domenica 24 agosto 2014

La famiglia Montalbano: raccontare la mafia vent'anni prima di Sciascia


di Gabriele Santoro

Roma – La gnura Betta prega giorno e notte; invoca la benevolenza dei Santi e arricchisce l’arciprete affinché interceda con l’Altissimo per la sorte dell’unico figlio, che deve tornare dal fronte. È il 1918. Nella frazione di San Filipo, nel cuore dell’aspra Calabria agropastorale, il ritorno dalla guerra di Nicola Napoli, figlio del mezzadro Luigi, illumina il mutamento sociale di una regione, dove si sta affermando un potere avido e spietato, promiscuamente alternativo a quello ufficiale. Gianni della Zoppa, figlio di una famiglia miserrima, ormai veste all’americana. Partito bracciante affamato; svezzato dalla mala d’oltreoceano, torna con la dote economica e il crisma del comando proprio del capobastone.

«Don Nicola Napoli, ricordatevi che il sottoscritto non è più quel tale ragazzo. Ora se non sopra, vi si può stare benissimo a fianco», intima il capomafia paesano al reduce benestante. Un mancato segno di riverenza, un alterco, servono a Saverio Montalto (all’anagrafe Francesco Barillaro) per gettare le fondamenta del romanzo La famiglia Montalbano, meritoriamente ripubblicato dalla casa editrice Periferia. Scritto tra il 1939 e il 1940, dato alle stampe solo nel 1973 da Pasquino Crupi, va considerata la prima opera letteraria organica sulla nascita e lo sviluppo della mafia in Italia. Più avanti affronteremo anche la questione, in apparenza trascurabile, sul primato cronologico conteso e in modo universale assegnato a Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia. Il libro è una preziosa rappresentazione dell’epoca, dei caratteri fondanti dell’associazione a delinquere, e denuncia con lungimiranza l’alba di un nuovo regime. Il testo conserva una feroce attualità. Come annota Goffredo Fofi nella postfazione: «È una lettura trascinante per chi non abbia perso il gusto di una letteratura di veri contrasti e di forti passioni».

«Ce ne freghiamo altamente di chi sei e chi non sei, se non appartieni alla famiglia Montalbano. E ricordati che non siamo più al tempo quando noi piegavamo la testa e dicevamo gnorsì; ora sei tu che devi piegare la testa, diversamente te la insegniamo noi la buona creanza», insiste della Zoppa. Nell’esercizio della prepotenza c’è dunque la rivendicazione di una rivincita. Il desiderio di ascesa della piramide sociale ingrossa rapidamente di giovanissimi le fila di un’organizzazione fin dalle origini interclassista. Al prezzo della libertà individuale, si coltiva l’illusione dell’accesso a un potere riservato a un’oligarchia. Montalto smonta la pretesa ideologica, che associa il propagarsi del fenomeno criminale in Calabria a una lotta di classe romantica, a una forma di ribellismo al destino di un sottosviluppo secolare e alla latitanza dello Stato.

La polemica antistatuale dei picciotti s’impone come copertura propagandistica di un radicamento profondo, che si sostanzia con la commistione incestuosa con il potere politico ed economico, locale e centrale. In realtà lo Stato c’è, ed è corrotto. Lo scrittore calabrese esplicita in più passaggi la ricerca di un patto sociale della malapianta con le classi dirigenti, fino a diventare parte integrante delle élites con gli esiti oggi noti. «La mafia era, ed è, altra cosa: un sistema che contiene e muove gli interessi economici e di potere di una classe che possiamo approssimativamente dire borghese; e non sorge e si sviluppa nel vuoto dello Stato ma dentro lo Stato. Insomma altro non è che una borghesia parassitaria, che non imprende ma soltanto sfrutta», per utilizzare le parole di Sciascia. Benché l’universo antropologico di riferimento del testo abbondi ancora di elementi di un mondo rurale primitivo, l’autore spiega l’alto grado di penetrazione mafioso nei mercati e traffici su larga scala, esercitando il controllo dei settori economici-sociali più avanzati presenti nel Mezzogiorno, i quali costituiscono l’epicentro del contagio.

