giovedì 11 agosto 2016

Il fumo nero di Marcinelle

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Questo pezzo, in versione ridotta, è uscito sul Venerdì.

di Gabriele Santoro

A sessant’anni dalla catastrofe di Marcinelle Maria Di Valerio, vedova del minatore Camillo Iezzi, un bel ragazzo di Manoppello all’epoca appena ventiseienne, racconta che nessuna immagine è stata cancellata dalla memoria, le grida di dolore davanti ai cancelli della miniera le rimbombano ancora nell’anima.


L’8 agosto del 1956 l’incendio nella miniera, a – 975 metri, del Bois du Cazier di Marcinelle, concepito nel 1882 e mai modernizzato, presentò alle famiglie di 262 lavoratori di dodici nazionalità, fra i quali 136 italiani, il prezzo della politica europea che senza alcuna tutela sociale scambiava con accordi bilaterali fra Stati braccia per il carbone. L’economia belga necessitava della manodopera italiana, ma il carbone belga, a Marcinelle estratto soprattutto da minatori abruzzesi, raramente è arrivato.

Alle otto del mattino due vagoni, uno pieno di carbone e l’altro vuoto, accesero l’inferno. Presumibilmente mal posizionati nell’ascensore, che trasportava il combustibile fossile estratto, divelsero durante l’ascesa, scattata in modo imprevisto, le condutture dell’olio, i tubi dell’aria compressa e i cavi dell’alta tensione appiccando il fuoco. L’allora trentunenne Antonio Iannetta, che lavorava lì da 4 anni come ingabbiatore e non parlava il francese, si autoaccusò di aver innescato la catastròfa a causa di un movimento anomalo della gabbia dopo la manovra di carico del carbone sul vagonetto. Poi partì immediatamente per il Canada, destando numerosi sospetti e la sensazione che la verità piena non si saprà mai.

Nel distretto minerario di Charleroi era una giornata di sole con il cielo terso, che finì tingendosi di nero in una nuvola di fumo e dolore. Tutta la struttura era ancora in legno come nell’Ottocento senza alcuna porta mangiafuoco in ferro. La prima concessione per poter estrarre carbone dal Bois du Cazier fu accordata alla Douairière Desmanet di Nivelles nel 1822, per poi passare a fine secolo nelle mani della Société anonyme des charbonnages du Bois du Cazier.

Il dodicenne Nino Di Pietrantonio, figlio di Emidio, tra i 224 orfani, appuntò pagine di diario toccanti: «(…) Mamma sale in camera e volge lo sguardo verso la miniera: “Nino, mettiti le scarpe e e vieni con me che dobbiamo andare al Cazier”». È stata una corsa disperata verso una sensazione diventata realtà nel volgere di poche ore: «Nessuno parla, mentre il cielo ci regala una pioggia nera e puzzolente. Tre giorni davanti al cancello, poi a casa sfinito, e dalla finestra guardo la miniera che arde ancora». Dopo una settimana una signorina sussurrò courage madame. Grazia Toppi, la vedova Di Pietrantonio, svenne: «Non c’è più nulla da sperare, papà Emidio non c’è più, è morto al Bois du Cazier di Marcinelle». Il 24 agosto 1956 il ministro per gli affari economici Jean Rey annunciò ufficialmente «che nessuno è vivo in fondo alla tragica fossa di Marcinelle».

Le mogli e i familiari, che riuscirono a identificare i propri cari, le vittime, da piccoli frammenti di tessuto e altri minuscoli particolari, restano una domanda al cuore, alle fondamenta dell’Europa che è stata e sarà. Nino, presidente dell’Associazione Minatori-Vittime del Bois du Cazier di Lettomanoppello, non ha mai smesso di cercare la verità, non accontentandosi di quella ufficiale. Nel 2000 è volato a Toronto e ha rintracciato Iannetta per trarre una ricostruzione scevra dalle pressioni politiche ed economiche dell’epoca. Ha cercato di sapere se davvero dentro alla bara ci fossero i resti di suo padre, Emidio. «Ecco, secondo me la miniera del Bois du Cazier non funzionava più, era già stata troppo sfruttata e si voleva provocare un piccolo incidente per poterla chiudere, invece non so cosa sia successo, ma l’operazione è sfuggita di mano», ha detto a Paolo Di Stefano.

Nei giorni della tragedia da Roma non si mosse alcuna autorità istituzionale dal Presidente del Consiglio Segni a quello della Repubblica Gronchi. E anche dopo i familiari delle vittime hanno denunciato la lontananza dello Stato italiano. Dal 1946, anno in cui Belgio e Italia siglarono l’accordo bilaterale, che definiva le condizioni di invio di manodopera italiana e il corrispettivo in forniture di carbone, al 1956 nelle miniere belghe persero la vita 1164 minatori, 435 dei quali italiani.

