mercoledì 16 settembre 2015

Un patriota siciliano. Giovanni Falcone e gli Stati Uniti


di Gabriele Santoro

«(…) L’Ambasciatore ha chiamato il Segretario generale del Presidente Cossiga, Sergio Berlinguer, per manifestargli le proprie preoccupazioni. Berlinguer ha assicurato all’Ambasciatore che la questione sarà chiarita domani e che l’impegno antimafia sarà rafforzato. (…) Gli Stati Uniti hanno un forte interesse a preservare il pool e i magistrati che ne fanno parte. Le nostre agenzie di investigazione hanno una forte e attiva collaborazione con l’Ufficio Istruzione di Palermo.
Questa relazione, sia personale che professionale, è cresciuta negli ultimi otto anni e si è dimostrata indispensabile nel successo di indagini e di procedimenti svolti congiuntamente in Italia e negli Usa in casi di criminalità organizzata e traffico di stupefacenti. Nonostante che l’Ufficio Istruzione di Palermo sia piccolo, si occupa di molte delle più importanti inchieste di comune interesse tra i nostri Paesi. Ogni cambiamento significativo nel personale del pool, e particolarmente la perdita di Giovanni Falcone, danneggerebbe questi procedimenti».


Agli americani piaceva quel magistrato palermitano tenace. Lo consideravano insostituibile, alla stregua di un proprio eroe nazionale. Falcone era l’unico che potesse offrire una visione d’insieme, completa, del crimine transnazionale. Aveva fatto comprendere loro la proiezione internazionale del crimine organizzato. Per dirla con le parole di William Sessions, già direttore del Federal Bureau of investigations: «Ci aiutò a prendere consapevolezza del fatto che per sconfiggere le mafie era necessaria una più stretta collaborazione di tutte le agenzie di law enforcement». Ne ammiravano il coraggio, la coerenza dell’impegno, la capacità di soffrire, di sopportare molto più degli altri senza arrendersi mai. Aveva conquistato senza servilismi la fiducia necessaria a soddisfare interessi reciproci. Amavano la sua concretezza e le capacità di analisi. Gli americani non hanno dimenticato Falcone.

Le righe d’apertura rappresentano molto, ma non tutto, di una relazione speciale, che ha fatto esercitare i professionisti dell’italica arte del sospetto. È un estratto del cablogramma confidenziale E14, datato 3 agosto 1988, mittente l’Ambasciata statunitense a Roma, destinatario il Dipartimento di Stato. Lo possiamo leggere grazie al lavoro prezioso di Giannicola Sinisi, all’epoca giovane magistrato pugliese, appena giunto a Roma, che Falcone volle al suo fianco nel lavoro da Direttore degli affari penali del Ministero della Giustizia. Un patriota siciliano, così Rudolph Giuliani soprannominò il Giudice. A sicilian patriot (Cacucci editore, 134 pagine, 10 euro) è il titolo scelto da Sinisi per un contributo davvero originale, seppure parziale per sua stessa ammissione, a una storia ancora da scrivere.

Sinisi, magistrato della Corte di appello di Roma, con un’esperienza parlamentare e da sottosegretario al Ministero dell’Interno, è stato dal 2009 al 2013 consigliere giuridico presso l’Ambasciata italiana a Washington DC. Ha avuto la fortuna di chi sa dove cercare e quella delle coincidenze quando hanno un’anima. Una mail di Daniel Serwer, vice capo missione dell’Ambasciata statunitense a Roma dal 1989 al 1993, gli ha segnalato l’opportunità di chiedere al Dipartimento di Stato i cablogrammi, che a sua memoria contenevano elementi d’interesse, intercorsi tra le due capitali negli ultimi anni di vita di Falcone. Ma il tempo non tradisce ancora ragioni di riservatezza, motivi di classificazione, ostativi alla completa divulgazione. In un primo momento la richiesta di Sinisi, datata 26 ottobre 2010, s’inabissò nel polverone del caso Wikileaks.

Un incontro fortuito, una svolta, in qualche modo ha sbloccato poi la pratica. Dopo una lezione tenuta al Foreign Service Institute, dove vengono addestrati i diplomatici statunitensi e funzionari delle agenzie federali, una studentessa riconobbe nel docente il mittente dell’istanza depositata al Dipartimento di Stato. Una pratica che la stava occupando. Non toccarono l’argomento, ma a un mese di distanza, nel mese di marzo 2011, il magistrato pugliese ha ricevuto il plico con parte dei documenti richiesti. Ventisette cablogrammi rilasciati integralmente, quattro con degli omissis, uno non rilasciato, ancora disposto il mantenimento della classificazione di segreto, nove da rintracciare e richiedere ad altre agenzie originatrici, che avrebbero dovuto autorizzare la declassificazione. Nell’aprile 2012, disattendendo abbondantemente i tempi tecnici, il Fbi consentì l’accesso a solo uno di quei nove documenti.

«Così moriva la mia fiducia nel sistema amministrativo statunitense, il mio apprezzamento per l’intuizione democratica di Lyndon Johnson del Freedom of information act e del tempo trascorso per cui un’indagine del 1989 non avrebbe potuto essere considerata ancora soggetta a segreto», ha scritto l’autore.

