresentasse uno dei fattori determinanti alla base della scelta abitativa di molti nuovi residenti». Nelle oltre trecento pagine dense di riferimenti e di spunti di riflessione si respira l’aria delle strade dell’Esquilino: la sensazione di smarrimento e anonimato di fronte all’invasione di negozi cinesi «difficilmente appetibili per un cliente romano», la ricchezza culturale di luoghi come l’associazione Apollo 11 dove è sbocciata la splendida storia dell’Orchestra di Piazza Vittorio, gli odori del mercato, trasferito nel 2001 alle ex caserme Pepe e Sani, impregnati nei marciapiedi e nei ricordi delle persone.

«Rione in bilico».
Federico Scarpelli nel capitolo “La memoria e l’emergenza” affronta le criticità di un rione che si sente ai margini del centro storico, incerto del proprio status urbano, dove «alla triade microcriminalità, senso d’invasione e degrado si sommano altri segni sul territorio, come la mancanza di una vita notturna ristoranti o bar di un certo tipo». Nelle interviste, in questo saggio rivolte ai residenti dell’Esquilino di vecchia data, emerge il disorientamento per gli elementi di disorganizzazione sociale o inciviltà fisiche come «il degrado edilizio, la mancata manutenzione dei luoghi pubblici dei quartieri, la scarsa illuminazione, i rifiuti ai lati delle strade» e sociali «come rumori e comportamenti fisicamente o solo visivamente molesti. la presenza di ubriachi o tossicodipendenti» con cui si convive. Più che la repressione, l’interazione e la riappropriazione civile di spazi pubblici può reagire ed escludere elementi pericolosi. L’autore rievoca «una nuova grande stagione urbana, in cui cittadini e visitatori amano essere sedotti dalle città e chiedono di poterle vivere di più. Anche se è notte, anche se non è il proprio quartiere, e anche se si è donne».

Il mercato identitario. La storia del mercato alimentare di Piazza Vittorio non può essere scissa da quella del rione. Christian Micciché nel capitolo “Costruzione e memoria di uno spazio urbano” illustra come «la piazza sebbene ristrutturata, ripavimentata, svuotata dei banchi del mercato e circondata dal traffico appare così ridotta a un luogo di transito e non più punto di ritrovo per la collettività». Le testimonianze dei residenti raccontano questa voragine simbolica, che le diverse amministrazioni nella lenta riqualificazione urbana non hanno saputo colmare: «Il mercato dava un po’ la cifra di questo quartiere – spiega Valerio, prof. di antropologia - Il mercato popolare è proprio una spazio di mobilità, di vita, di espedienti. Questo era il suo fascino». Simonetta ricorda quando «c’era il tranvetto bianco e blu dai colli, ci veniva tutta la povera gente a fare la spesa». Alessandro rimpiange i cocomerai estivi, perché «ci venivano da tutta Roma a mangiare il cocomero. La notte erano sempre aperti e ci davano un senso di sicurezza».

venerdì 15 gennaio 2010

I beni delle mafie diventano "cosa nostra"

Cosa prevede la legge, tappe fondamentali. La legge n.575 del 31 maggio 1965 è stata la prima a prevedere misure di prevenzione attivabili verso soggetti “indiziati di appartenere ad associazioni mafiose” e a introdurre la confisca dei beni nella disponibilità diretta o indiretta dell’affiliato.
All’indomani dell’omicidio eccellente del generale Carlo Alberto dalla Chiesa il parlamento approvò la legge n. 646/82, conosciuta come Rognoni-La Torre, che ha svolto un ruolo decisivo nel contrasto alla criminalità organizzata con l’introduzione nel Codice penale dell’articolo 416 bis e la fattispecie del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso. Altro elemento fondamentale della legge è il sequestro e la confisca da parte del Tribunale e la devoluzione allo Stato dei beni illecitamente ottenuti dei quali non fosse stata dimostrata la legittima provenienza.
Nel 1996 sulla spinta dell’imponente raccolta di un milione di firme dell’associazione Libera, il parlamento approvò all’unanimità la legge 109/96 che può essere considerata come un completamento della Rognoni-La Torre, in quanto prevede il riutilizzo a fini sociali o istituzionali degli immobili o delle aziende sottratte alle mafie. Si passa così da un’azione prettamente repressiva, come il sequestro e la confisca, a un’evoluzione culturale, sociale ed economica del contrasto alle mafie.