«A Marcinelli c’era tutta la Belgìca, compreso re Balduino che giustamente ha arrivato per presentare le condoglianze del governo: io me lo ricordo che mi ha passato vicino alla spalla, alto e distinto, con la camicia bianca profumata, l’abito bello grigio elegante e un cappello sulla testa che sembrava un attore uscito dai film americani, come Anfribògar di Casabianca. E si vedeva re Balduino dentro il fumo nero, solo fumo», nella lingua commovente di un operaio.


Per 43 giorni il fumo continuò a uscire con l’aria intrisa di morte: «Nelle gallerie della catastròfa, io ci ho lavorato quattro anni dopo la sciagura e le pietre erano ancora rosse, il caiù era cotto, e forse c’era ancora la cenere dei morti», ha raccontato Vincenzo Catano a Paolo Di Stefano in La catastròfa (Sellerio, 2011).

L’ingegnere capo al Bois du Cazier, Jacquemys Eugène, membro della Società di Studio del Petrolio, dichiarò di non sapere che l’olio bruciasse. Nella miniera non c’erano estintori. I periti documentarono che la sicurezza era deficitaria e non erano stati previsti dispositivi di soccorso. Il primo ottobre 1959 il Tribunale Penale di Charleroi emise una sentenza di assoluzione per tutti gli imputati della catastrofe. L’avvocato Jacques Moins in Corte d’appello a Bruxelles ottenne la parziale riforma della sentenza con la condanna per omicidio involontario del Capo dei lavori di fondo, l’ingegnere di miniera Calicis, a sei mesi di carcere con la condizionale di tre anni. Le altre assoluzioni vennero confermate.

Toni Ricciardi, storico delle migrazioni presso l’Università di Ginevra, in Marcinelle, 1956 (Donzelli, 24 euro, 175 pagine), con un capitolo curato da Annacarla Valeriano, elabora una riflessione preziosa sulla storia dell’emigrazione italiana, contestualizzando l’apice tragico dei caduti in miniera. Innanzitutto ci fu la persistenza della logica fallimentare e omicida di continuare a utilizzare l’emigrazione quale strumento di politica economica e valvola di sfogo sociale: «Regolari o irregolari, l’importante era che ne partissero il più possibile per andare a scavare nelle viscere della terra quel carbone che sarebbe dovuto servire per il rilancio economico della disastrata Italia e per la battaglia del carbone in Europa», evidenzia l’autore.

Le classi dirigenti, al fine di allentare le tensioni sociali e ottenere rimesse dall’estero, convinsero con una propaganda a tappeto che partire era giusto e necessario. «L’ammontare delle rimesse, dei redditi di lavoro inviati in patria, ha sempre costituito uno dei più importanti elementi per l’equilibrio economico e finanziario dello Stato italiano, contribuendo infatti a pareggiare la bilancia dei pagamenti del nostro paese», ha scritto Umberto Cassinis ne Gli uomini si muovono (Loescher, 1975).

L’Italia libera dall’oppressione nazifascista, in perfetta contiguità con la propria storicizzata (dal 1865 al 1914 quattordici milioni di italiani lasciarono la patria) politica sull’emigrazione, anche durante il fascismo, mise in pratica il più imponente sistema di esportazione di manodopera che la storia occidentale ricordi. Ricciardi spiega bene come l’accordo del 23 giugno 1946, che impegnava il governo a trasferire 50mila compatrioti nelle miniere belghe, si rifacesse a quello del ’37 con la Germania: operai qualificati dalle nostre fabbriche per l’economia nazista in cambio di carbone e marchi.

Dal 1922 al 1938 a causa del fascismo furono 255mila italiani emigrati per ragioni politiche. La vibrante propaganda del regime in chiave antiemigratoria e nazionalista non modificò sostanzialmente né fermò del tutto l’emigrazione italiana. All’inizio del Novecento l’Italia si dotò del Commissariato generale dell’emigrazione e della prima legge generale sulla materia. Ricciardi sottolinea l’ambivalenza di Mussolini nel linguaggio e nella scelta politica di tagliare il bilancio del Commissariato, mentre all’ambasciatore a Washington raccomandava di perorare la causa dell’Italia fascista nella speranza che gli Stati Uniti, che avevano chiuso le frontiere, mantenessero un varco più largo per la nostra emigrazione qualificata. Roma era assillata dal venir meno della principale direttrice di fuoriuscita, quella statunitense.

