di Gabriele Santoro
Roma – La gnura Betta prega giorno e
notte; invoca la benevolenza dei Santi e arricchisce l’arciprete
affinché interceda con l’Altissimo per la sorte dell’unico
figlio, che deve tornare dal fronte. È il 1918. Nella frazione di
San Filipo, nel cuore dell’aspra Calabria agropastorale, il ritorno
dalla guerra di Nicola Napoli, figlio del mezzadro Luigi, illumina il
mutamento sociale di una regione, dove si sta affermando un potere
avido e spietato, promiscuamente alternativo a quello ufficiale.
Gianni della Zoppa, figlio di una famiglia miserrima, ormai veste
all’americana. Partito bracciante affamato; svezzato dalla mala
d’oltreoceano, torna con la dote economica e il crisma del comando
proprio del capobastone.
«Don Nicola Napoli, ricordatevi che il
sottoscritto non è più quel tale ragazzo. Ora se non sopra, vi si
può stare benissimo a fianco», intima il capomafia paesano al
reduce benestante. Un mancato segno di riverenza, un alterco, servono
a Saverio Montalto (all’anagrafe Francesco Barillaro) per gettare
le fondamenta del romanzo La famiglia Montalbano, meritoriamente
ripubblicato dalla casa editrice Periferia. Scritto tra il 1939 e il
1940, dato alle stampe solo nel 1973 da Pasquino Crupi, va
considerata la prima opera letteraria organica sulla nascita e lo
sviluppo della mafia in Italia. Più avanti affronteremo anche la
questione, in apparenza trascurabile, sul primato cronologico conteso
e in modo universale assegnato a Il giorno della civetta di
Leonardo Sciascia. Il libro è una preziosa rappresentazione
dell’epoca, dei caratteri fondanti dell’associazione a
delinquere, e denuncia con lungimiranza l’alba di un nuovo regime.
Il testo conserva una feroce attualità. Come annota Goffredo Fofi
nella postfazione: «È una lettura trascinante per chi non abbia
perso il gusto di una letteratura di veri contrasti e di forti
passioni».
«Ce ne freghiamo altamente di chi sei
e chi non sei, se non appartieni alla famiglia Montalbano. E
ricordati che non siamo più al tempo quando noi piegavamo la testa e
dicevamo gnorsì; ora sei tu che devi piegare la testa, diversamente
te la insegniamo noi la buona creanza», insiste della Zoppa.
Nell’esercizio della prepotenza c’è dunque la rivendicazione di
una rivincita. Il desiderio di ascesa della piramide sociale ingrossa
rapidamente di giovanissimi le fila di un’organizzazione fin dalle
origini interclassista. Al prezzo della libertà individuale, si
coltiva l’illusione dell’accesso a un potere riservato a
un’oligarchia. Montalto smonta la pretesa ideologica, che associa
il propagarsi del fenomeno criminale in Calabria a una lotta di
classe romantica, a una forma di ribellismo al destino di un
sottosviluppo secolare e alla latitanza dello Stato.
La polemica antistatuale dei picciotti
s’impone come copertura propagandistica di un radicamento profondo,
che si sostanzia con la commistione incestuosa con il potere politico
ed economico, locale e centrale. In realtà lo Stato c’è, ed è
corrotto. Lo scrittore calabrese esplicita in più passaggi la
ricerca di un patto sociale della malapianta con le classi dirigenti,
fino a diventare parte integrante delle élites con gli esiti oggi
noti. «La mafia era, ed è, altra cosa: un sistema che contiene e
muove gli interessi economici e di potere di una classe che possiamo
approssimativamente dire borghese; e non sorge e si sviluppa nel
vuoto dello Stato ma dentro lo Stato. Insomma altro non è che una
borghesia parassitaria, che non imprende ma soltanto sfrutta», per
utilizzare le parole di Sciascia. Benché l’universo antropologico
di riferimento del testo abbondi ancora di elementi di un mondo
rurale primitivo, l’autore spiega l’alto grado di penetrazione
mafioso nei mercati e traffici su larga scala, esercitando il
controllo dei settori economici-sociali più avanzati presenti nel
Mezzogiorno, i quali costituiscono l’epicentro del contagio.