L’Agenzia del Demanio è responsabile della gestione dei beni confiscati dal momento della confisca definitiva del bene fino alla sua destinazione. La decisione sulla destinazione finale del bene è disposta dal Prefetto, su proposta non vincolante del Dirigente regionale dell'Agenzia del Demanio, sulla base della stima del valore risultante dagli atti giudiziari e sulla consultazione delle Amministrazioni interessate all'utilizzo del bene. Una volta adottato il provvedimento, il bene immobile viene consegnato all’utilizzatore. Dal 2005 è stato creato un unico database nazionale con le informazioni sui beni. Dal 2007 è stato approntato un nuovo modello di gestione e destinazione dei beni confiscati detto Progetti Territoriali, che prevede la consegna di Pacchetti omogenei di beni agli Enti locali e il loro riutilizzo sociale attraverso la firma di Protocolli d’intesa con le molteplici realtà della società civile.
Dal 1999 è stato istituito l’Ufficio del commissario straordinario del governo per la gestione e la destinazione dei beni confiscati. Soppresso dal 1 gennaio 2004 è stato riattivato nel 2007. Svolge un compito di sintesi e coordinamento fondamentale tra le amministrazioni pubbliche e il tessuto associativo interessato all’assegnazione dei beni. Importante anche la sua opera di monitoraggio. Un altro strumento è il Fondo unico giustizia: istituito con la legge n.133 dell’agosto 2008 prevede che le somme di denaro sequestrate e i proventi dei beni confiscati affluiscano al Fondo unico giustizia. Il fondo è gestito dalla società creata ad hoc Equitalia Giustizia spa, in cassa sono presenti 700 milioni di euro e lo scopo è di “riassegnare quote del Fondo ai ministeri dell'interno, della giustizia e all'entrata del bilancio dello Stato per le successive destinazioni”.

Con la legge 194/2009 sono state introdotte delle novità importanti per la velocizzazione delle procedure di assegnazione dei beni, ma c’è anche stata l’approvazione di un emendamento alla legge Finanziaria che “prevede la vendita degli immobili cui il Prefetto non è riuscito a destinare entro i 90 (0 180 nei casi più complessi) giorni previsti”. Un provvedimento fortemente criticato soprattutto dalle associazioni antimafie e che come sottolinea Don Luigi Ciotti “tradisce lo spirito della legge 109/96, la riutilizzazione sociale del bene, e rischia di far tornare nelle mani delle mafie tramite prestanome i beni faticosamente sottratti”.

Le cifre. Dal 1996 al 30 giugno 2009 i beni immobili (ville, alberghi, capannoni, etc) confiscati alla criminalità sono stati 8.933 (5407 quelli destinati, 4738 consegnati, per un valore di 725 milioni euro, l’86% è stato affidato a Enti locali per finalità sociali, il 14% allo Stato per finalità istituzionali). L’83% dei beni confiscati è situato nelle quattro regioni meridionali: Sicilia 46% (4.075), Campania 15% (1323), Calabria 14% (1300), Puglia 8% (722). Il rapporto tra bene confiscato e bene destinato è sempre stato in saldo negativo. Negli ultimi diciotto mesi c’è stata un’inversione di tendenza: ne sono stati destinati 1438 (valore patrimoniale di 230 milioni di euro), nei precedenti dodici anni 3969 per un valore di 500 milioni.
Le aziende (soprattutto nei settori delle costruzioni, ristorazione, immobiliare, turistico) confiscate sono 1.185, di cui solo 388 destinate (uno sconfortante 38%, 11% poste in vendita o in affitto, 89% in liquidazione, 1 azienda su 3 è tecnicamente fallita prima della consegna all’Agenzia del Demanio) e 581 sono uscite dalla gestione per fallimento, cessione o revoca della confisca. Il 38% delle imprese confiscate si trova in Sicilia (452), il 19% in Campania (227), il 14% in Lombardia(164), nel Lazio l’8% (101). Dai dati dell’Agenzia del Demanio al 31/12/2008 risultano destinatari dei beni confiscati 480 Comuni (oltre il 90% collocato al Sud) per una quantità complessiva di 3796 beni immobili.