Mentre si persisteva nel negare l’esistenza stessa della mafia (la prima commissione d’inchiesta parlamentare s’insediò nel febbraio 1963), che è prosperata anche nell’assenza di un’analisi di critica del mondo intellettuale, Montalto ne descrive con largo anticipo e lucidamente la complessità della struttura, le cointeressenze, la dinamicità e la progressiva lacerazione di un qualsivoglia tessuto democratico. Il confine tra lecito e illecito sembra svanire. «Ormai tutto è cambiato e se per il momento non abbiamo tutto nelle nostre mani è questione di tempo perché l’avremo e allora guai a chi non sarà con noi. Tutti si devono convincere che se vogliono avere un po’ di comando debbono mettersi prima d’accordo con noi: assessori, sindaci, deputati, medici e avvocati», prosegue il capobastone. Ancora: «Vi assicuro che ormai incomincia a far parte della nostra famiglia gente più ricca e istruita di voi. Voi ci date i soldi, noi eseguiremo e controlleremo il territorio».

‘Cola non ne vuole sapere di ossequiare quell’arroganza. Il massaro Luigi gli consiglia paternalmente di farsi i fatti propri, come la maggioranza silenziosa. Per stare in pace, è meglio cercare di lusingare quella gentaglia. L’unica strada per mettere al sicuro quella testa calda è combinare il matrimonio, agognato dall’umile Betta, con Mariangela, nipote dell’arciprete ascoltato e ben disposto verso lor signori. Ma l’ingenuo amore per la vergine compromessa Carmeluzza, attraente donna di clan, rompe i giochi; condizionandogli l’esistenza in una terra senza giustizia. «Le leggi? Mi fate ridere! La legge è forza e non può non stare con la forza». I notabili del paese, forti della propria posizione, fanno a gara per scagionare gli indagati in giudizio. L’avvocato si premura di predisporre incontri galanti per il cancelliere del tribunale; e spiega al giovane pretore come funziona. «In fondo è un bravo ragazzo, però, come del resto tutti coloro che si trovano alle prime armi piglia le cose troppo sul serio e crede effettivamente che la giustizia sia sacra e inviolabile», sostiene l’ineffabile Antonio Botta.

L’autore raffigura i rituali d’affiliazione, il battesimo del neofito con la vera acqua lustrale. La costruzione del consenso popolare si fonda sull’ammirazione per l’uomo d’onore, e su presunte leggende ancestrali fondative: la picciotteria ostenta un’egemonia anzitutto pseudoculturale. L’ndrangheta strumentalizza comportamenti, costumi e religione: si vende quale interprete della società tradizionale. Montalto si guarda dallo stabilire un nesso consequenziale tra i tratti di un ambiente culturale e il fenomeno mafioso. La mafia è rivelatrice di una patologica correlazione tra politica, società e criminalità dell’Italia postunitaria. Le élites paesane, ben delineate nel libro, si spartiscono le risorse locali, e rifiutano la concezione moderna di cosa pubblica e l’impersonalità della legge. «Tutta questa gente, grande e piccola, si deve convincere che come dicono le Sacre Carte, chi è con noi e vicino a noi sarà rispettato e onorato come si merita. Ormai le cose si vanno aggiustando abbastanza bene e ognuno si sta persuadendo che senza la nostra mano non c’è niente da fare». Dalle riunioni del crimine scopriamo i codici del tribunale mafioso di prima istanza, che decreta dell’altrui vita o morte.

