di Gabriele Santoro
Dzenana Dedić è nata a Mostar cinquantuno anni fa. Durante la guerra le hanno bruciato la casa, che era situata a pochi passi dall’ufficio in cui lavora, ed è stata espulsa nella parte est della città, ma non l’ha mai lasciata. Ricorda la fila delle macchine che nel 1992 abbandonarono in fretta e furia Mostar all’arrivo dei carri armati dell’Armata popolare jugoslava. E poi l’inferno che ha distrutto la città, la cosiddetta seconda guerra di Mostar, nel 1993 quando è deflagrato lo scontro tra bosgnacchi e croati. «Non mi abituerò mai alla spartizione su base etnica di un luogo che rappresentava ante litteram il multiculturalismo, la conversazione tra diversi – dice Dedić –. Eravamo una storia cosmopolita plurisecolare culturalmente rilevante, stiamo riscrivendo tante piccole storie insignificanti».
Nel biennio 1994-’96, fondamentale per la ricostruzione, Dedić è stata una figura di raccordo nei dipartimenti dell’European Administration for Mostar e ora guida la Local Agency for Democracy. Proprio nel 1996 si tennero le prime elezioni. A ventidue anni dalla fine della guerra Mostar vive uno stato di democrazia formale, una democratura l’avrebbe definita Predrag Matvejević. Lo scorso due novembre in Bosnia ed Erzegovina, la cui architettura istituzionale appare sempre più nella propria incoerenza e farraginosità burocratica, si sono svolte le elezioni amministrative e Mostar è l’unica città a non aver votato. Lo stesso giorno cinquemila mostaresi hanno reagito allo stallo e hanno inscenato un simulacro elettorale. Dopo aver allestito vere e proprie urne, si sono recati a votare simbolicamente. Il dato politico ineludibile, che emerge da qualsiasi fonte interpellata a Mostar, è la lenta ma inesorabile agonia dell’accordo di pace di Dayton, che istituzionalizza de facto una divisione etnica amministrativamente e socialmente ingestibile.
«Nel giorno in cui si recupera dalla Neretva la parte centrale dell’arco del vecchio ponte, assisto a questo avvenimento con una strana emozione. Abbiamo visto gli ingegneri ungheresi che sollevavano con una grande gru, su una zattera, il troncone dello Stari Most che non univa solo le due sponde di questa città, ma altresì le vie dell’Oriente e dell’Occidente. Tornerà a farlo?», si chiedeva Matvejević nel 1998. Questa città, attraversata dall’acqua dei fiumi Neretva e Radobolja, dove il sole splende anche d’inverno e l’aria è pulita, è piena di ponti, ne sono stati ricostruiti sette dei dieci distrutti durante la guerra, ma pochi ancora li attraversano: a est i musulmani, a ovest i croati. Il 70% degli attuali abitanti è arrivato dopo la guerra, per programmazione politica e in fuga soprattutto dall’est dell’Erzegovina, e non aveva la cultura urbana dei mostaresi. Il cosmopolitismo è stato il principale nemico da abbattere con la guerra.
Su un pilone del principale cantiere edilizio attivo, sarà un albergo della multinazionale statunitense Marriott a pochi passi dal cuore antico della città, campeggia la scritta «War is not over». La guerra non è finita, ma nessuno la può vincere. La pulizia etnica non ha cancellato l’antica traccia multiculturale di questa terra. L’ultimo censimento, risalente a tre anni fa, recita che a fronte di circa 110mila abitanti, la componente croata cattolica è superiore di non più di mille unità rispetto a quella bosgnacca con una ripresa della presenza serba, quasi sparita durante il conflitto.
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Mostar, 2017 |
Dedić, nel documento in cui avete rivendicato il diritto a votare c’è scritto: «Vogliamo fermare l’agonia». Perché da otto anni non si elegge il sindaco a Mostar?
«Il nostro attuale problema principale è l’accordo di pace di Dayton, fondamentale per il disarmo e per fermare le uccisioni, che non può però continuare a essere la nostra costituzione. Non garantisce una visione comune, de facto istituzionalizza la divisione in base all’etnia, senza spazio alcuno per le minoranze. Mostar contiene in scala ridotta tutti i travagli della Bosnia ed Erzegovina. I fondamentali processi democratici sono sospesi, tutto è in mano alle leadership dei partiti, privi di democrazia interna, gli stessi che hanno condotto la guerra. A Mostar da otto anni non c’è il consiglio comunale. Formalmente il sindaco, per decisione del parlamento, è l’ultimo eletto e in carica, espressione del partito croato Hdz, mentre l’Sda bosgnacco tiene l’ufficio del bilancio. In due stabiliscono i livelli di spesa, il budget annuale, e determinano le scelte urbanistiche che, senza alcun piano regolatore, rendono irriconoscibile la città rispetto al passato».