Trecentosessantadue Comuni per 3141 beni hanno risposto al monitoraggio dell’Ufficio del commissario governativo sull’utilizzo dei beni confiscati: il 47.41% è effettivamente riutilizzato, il restante 52% no. Queste le motivazioni del mancato utilizzo: 6% immobili inagibili, 18.40% carenza di risorse finanziarie, 2.78% immobili in quota indivisa, 6% immobili occupati, 29.24% procedure per l’utilizzo avviate, 14% in attesa di finanziamenti, 25% varie. Nei primi nove mesi del 2009 sono stati liberati 160 immobili occupati abusivamente, spesso dagli stessi mafiosi. La carenza di risorse da destinare alla ristrutturazione e alla riconversione dei beni (spesso vandalizzati prima del rilascio o nell’attesa dell’assegnazione) è una delle ragioni principali del mancato utilizzo.

In Lombardia c’è un protocollo d’intesa che stanzia 4 milioni di euro per il biennio 2009/2010, nel Lazio sono stati stanziati 6.9 milioni di euro per il triennio 2009/2011 per finanziare progetti di ristrutturazione e conversione. Per le regioni dell’Obiettivo convergenza (Sicilia, Calabria, Campania, Puglia) le risorse fanno riferimento al Programma operativo nazionale sicurezza, di cui è responsabile il commissario governativo, per un ammontare di 91.546.293 euro. Così suddivisi: in Sicilia 29 milioni di euro, in Puglia 22 milioni (più il bando “Libera il bene” Por 2007/2013 20 mln), in Campania (25 mln), in Calabria 13 (più il Por 2007/2013 per 20 mln).

Il ruolo delle associazioni. Le associazioni del terzo settore svolgono un ruolo fondamentale nella concreta attuazione della legge 109/1996. Grazie alla progettualità e all’impegno volontaristico i luoghi dell’illecito si trasformano in centri di socializzazione, di educazione alla legalità e di economia alternativa.
"Tra i beni confiscati particolare importanza rivestono i terreni agricoli: il loro elevato numero denota quanto l’investimento in agricoltura rappresenti una forma di riciclaggio di denaro sporco. Al 30/06/2008 i terreni agricoli risultavano essere il 21% del totale. La coltivazione delle terre assegnate alle cooperative ha rappresentato, oltre a un’occasione di lavoro per i giovani che vivono in zone ad alto tasso di disoccupazione, anche un duro colpo all’immagine d’incontrastato dominio delle mafie”. In Sicilia troviamo le cooperative più avviate come la Placido Rizzotto in provincia di Palermo o la Pio La Torre di Corleone: i prodotti dalla pasta al vino sono acquistabili a Roma, Napoli, Palermo etc nelle botteghe della legalità di Libera Terra.

Il 19 marzo 2009 l’associazione Libera e migliaia di manifestanti provenienti da tutta Italia hanno riempito le strade di Casal di Principe nella giornata di ricordo di Don Peppe Diana. Contestualmente alla manifestazione è stato sottoscritto il protocollo d’intesa “Le terre di don Peppe Diana” tra il Commissario straordinario, la Regione Campania, la Provincia di Caserta, i comuni di Cancello/Arnone e Castel Volturno, la Asl e le Associazioni del terzo settore per la costituzione di una cooperativa che nell’opera dei volontari di Libera Caserta già vive. La cooperativa, chiamata appunto “Le terre di don Peppe Diana”, gestirà complessivamente 88 ettari di terreno agricolo tra i comuni nel quadrilatero Casal di Principe - Cancello Arnone - Pignataro - Castel Volturno. In questo primo anno di lavoro nei sette ettari del podere di via Pagliuca a Castel Volturno, appartenuto al contrabbandiere Michele Zaza, la costituenda cooperativa ha svolto una funzione sociale di incredibile rilevanza.