Mentre si persisteva nel negare
l’esistenza stessa della mafia (la prima commissione d’inchiesta
parlamentare s’insediò nel febbraio 1963), che è prosperata anche
nell’assenza di un’analisi di critica del mondo intellettuale,
Montalto ne descrive con largo anticipo e lucidamente la complessità
della struttura, le cointeressenze, la dinamicità e la progressiva
lacerazione di un qualsivoglia tessuto democratico. Il confine tra
lecito e illecito sembra svanire. «Ormai tutto è cambiato e se per
il momento non abbiamo tutto nelle nostre mani è questione di tempo
perché l’avremo e allora guai a chi non sarà con noi. Tutti si
devono convincere che se vogliono avere un po’ di comando debbono
mettersi prima d’accordo con noi: assessori, sindaci, deputati,
medici e avvocati», prosegue il capobastone. Ancora: «Vi assicuro
che ormai incomincia a far parte della nostra famiglia gente più
ricca e istruita di voi. Voi ci date i soldi, noi eseguiremo e
controlleremo il territorio».
‘Cola non ne vuole sapere di
ossequiare quell’arroganza. Il massaro Luigi gli consiglia
paternalmente di farsi i fatti propri, come la maggioranza
silenziosa. Per stare in pace, è meglio cercare di lusingare quella
gentaglia. L’unica strada per mettere al sicuro quella testa calda
è combinare il matrimonio, agognato dall’umile Betta, con
Mariangela, nipote dell’arciprete ascoltato e ben disposto
verso lor signori. Ma l’ingenuo amore per la vergine compromessa
Carmeluzza, attraente donna di clan, rompe i giochi; condizionandogli
l’esistenza in una terra senza giustizia. «Le leggi? Mi fate
ridere! La legge è forza e non può non stare con la forza». I
notabili del paese, forti della propria posizione, fanno a gara per
scagionare gli indagati in giudizio. L’avvocato si premura di
predisporre incontri galanti per il cancelliere del tribunale; e
spiega al giovane pretore come funziona. «In fondo è un bravo
ragazzo, però, come del resto tutti coloro che si trovano alle prime
armi piglia le cose troppo sul serio e crede effettivamente che la
giustizia sia sacra e inviolabile», sostiene l’ineffabile Antonio
Botta.
L’autore raffigura i rituali
d’affiliazione, il battesimo del neofito con la vera acqua
lustrale. La costruzione del consenso popolare si fonda
sull’ammirazione per l’uomo d’onore, e su presunte leggende
ancestrali fondative: la picciotteria ostenta un’egemonia anzitutto
pseudoculturale. L’ndrangheta strumentalizza comportamenti, costumi
e religione: si vende quale interprete della società tradizionale.
Montalto si guarda dallo stabilire un nesso consequenziale tra i
tratti di un ambiente culturale e il fenomeno mafioso. La mafia è
rivelatrice di una patologica correlazione tra politica, società e
criminalità dell’Italia postunitaria. Le élites paesane, ben
delineate nel libro, si spartiscono le risorse locali, e rifiutano la
concezione moderna di cosa pubblica e l’impersonalità della legge.
«Tutta questa gente, grande e piccola, si deve convincere che come
dicono le Sacre Carte, chi è con noi e vicino a noi sarà rispettato
e onorato come si merita. Ormai le cose si vanno aggiustando
abbastanza bene e ognuno si sta persuadendo che senza la nostra mano
non c’è niente da fare». Dalle riunioni del crimine scopriamo i
codici del tribunale mafioso di prima istanza, che decreta
dell’altrui vita o morte.
Montalto testimonia il crescente
groviglio di interessi elettorali, in quell’anno fu ampliato il
suffragio universale maschile. Restituisce un quadro realistico della
compromissione dei rappresentanti del popolo. Dialogano i membri
dell’onorata società Gianni della Zoppa e Angelo Bello:
«E dal padre del deputato ci sei stato?»
«Sì, giorni fa»
«Beh?»