Dunque possiamo dire che i due partiti principali, che non trovano l’accordo per la riforma elettorale locale, di fatto governano insieme?
«Certamente. Non intendono trovare un accordo per tornare al voto, che li costringerebbe a confrontarsi in un’assemblea pubblica e a condividere indirizzi comuni, ma spartiscono il potere. È una diarchia che condanna la città alla separazione».
Mostar è condannata a restare una città divisa?
«Mostar era la città col più alto numero di matrimoni misti della Jugoslavia. La divisione delle famiglie è l’aspetto più doloroso, questa è la linea di guerra più profonda e insopportabile che hanno voluto tracciare».
Prima della guerra Mostar aveva centoventimila abitanti. Nel marzo del 1995, le armi tacevano da qualche mese, la diplomazia internazionale chiuse in un cassetto il censimento demografico, appaltato ai tecnici del governo svedese. Era materia politica esplosiva. La pulizia etnica ha stravolto la composizione?
«Guardando i numeri, potremmo dire che nessuno ha vinto la guerra. La pulizia etnica ha stravolto la composizione sociale. L’accordo di Dayton sanciva il diritto al ritorno nella terra da cui si è stati estromessi, ma non c’era possibilità. Quando si va via, difficilmente si torna indietro. Il 70% degli attuali abitanti di Mostar non erano qui prima della guerra, sono giunti soprattutto dalle aree rurali dell’Erzegovina. Non ci sono la cultura della convivenza e la consapevolezza del cosmopolitismo propri di epoche passate».
Hans Koschnick, socialdemocratico tedesco, la cui famiglia ebbe il coraggio della resistenza al nazismo, è una figura chiave per comprendere la situazione attuale. Dal 1994 al 1996, in qualità di commissario dell’European Administration for Mostar, si spese per riunire la città. Rischiò il linciaggio da parte di estremisti croati, non soddisfatti dei confini urbani delimitati tra est e ovest.
«Una parte della città considera Hans molto positivamente. In quel periodo, in ossequio al mandato dell’Unione Europea, intendeva creare un’area centrale della città con i servizi di pubblica utilità (stazione ferroviaria, centro sportivo, ospedale) che si astraesse dai confini delle municipalità, tre croate, tre musulmane, in cui fu divisa Mostar. Un distretto funzionale all’incontro nel cuore del patrimonio culturale mostarese. Nelle due decadi trascorse i confini di questa zona sono stati sempre più ristretti da chi non è soddisfatto di quanto già siamo divisi. Alle prime elezioni del 1996 si presentò un partito che univa bosgnacchi e croati, poi è scomparso».
E oggi qual è l’influenza dell’Unione Europea nell’area?
«Di rilevanza limitata. Sulla Bosnia ed Erzegovina è forte l’influenza della Turchia, della Russia sulla Republika Srpska, e ovviamente a ovest gli Stati Uniti. Restiamo sempre il parco giochi delle grandi potenze in un’area che non se la passa per niente bene. Non siamo in grado di formare un governo abbastanza forte per autodeterminarsi: “Questo è il nostro paese e indichiamo la direzione”, non sono in grado di affermarlo».
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Il Ponte vecchio distrutto nel 1993 |
John Yarwood, architetto e direttore della ricostruzione per conto dell’European Administration of Mostar, sostiene: «Gli edifici sono stati ricostruiti anche rapidamente, non la vita della città».
«Eravamo affamati, non avevamo vestiti, non avevamo case, tutto era stato distrutto: ho perso ogni cosa. Mostar e Vukovar sono probabilmente le due città più violentate dal conflitto. Yarwood guidava il mio dipartimento. Non oso pensare quale sarebbe la situazione odierna se non avessimo reagito, noi cittadini, subito. La gente di Mostar è stata fondamentale per la ricostruzione. C’era adrenalina, energia, voglia di ascoltarsi gli uni con gli altri, nonostante le ferite fossero ancora caldissime. Ogni piccolo passo era in realtà grande.