«Ragionevolmente, andrebbe anche rivista, se non sfumata, la posizione rispetto alla quale si è immaginato che fosse stato il fascismo a subordinare la politica migratoria ai fini generali di politica estera. Questa subordinazione era già presente in epoca liberale, fu accresciuta durante il fascismo e consacrata dai governi repubblicani», insiste Ricciardi.

Come anticipato le modalità dell’emigrazione italiana nella Germania nazista e la gestione del flusso tra il 1938 e il 1943 «rappresentano una delle migliori chiavi interpretative al fine di comprendere come e con quali logiche si sviluppò la stagione degli accordi d’emigrazione dell’Italia postfascista e repubblicana». La manodopera italiana, dai braccianti agricoli agli operai (quantificati in 200mila lavoratori dalle nostre fabbriche) nell’industria bellica, costituì un serbatoio imprescindibile per l’economia nazista. Nel 1946 pur consci della pericolosità del lavoro e delle condizioni di vita nelle baracche, in precedenza destinate ai prigionieri di guerra, i partiti politici italiani votarono all’unanimità l’accordo col quale Roma assicurava a Bruxelles duemila minatori a settimana in cambio di carbone. Prima ancora dell’avvio dei lavori dell’Assemblea Costituente, l’Italia aveva gettato col Belgio le fondamenta per un accordo strutturato d’emigrazione.


La Stazione Centrale di Milano, dove oggi sostano i migranti in fuga da guerra e fame, ieri ospitava la macchina burocratica dell’emigrazione destinazione Belgio, che timbrava i sogni di riscatto dalla povertà da tutte le periferie d’Italia. Complessivamente dall’aprile 1946 al giugno 1950 da Milano partirono 83mila minatori ai quali si aggiunsero 21426 familiari. I soli paesi di Manoppello, comune della provincia di Pescara che contava settemila abitanti fra i quali 325 emigrati in Belgio dal 1946, Lettomanoppello e Turrivalignani contarono 43 morti a Marcinelle. Oltre al reclutamento ufficiale di Stato, ieri come oggi, i migranti finirono spesso nella rete di trafficanti senza scrupoli.

Nei primi dieci anni di emigrazione nel secondo dopoguerra mondiale, il lavoro in condizioni disumane degli emigranti nelle miniere fece vincere al Belgio la battaglia del carbone, contribuendo in modo sostanziale alla ripresa dell’economia belga. Lo stesso Congo, ricorda Ricciardi, fondato arbitrariamente da Leopoldo II con l’intensa attività estrattiva fu una palestra per l’impiego massiccio di manodopera straniera: «Gli italiani prevalentemente uomini venivano utilizzati nelle miniere o in agricoltura come una sorta di razza di mezzo fra belgi e congolesi. In una prima fase destinati alle piantagioni di cacao e caucciù – prendendo il posto degli schiavi dopo l’abolizione del regime coercitivo – e successivamente impiegati come minatori specializzati».

Nel periodo tra le due guerre mondiali gli italiani arrivarono in Belgio per lavorare nelle miniere, che dagli anni Venti registravano una crescente penuria di manodopera locale. Nel 1939 già in 40mila avevano raggiunto il Belgio.

Come spiega Cassinis: «Emigrazione di massa – indiscriminata – ed emigrazione attentamente selezionata sono due momenti storici ben distinti l’uno dall’altro, ma entrambi rispondenti a due precise esigenze economiche del sistema capitalistico. La strategia che presiede l’emigrazione di massa può essere paragonata a quella dei primi periodi di industrializzazione di un Paese». Una volta soddisfatte le esigenze produttive di base – continua Cassinis – si consente l’ingresso solo a quelle categorie o a quelle popolazioni delle quali si ha bisogno per mantenere un certo equilibrio etnico e di mercato.

La Prima Guerra Mondiale segnò la fine della libera emigrazione e nel secondo dopoguerra essa è stata collegata all’esigenza produttiva di manodopera che non si reperiva nel mercato nazionale. Le statistiche messe insieme da Ferenczi e Willcox, su incarico del National Bureau of Economic Research statunitense e dell’International Labour Office, hanno quantificato in circa trentanove milioni di persone il deflusso migratorio dei cittadini europei verso gli altri continenti tra il 1861 e il 1913. Un esodo, un’emigrazione proletaria di massa alla quale l’Italia contribuì per circa un quinto del totale. La rivoluzione nei trasporti mondiali fu un fattore chiave, l’abbattimento dei tempi di navigazione come quello del costo del muoversi. In quarant’anni gli Stati Uniti quintuplicarono la propria rete ferroviaria. Buona parte dei flussi finanziari mondiali si dirigevano proprio verso i trasporti.

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