Montalto testimonia il crescente groviglio di interessi elettorali, in quell’anno fu ampliato il suffragio universale maschile. Restituisce un quadro realistico della compromissione dei rappresentanti del popolo. Dialogano i membri dell’onorata società Gianni della Zoppa e Angelo Bello:
«E dal padre del deputato ci sei stato?»
«Sì, giorni fa»
«Beh?»
«Mi ha detto che quanto prima ci saranno le elezioni e che in questa zona fida completamente su di me; mi ha dato carta bianca in tutto e per tutto; per la giustizia non debbo preoccuparmi affatto che se la vedrà lui». Non sembra di ascoltare la registrazione audio di una contemporanea intercettazione? E dopo aver presenziato in massa alla celebrazione del Santo Patrono: «Si andavano delineando prossime le elezioni e il padre deputato in carica aveva di nuovo chiamato Gianni della Zoppa per comunicargli che egli faceva sempre grande affidamento su di lui e per assicurarlo ancora una volta che poteva continuare a fare i comodi suoi senza preoccupazione alcuna, perché all’occorrenza, per quanto concerneva la giustizia, ci avrebbe pensato lui».

Da intellettuale di provincia, Montalto non abdica alla propria funzione civile. Nell’interessante prefazione Marco Gatto riporta la notizia di un carteggio, datato 1952, in cui Mario La Cava propose a Sciascia la lettura, ai fini di un’eventuale pubblicazione, di alcuni racconti dello scrittore di Ardore. È presumibile che tra quelli recapitati ci fosse anche I maffiosi(titolo originario del lavoro). Anche se nella nota in appendice a Il giorno della civetta, non sarà citato tra i precursori del genere.

Il personaggio ‘Cola Napoli non ha la consapevolezza e la maturità del Capitano Bellodi sciasciano, uomo delle Istituzioni, simbolo dei valori dell’Italia resistenziale. Colui che caccia il naso negli affari malavitosi (“Perché nel denaro che lei accumula così misteriosamente, bisogna cercare le ragioni dei delitti sui quali sto indagando”); che tutela il diritto di sciopero dei lavoratori: «(…) Stiamo in speranza che l’onorevole lo faccia ritornare a mangiare polenta. (…) Ha detto cose da far rizzare i capelli: che la mafia esiste, che è una potente organizzazione, che controlla tutto». Il Napoli non è un eroe, piuttosto un testimone sincero e vittima reattiva al proprio tempo. Bellodi è la nostra coscienza pulita, proviamo ad affidargli la nostra assoluzione. Nella narrazione di Montalto non c’è spazio per la redenzione, sembra chiamarci tutti in causa senza adagiarsi sulla dicotomia bene/male. La struttura dei due romanzi, quanto lo stile e le stagioni del malaffare in esame, sono distanti, ma appaiono molteplici punti di contatto.

Missive senza mittente segnano l’intero svolgimento e orientano i protagonisti della vicenda creata da Montalto. «È curioso come da questi parti ci si sfoghi in lettere anonime: nessuno parla ma, per nostra fortuna, dico di noi carabinieri, tutti scrivono. Dimenticano di firmare, ma scrivono. (…) Per il caso Colasberna ho ricevuto già cinque lettere anonime», dice Bellodi.

Se ‘Cola Napoli rifiuta l’imposizione del tavolo da poker da condividere con il tracotante capomafia, Salvatore Colasberna, presidente di una cooperativa edilizia, intende mantenere l’autonomia imprenditoriale. Guai alle pecore nere: «Si capisce che se nove ditte hanno accettato protezione, formando una specie di consorzio, la decima che rifiuta è una pecora nera: non riesce a dare molto fastidio, è vero, ma il fatto stesso che esista è già una sfida e un cattivo esempio. E allora bisogna, con le buone o le brusche, costringerla ad entrare nel giuoco; o ad uscire per sempre annientandola», ragiona il Capitano.

Ritroviamo posta la questione della legge e della voce del diritto strozzata. Bellodi interroga l’indagato Rosario Pizzuco:
«E che cosa ha saputo, da sentire il bisogno di dare consigli a Colasberna?»
«Ho saputo che le sue cose andavano male: e gli ho consigliato di cercare protezione, aiuto…»
«Presso chi?»
«Ma non so…Presso amici, presso banche; cercando di infilarsi in politica per il canale giusto…»
«E qual è, secondo lei, il canale giusto in politica?»
«Direi quello del governo: chi comanda fa legge, e chi vuol godere della legge deve stare con chi comanda». La mafia, con quella che a fine Ottocento Leopoldo Franchetti definì democratizzazione della violenza figlia dell’abolizione del sistema feudale, ha sempre messo sul mercato e venduto il bene della protezione. Passò dall’instaurare un rapporto di reciprocità con il ceto dirigente, mediante l’erogazione di un servizio, all’autonomia.