«Mi ha detto che quanto prima ci saranno le elezioni e che in questa zona fida completamente su di me; mi ha dato carta bianca in tutto e per tutto; per la giustizia non debbo preoccuparmi affatto che se la vedrà lui». Non sembra di ascoltare la registrazione audio di una contemporanea intercettazione? E dopo aver presenziato in massa alla celebrazione del Santo Patrono: «Si andavano delineando prossime le elezioni e il padre deputato in carica aveva di nuovo chiamato Gianni della Zoppa per comunicargli che egli faceva sempre grande affidamento su di lui e per assicurarlo ancora una volta che poteva continuare a fare i comodi suoi senza preoccupazione alcuna, perché all’occorrenza, per quanto concerneva la giustizia, ci avrebbe pensato lui».
«E dal padre del deputato ci sei stato?»
«Sì, giorni fa»
«Beh?»
«Mi ha detto che quanto prima ci saranno le elezioni e che in questa zona fida completamente su di me; mi ha dato carta bianca in tutto e per tutto; per la giustizia non debbo preoccuparmi affatto che se la vedrà lui». Non sembra di ascoltare la registrazione audio di una contemporanea intercettazione? E dopo aver presenziato in massa alla celebrazione del Santo Patrono: «Si andavano delineando prossime le elezioni e il padre deputato in carica aveva di nuovo chiamato Gianni della Zoppa per comunicargli che egli faceva sempre grande affidamento su di lui e per assicurarlo ancora una volta che poteva continuare a fare i comodi suoi senza preoccupazione alcuna, perché all’occorrenza, per quanto concerneva la giustizia, ci avrebbe pensato lui».
Da intellettuale di provincia, Montalto
non abdica alla propria funzione civile. Nell’interessante
prefazione Marco Gatto riporta la notizia di un carteggio, datato
1952, in cui Mario La Cava propose a Sciascia la lettura, ai fini di
un’eventuale pubblicazione, di alcuni racconti dello scrittore di
Ardore. È presumibile che tra quelli recapitati ci fosse anche I
maffiosi(titolo originario del lavoro). Anche se nella nota in
appendice a Il giorno della civetta, non sarà citato tra i
precursori del genere.
Il personaggio ‘Cola Napoli non ha la
consapevolezza e la maturità del Capitano Bellodi sciasciano, uomo
delle Istituzioni, simbolo dei valori dell’Italia resistenziale.
Colui che caccia il naso negli affari malavitosi (“Perché nel
denaro che lei accumula così misteriosamente, bisogna cercare le
ragioni dei delitti sui quali sto indagando”); che tutela il
diritto di sciopero dei lavoratori: «(…) Stiamo in speranza che
l’onorevole lo faccia ritornare a mangiare polenta. (…) Ha detto
cose da far rizzare i capelli: che la mafia esiste, che è una
potente organizzazione, che controlla tutto». Il Napoli non è un
eroe, piuttosto un testimone sincero e vittima reattiva al proprio
tempo. Bellodi è la nostra coscienza pulita, proviamo ad affidargli
la nostra assoluzione. Nella narrazione di Montalto non c’è spazio
per la redenzione, sembra chiamarci tutti in causa senza adagiarsi
sulla dicotomia bene/male. La struttura dei due romanzi, quanto lo
stile e le stagioni del malaffare in esame, sono distanti,
ma appaiono molteplici punti di contatto.
Missive senza mittente segnano l’intero
svolgimento e orientano i protagonisti della vicenda creata da
Montalto. «È curioso come da questi parti ci si sfoghi in lettere
anonime: nessuno parla ma, per nostra fortuna, dico di noi
carabinieri, tutti scrivono. Dimenticano di firmare, ma scrivono. (…)
Per il caso Colasberna ho ricevuto già cinque lettere anonime»,
dice Bellodi.
Se ‘Cola Napoli rifiuta l’imposizione
del tavolo da poker da condividere con il tracotante capomafia,
Salvatore Colasberna, presidente di una cooperativa edilizia, intende
mantenere l’autonomia imprenditoriale. Guai alle pecore nere: «Si
capisce che se nove ditte hanno accettato protezione, formando una
specie di consorzio, la decima che rifiuta è una pecora nera: non
riesce a dare molto fastidio, è vero, ma il fatto stesso che esista
è già una sfida e un cattivo esempio. E allora bisogna, con le
buone o le brusche, costringerla ad entrare nel giuoco; o ad uscire
per sempre annientandola», ragiona il Capitano.