La scorsa estate oltre cinquecento giovani provenienti da tutta Italia hanno passato almeno una settimana a testa nel bene confiscato, contribuendo alla ristrutturazione degli enormi spazi prima abbandonati e prendendo coscienza di una realtà difficile ma ricca di potenzialità. Nel mese di dicembre nelle stalle dove il boss teneva i propri cavalli purosangue è stata inaugurata la prima biblioteca pubblica di Castel Volturno, difficile crederlo, ma in un comune con oltre 23mila abitanti non ne esisteva una, grazie anche alla donazione di 5000 volumi da parte della Provincia di Pisa. Dalla prossima primavera poi partirà l’attività a pieno regime del caseificio, perno centrale del progetto in questo terreno, che punta a produrre quotidianamente 500 kg di pregiata mozzarella di bufala e a coinvolgere gli imprenditori locali anti-racket.

Gennaro Diana, l’anziano ma sempre combattivo e solare papà di Don Peppe, fa spesso visita ai giovani della cooperativa. Su campi come questo ha trascorso una vita di duro lavoro e oggi si commuove a guardare quei terreni restituiti alla collettività. “Mio figlio oggi sarebbe contento. E anch’io morirò contento se queste zone verranno ricordate come “le terre di don Peppe Diana”, arate dai trattori della legalità”.

martedì 5 gennaio 2010

Basket, Svetislav Pesic: "Roma nel cuore"

Il Romanista, pag. 9, 5 gennaio 2010


ROMA - Svetislav Pesic è un personaggio unico, mai banale. È sul podio insieme a Ettore Messina e Zelimir Obradovic dei tecnici più vincenti d’Europa degli ultimi vent’anni. Amato e odiato nella sua parentesi romana (dal gennaio 2005 al giugno 2006), ricordato per frasi storiche come “Se vincemo grande coach, se perdemo solo coach” e per il modo speciale in cui vive la panchina. Nell’era Toti è stato l’allenatore che ha offerto il rendimento e i risultati migliori, rispetto alla squadra messa a disposizione. Discutibile lo stile capelliano del suo brusco addio per tornare nell’amata terra di Catalogna. Dalla sua Belgrado, dove si sta godendo un anno sabbatico, ci parla della Virtus, dell’Eurolega e della Serbia ritrovata.

Quanto le manca una panchina da top-team europeo e il sapore della vittoria?
«Dopo una carriera di trent’anni senza pause ho deciso di stare fermo per una stagione. Al momento sto discutendo diverse offerte sia con squadre di club sia con nazionali. La mia giornata è sempre piena di pallacanestro con molti clinic per addetti ai lavori. Poi sono impegnato nella rappresentanza Adidas e a febbraio sarò negli Stati Uniti. La voglia di vincere è quella di sempre».

Roma non sta vivendo un momento felice. Claudio Toti a fine stagione sarebbe pronto a lasciare. Come sono stati i suoi rapporti con il presidente?
«Molte persone hanno tentato di creare dissidi tra me e il presidente, ma il mio rapporto con lui è stato eccellente. Il problema di Toti è che è solo, a dispetto delle tante persone che pretendono di aiutarlo. Un uomo da solo non può raggiungere risultati. Porto un profondo rispetto per la sua persona, per gli investimenti e la passione che ha messo nella pallacanestro. Senza di lui la vedo dura per il basket di alto livello a Roma».