Montalto riconosce e ci presenta la famiglia naturale quale asse portante della reticolata struttura ‘ndranghetista. Un microcosmo in cui i sentimenti in scena sono piegati alle necessità del comando. E Sciascia scrive: «(…) Pensava il capitano, che la famiglia è l’unico istituto veramente vivo nella coscienza del siciliano: ma vivo più come drammatico nodo contrattuale, giuridico, che come aggregato naturale e sentimentale. La famiglia è lo Stato del siciliano».

I due autori sono accomunati da un palese disprezzo per la compiacenza dell’area grigia politica, che dà linfa al sistema mafioso. «Anche lei è un uomo» – dice Bellodi all’intoccabile Don Mariano Arena. «E nel disagio che subito sentì di quel saluto delle armi scambiato con un capo mafia, a giustificazione pensò di avere stretto le mani, nel clamore di una festa della nazione, e come rappresentanti della nazione circonfusi di trombe e bandiere, al ministro Mancuso e all’onorevole Livigni: sui quali don Mariano aveva davvero il vantaggio di essere un uomo».

Il massaro Luigi avverte un soffocante senso d’impotenza; manifesta un dolore storicizzato. S’indigna il capitano Bellodi in licenza a Parma, al quale hanno inabissato l’inchiesta. Persone incensurate, insospettabili, per censo e per cultura rispettabilissime sottraggono l’ultima possibilità di ottenere giustizia mediante la legge. «Egli ormai era perfettamente convinto che la giustizia non avrebbe fatto più niente per vendicare suo figlio. Tutto si era messo a tacere specie dopo che i giudici avevano interrogato il medico, l’arciprete e l’assessore, alle cui dichiarazioni, in qualità di persone le più autorevoli e quindi le più attendibili del villaggio, non si poteva non dare il giusto peso. E poi sia i giudici sia i carabinieri erano stati sollecitati dai superiori i quali a loro volta personalmente dal deputato del collegio di non andare tanto per il sottile nella faccenda di ‘Cola Napoli. Anche perché non si poteva fare a meno di ammettere, che in vita era stato un individuo pericoloso, violento, seduttore di donne».

Saverio Montalto non è Leonardo Sciascia, ma ci ha lasciato un documento letterario di grandissimo valore. E noi, a un secolo di distanza, siamo ancora qui a romperci la testa sulle ramificazioni globali di una malapianta consustanzialmente moderna.


domenica 10 agosto 2014

Il calcio prima della televisione, Scirea-Maradona e gli eroi del mondo di sogno


di Gabriele Santoro

Roma – Da una parte del campo la Squadra d’oro, l’Aranycsapat, la grande Ungheria di Ferenc Puskás e Sándor Kocsis. Nell’altra metà l’undici dei sogni con, tra gli altri, Scirea, Platini e Maradona. Un rettangolo verde da inventare in soggiorno, con la moquette di casa ritagliata, e una montagna di libri a far da spalti, come fosse il Maracanà o l’Old Trafford. Futbolandia, altro che il Subbuteo commerciale, è l’universo mitico dell’infanzia narrata da Giancarlo Liviano D’Arcangelo. Un luogo dove costruire la prima visione del mondo, frammenti di gioia non turbabile, durante lunghi pomeriggi consumati disputando partite oniriche.