Ritroviamo posta la questione della
legge e della voce del diritto strozzata. Bellodi interroga
l’indagato Rosario Pizzuco:
«E che cosa ha saputo, da sentire il bisogno di dare consigli a Colasberna?»
«Ho saputo che le sue cose andavano male: e gli ho consigliato di cercare protezione, aiuto…»
«Presso chi?»
«Ma non so…Presso amici, presso banche; cercando di infilarsi in politica per il canale giusto…»
«E qual è, secondo lei, il canale giusto in politica?»
«Direi quello del governo: chi comanda fa legge, e chi vuol godere della legge deve stare con chi comanda». La mafia, con quella che a fine Ottocento Leopoldo Franchetti definì democratizzazione della violenza figlia dell’abolizione del sistema feudale, ha sempre messo sul mercato e venduto il bene della protezione. Passò dall’instaurare un rapporto di reciprocità con il ceto dirigente, mediante l’erogazione di un servizio, all’autonomia.
«E che cosa ha saputo, da sentire il bisogno di dare consigli a Colasberna?»
«Ho saputo che le sue cose andavano male: e gli ho consigliato di cercare protezione, aiuto…»
«Presso chi?»
«Ma non so…Presso amici, presso banche; cercando di infilarsi in politica per il canale giusto…»
«E qual è, secondo lei, il canale giusto in politica?»
«Direi quello del governo: chi comanda fa legge, e chi vuol godere della legge deve stare con chi comanda». La mafia, con quella che a fine Ottocento Leopoldo Franchetti definì democratizzazione della violenza figlia dell’abolizione del sistema feudale, ha sempre messo sul mercato e venduto il bene della protezione. Passò dall’instaurare un rapporto di reciprocità con il ceto dirigente, mediante l’erogazione di un servizio, all’autonomia.
Montalto riconosce e ci presenta la
famiglia naturale quale asse portante della reticolata struttura
‘ndranghetista. Un microcosmo in cui i sentimenti in scena sono
piegati alle necessità del comando. E Sciascia scrive: «(…)
Pensava il capitano, che la famiglia è l’unico istituto veramente
vivo nella coscienza del siciliano: ma vivo più come drammatico nodo
contrattuale, giuridico, che come aggregato naturale e sentimentale.
La famiglia è lo Stato del siciliano».
I due autori sono accomunati da un
palese disprezzo per la compiacenza dell’area grigia politica, che
dà linfa al sistema mafioso. «Anche lei è un uomo» – dice
Bellodi all’intoccabile Don Mariano Arena. «E nel disagio che
subito sentì di quel saluto delle armi scambiato con un capo mafia,
a giustificazione pensò di avere stretto le mani, nel clamore di una
festa della nazione, e come rappresentanti della nazione circonfusi
di trombe e bandiere, al ministro Mancuso e all’onorevole Livigni:
sui quali don Mariano aveva davvero il vantaggio di essere un uomo».
Il massaro Luigi avverte un soffocante
senso d’impotenza; manifesta un dolore storicizzato. S’indigna il
capitano Bellodi in licenza a Parma, al quale hanno inabissato
l’inchiesta. Persone incensurate, insospettabili, per censo e per
cultura rispettabilissime sottraggono l’ultima possibilità di
ottenere giustizia mediante la legge. «Egli ormai era perfettamente
convinto che la giustizia non avrebbe fatto più niente per vendicare
suo figlio. Tutto si era messo a tacere specie dopo che i giudici
avevano interrogato il medico, l’arciprete e l’assessore, alle
cui dichiarazioni, in qualità di persone le più autorevoli e quindi
le più attendibili del villaggio, non si poteva non dare il giusto
peso. E poi sia i giudici sia i carabinieri erano stati sollecitati
dai superiori i quali a loro volta personalmente dal deputato del
collegio di non andare tanto per il sottile nella faccenda di ‘Cola
Napoli. Anche perché non si poteva fare a meno di ammettere, che in
vita era stato un individuo pericoloso, violento, seduttore di
donne».
Saverio Montalto non è Leonardo
Sciascia, ma ci ha lasciato un documento letterario di grandissimo
valore. E noi, a un secolo di distanza, siamo ancora qui a romperci
la testa sulle ramificazioni globali di una malapianta
consustanzialmente moderna.