Si respirava un clima positivo: diamoci da fare, ritroviamo una vita. Sono stati investiti molti soldi con la priorità delle case dopo la complessa classificazione dei danni, e anche qui la politica ha cercato di dividere, destinando gli aiuti alle rispettive cerchie. Abbiamo ricostruito le nostre case e contemporaneamente, mentre lottavamo per tornare a una vita normale, i politici hanno creato tale ambiente sociopolitico. Il sistema dei partiti ha alimentato una struttura così inscalfibile che non c’è strada per spezzarla. Si annidano in ogni infrastruttura nazionale del paese, contando sulla sicurezza di una cittadinanza inconsapevole della propria forza e della possibilità di contare».
A ventidue anni dalla fine del conflitto bellico, che cosa s’intende per democrazia in Bosnia ed Erzegovina?
«Stiamo ancora cercando di comprendere la democrazia. Prima del crollo della Jugoslavia chi veniva dalla Romania guardava nel raffronto al nostro paese come un luogo meraviglioso, ma non c’era democrazia, la scelta era limitata al nome dentro al partito unico. Non sapevamo come vivere in democrazia, tuttavia le assicuro che non è cambiato molto. Ora votiamo, o almeno quando ci è consentito, in un sistema multipartitico ma gli eletti, i rappresentanti del popolo, agiscono, recitano come prima, perché le persone non conoscono e non usano gli strumenti propri di un sistema democratico, richiamandoli ai propri doveri nell’interesse generale del paese. Spesso chiedo ai referenti di tutti i partiti: “Quanta democrazia c’è dentro al tuo partito?”. Ci sono i leader e quel che decidono loro è la linea da portare avanti. La nostra è la democrazia del ristorante, dove si incontrano i leader dei partiti e prendono gli accordi. La tavola è il luogo dove siedono insieme e decretano i piani per il nostro paese».
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East Mostar |
Di che cosa si occupa un’agenzia locale per la democrazia?
«Per esempio per la prima volta dalla fine della guerra siamo riusciti a organizzare una tribuna pubblica in ciascuna delle sei aree della città per far incontrare politici e cittadini, che non sono a conoscenza di come venga speso il denaro pubblico. Fino a quando ce n’era uno lavoravamo per dare un minimo di trasparenza ai processi legislativi del consiglio comunale. Recentemente abbiamo effettuato la prima rilevazione, entrando nelle case delle persone a chiedere il livello di gradimento dei servizi pubblici erogati. Ora il progetto principale è il Balkan regional platform for youth participation and dialogue, una sponda istituzionale per i movimenti giovanili e l’incontro tra chi può e vuole immaginare una terra non affetta dal nazionalismo».
Qual è il ruolo dei media locali?
«I discorsi carichi di odio arrivarono prima del fuoco delle armi. I discorsi di odio covati dalle élites politiche, intellettuali, poi sono stati moltiplicati e propagati dai media come un incendio. Nessuna guerra sarebbe stata possibile senza i media. E oggi sono assoldati dalla politica che li finanzia e dunque controlla. La democrazia necessita di buoni giornalisti. Leggiamo quello che il circolo politico economico intende farci leggere».
Nel sistema politico bosniaco, segnato dall’estrema frammentazione, i partiti rappresentano realmente i cittadini?
«Dayton ha prodotto uno Stato altamente decentralizzato, quando si sarebbe potuta ottenere una struttura più coerente. Senza sorprese gli stessi partiti che hanno fatto la guerra gestiscono il potere, anche se dentro alle loro dinamiche qualcosa si agita. Chi ha combattuto al fronte inizia a chiedersi e chiedere per che cosa l’abbia fatto; per questo presente, per essere poi accantonati? L’interesse dei partiti è mantenere questa paralisi nella paradossale trappola di Dayton più a lungo possibile, perché è l’unico modo in cui possano conservare le rispettive posizioni di rendita, alimentando un clima di paura, di costante tensione tra etnie: “Loro ti odiano, vota per noi e proteggeremo i tuoi interessi nazionali”. L’etnonazionalismo per i cittadini non è altro che una scelta pragmatica per ottenere un lavoro e favori. Il sistema politico è segmentato e frammentato lungo la linea etnica. La stessa legge elettorale e la costituzione scoraggiano l’attraversamento delle frontiere etniche».
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