Gloria agli eroi del mondo di sogno
 (Il Saggiatore, 296 pagine, 16 euro) è un omaggio dello scrittore al mistero di una passione planetaria, che sovrappone il piano della realtà con quello della fantasia fanciullesca. «Il gioco è la perfetta parodia della vita, proprio perché della vita reale riesce a forzare l’ordine neutro e naturale delle cose, a ribaltarne le istituzioni dispiegate gerarchicamente, a rendere reversibile la linearità della parabola umana. In campo il rapporto tra l’uomo e la realtà è agonistico. Perché esploda è sufficiente una scintilla». Il calcio conserva così il potere di una forma di narrazione autonoma, che consente a chiunque la licenza di edificare ponti immaginari con l’esistente.

Diego Armando Maradona, l’hombre de la calle, non fece altro, al Mondiale 1986. Inventò il gol più bello della storia del calcio (il secondo contro l’Inghilterra), come ad affrancare il pensiero dalle catene della razionalità. Chi, in Brasile, si aspettava da Messi qualcosa di più, il gesto coraggioso e risolutivo, è un amante destinato all’infelicità. L’autore, in modo condivisibile, ricorda, senza nostalgie di maniera, quale sia il prezzo che stiamo pagando all’esasperazione del gioco, al calcio muscolare omologato e automatizzato: l’irreversibile perdita del genio creativo che diventa quasi un orpello.

 «Il calcio moderno, nato dalle viscere della società industriale, è sempre stato e sarà un’appendice ludica della struttura del mondo, del modo di produzione e dei principi decisivi che nel corso del tempo influenzano il divenire della società». Rinunciamo, dunque, alla pretesa illusoria di trovare nello sport professionistico un’oasi di purezza e redenzione dalle tribolazioni proprie della quotidianità. Il tempo del mito infantile si frantuma, ma non svanisce nell’attimo sospeso dal calcio d’inizio al triplice fischio finale. La bellezza non bisogna mai stancarsi di ricercarla nel campetto di periferia, in polvere battuta, che rimane una palestra di vita dal valore inestimabile. A Wembley, come al Fabbrica Rossa, un dribbling vincente libera l’anima. Non c’è applicazione tecnologica d’intrattenimento che tenga; equivale piuttosto alla lettura di un buon romanzo di formazione. S’impara a lottare per la vittoria, e a conoscere la sconfitta.

Sorprende con Lothar Matthaus. Rende giustizia a Maradona. L’intesa solidale dei madridisti Puskás e Di Stefano restituisce l’essenza di una disciplina, che richiede all’egoismo una cessione di sovranità in nome di un obiettivo superiore. Viene svelata la debolezza che sovente si cela dietro al campione; talento e solitudine spesso vanno a braccetto. L’airone Sándor Kocsis sembrava un angelo intoccabile; senza il calcio, come tanti, affondò nell’alcolismo fino al suicidio.
D’Arcangelo ha elaborato una galleria personale di miti. Ben inquadra, e colpisce, la descrizione del fuoriclasse Roberto Baggio: «(…) Conosceva un solo modo per esorcizzare quella malinconia corporea dipinta in viso: il tocco poetico. L’ultimissimo dei prìncipi inclini a guerreggiare con l’arma unica e sola del fantastico». Eleva Michel Platini a prìncipe del mondo di sogno. Emoziona con Gaetano Scirea, e la scoperta del dolore: «Il giocatore più corretto che abbia mai calcato un campo di calcio. Devi scegliere ciò che è giusto per poter camminare a testa alta tra gli uomini migliori, mi veniva detto, e nessuno come Scirea giocava a testa alta. Morire, e perché?»

Tanti nomi e cognomi importanti, ma sotto pelle ti conquistano anche i meravigliosi perdenti. Quelli che il talento tanto, ma il carattere, alla Dennis Bergkamp…Quelli che donano emozioni memorabili, e ti fanno disperare. Quelli che giocano per assecondare il senso dell’estetica. Oppure i mestieranti della middle class alla Terry Butcher; per i quali il pallone è fatica e sudore. Il libro, non eludendo la pervasività dei processi televisivi di mediazione, fornisce elementi per rispondere alla domanda di fondo: come può una semplice partita convogliare a sé l’attenzione di miliardi di persone e assurgere a ragion di Stato?