Si rimprovera qualcosa per come ha lasciato Roma? Con un po’ più di pazienza non avrebbe potuto vincere anche qui?
«Tornare indietro purtroppo è impossibile. Il mio problema è stato quello di volere vincere subito, per quella che è la storia della mia carriera. Non ho trovato la mia stessa passione e fame nel lavoro. Ma penso di aver profuso il massimo impegno. Siamo arrivati a un supplementare dalla vittoria in Coppa Italia. Abbiamo riportato l’entusiasmo al Palaeur con due semifinali e la qualificazione europea. Se li ricorda? Io non dimentico quegli spalti».

Ha parlato con Bodiroga dopo il suo addio alla Capitale?
«Dejan (Bodiroga, ndr) è sereno. Sta riorganizzando la sua vita a Belgrado, dopo aver lasciato tanti anni fa il suo paese in tenera età. Ci siamo confrontati anche sulla Virtus e lui ha la mia stessa opinione. Toti è troppo solo».

Dopo molti anni la Serbia è tornata competitiva negli Europei in Polonia. Quali sono i giovani più interessanti?
«La Serbia è un altro mondo rispetto a paesi come la Spagna, l’Italia. Il basket è lo sport più popolare, un po’ come in Lituania o in Slovenia, si respira la passione per le strade con un bacino di talenti potenzialmente enorme. Negli ultimi anni, dopo il trionfo al Mondiale di Indianapolis, la nazionale maggiore non ha ottenuto risultati importanti, ma si è lavorato molto sulle giovani generazioni. C’è stata una nuova covata di talenti. Nemanja Bjelica e Marco Keselj sono i giocatori più interessanti, possono ricoprire diversi ruoli. Poi c’è Boban Marjanovic (alto 221 cm, 127 kg), un centro molto interessante in forza all’Hemofarm (tutti e tre classe 1988, ndr). Nei top-team europei abbiamo gente di valore lanciata dal Partizan come Velickovic e Tepic».

Non pensa che gli agenti abbiano troppo potere di condizionare le società, soprattutto quelle deboli?
«Questo è un argomento molto interessante, ma ci vorrebbe molto tempo per svilupparlo. Gli agenti sono una parte importante dello sport. Penso che sia necessaria una cooperazione leale. Dal mio punto di vista i procuratori non devono interferire nello sviluppo tecnico del giocatore, quello è un lavoro che spetta solo all’allenatore».

Non trova noiosa l’attuale Eurolega, con il gap economico stratosferico tra le squadre?
«La crisi economica che ha travolto il mondo ha aumentato la distanza economica tra i club. Questo è negativo, ma ha anche aspetti positivi. Può costringere le squadre a non comprare giocatori tanto per farlo, ma per costruirli in casa, progettare e produrre in proprio. Secondo me Roma ha un’idea interessante in questo senso. Si trova un buon nucleo di italiani, a partire da Datome e da quel playmaker di due metri (Vitali, ndr). L’Italia purtroppo non è ricca di prospetti, ma ci sono giovani molto interessanti come Aradori, Melli e soprattutto Gentile. La Virtus si riprenderà con il sostegno dei tifosi e deve difendere gli altri due anni di licenza per l’Eurolega».

Boniciolli è la scelta giusta?
«Conosco Matteo da vent’anni. È un ottimo coach, carismatico e con molta esperienza nel campionato italiano. Può far risalire la squadra, anche se purtroppo le finali di Coppa Italia sembrano compromesse. Due anni fa mi impressionò positivamente la sua Avellino».

Il Barça riporterà l’Eurolega in Spagna?
«Credo che alle Final Four ci sarà un derby spagnolo con il Real Madrid, poi il solito Panathinaikos. Siena quest’anno credo si giocherà il posto con l’Olympiakos, che è più talentuosa ma meno squadra».
Il quintetto ideale di giocatori allenati da Svetislav Pesic.
«Vuole mettermi in difficoltà, ce ne sono troppi. Come point-guard Sasa Obradovic, sul perimetro Peja Stojakovic e Dejan Bodiroga, sotto canestro Teoman Alibegovic e Vlade Divac». Niente americani, c’erano pochi dubbi Svet.