Il materiale ottenuto tuttavia riesce a ritrarre un punto di vista compiuto, le reazioni del partner atlantico nel susseguirsi degli eventi di una storia italiana cruciale. A sicilian patriot sembra quasi assolvere a una necessità espressa limpidamente anni fa da Maria Falcone, sorella del giudice.
«Molti lo ricordano ancora oggi per il rigore delle sue indagini, riconoscendogli, anche a livello internazionale, la grande professionalità e il merito di avere scoperto cosa significasse Cosa Nostra. Pochi ricordano i momenti più tragici della sua vita e gli attacchi subiti anche da chi riteneva amico e il grande isolamento in cui fu costretto a vivere, rendendo ancora più pericolosa la sua vita».
Queste parole sono tratte dalla prefazione di una raccolta di testi (Falcone e Borsellino, la calunnia, il tradimento, la tragedia) altrettanto interessante, curata da Giommaria Monti e venduta insieme alla vecchia L’Unità, metà anni Novanta. Le numerose battaglie perdute, lo sconforto, l’amarezza mitigata dalla fermezza paradossalmente accrebbero la sua figura e la stima delle autorità d’oltreoceano.

A tal proposito Sinisi ha affermato: «La sensazione che ho ricavato è che negli Stati Uniti la considerazione di chi lo ha incontrato è persino maggiore che in Italia; e ho fatto una grande fatica, anche morale, a darmene una spiegazione. Negli Usa ho constatato un’ammirazione pura, senza riserve e senza interessi. Ho cercato di immaginare un Giovanni Falcone nato e vissuto negli Usa». Per poi aggiungere: «La prima statua di Falcone è stata eretta a Quantico nell’accademia del Fbi, nel 1994, mentre per avere una lapide commemorativa al Ministero della Giustizia si dovette aspettare fino al 2002, e a Capaci anche di più». I colleghi americani non hanno mai mancato una commemorazione, qui e là.

Dopo Capaci l’ambasciatore Peter Secchia organizzò un incontro privato con i familiari di Falcone, accompagnati in quell’occasione da Sinisi. Fa una certa impressione leggere alcune dichiarazioni dello stesso Secchia riguardanti il rapporto con la famiglia: «“L’ambasciatore è l’unica persona di cui ci fidavamo, il nostro Stato non è stato in grado di proteggere mio zio”. Dagli effetti personali del giudice mi spedirono una penna. Ciò mi commosse profondamente», ha rievocato in un’intervista del giugno 1993 per The Association for Diplomatic Studies and training. Due giorni prima dell’attentatuni Falcone consumò un’ultima cena a Villa Taverna.

I cablogrammi rappresentano la soddisfazione americana per l’opera compiuta con la costruzione del valido impianto accusatorio del Maxiprocesso, accolto dalla corte di Palermo, e dell’esito delle sentenze. A fronte del risultato ottenuto non riuscirono a capire gli attacchi, le polemiche, le campagne degli ipergarantisti avversi alla cultura dei maxiprocessi, “tomba del diritto”, quando la creatura processuale di Falcone era un’esigenza dettata dalla struttura e dalla storia di Cosa Nostra.
L’Ambasciata seguì con la massima attenzione la fase di passaggio confusa dopo l’addio del consigliere istruttore Antonino Caponnetto. L’uomo, tornato in Sicilia per proseguire il lavoro intrapreso da Rocco Chinnici, quando lasciò aveva una certezza. Falcone avrebbe dovuto guidare l’Ufficio Istruzione di Palermo, invece dopo un decennio di lotta l’anomalia palermitana stava per essere accantonata dalla stagione della restaurazione, della normalizzazione giudiziaria. «Ho avanzato la mia candidatura ritenendo che questa fosse l’unica maniera per evitare la dispersione di un patrimonio prezioso di conoscenze e di professionalità che l’ufficio a cui appartengo aveva globalmente acquisito», scrisse Falcone.

Il 19 gennaio 1988 il Csm per quella carica indicò Antonino Meli. Questione d’anzianità, dissero.
«L’efficienza della giustizia, nel settore fondamentale, anzi vitale per il paese, della repressione della criminalità organizzata, deve alimentarsi della forza della intera compagine giudiziaria, vista come attivazione diffusa, volontà diffusa di impegno, responsabile potere diffuso, ai vari livelli. Accentrare il tutto in figure emblematiche, pur nobilissime, è di certo fuorviante e pericoloso. Ciò è titolo per alimentare un distorto protagonismo giudiziario, incentivare una non genuina gara per incarichi giudiziari di ribalta, degradare un così ampio impegno in una cultura da personaggio», dalle parole di Umberto Marconi, relatore in commissione, durante il Plenum del Csm nella seduta per la nomina di Meli.

Come si evince dal cablogramma del 3 agosto 1988, sopracitato, l’ambasciatore Maxwell Raab la pensava diversamente e vedeva mettere a rischio l’attività del pool: «Se il Comitato antimafia del Csm ha sostenuto Meli nel tentativo essenzialmente di abbandonare il metodo del pool per combattere la mafia, lo sforzo antimafia italiano potrebbe essere severamente danneggiato e gli interessi degli Stati Uniti potrebbero essere messi in pericolo». Sinisi sottolinea come l’Ambasciata avesse piena consapevolezza della necessità del pool: «Ha dimostrato di essere uno strumento di successo sia a fine di sicurezza dei magistrati sia come mezzo per una maggiore efficacia delle indagini. È difficile immaginare che i casi portati alla loro attenzione avrebbero potuto essere perseguiti».

Sette mesi dopo l’insediamento di Meli, Paolo Borsellino lanciò il classico macigno nello stagno con due interviste detonanti: «Ci sono seri tentativi per smantellare definitivamente il pool antimafia. Stiamo tornando indietro come dieci, vent’anni fa. Adesso la filosofia è che tutti si devono occupare di tutto. Si perde inevitabilmente la visione del fenomeno spezzando in tronconi le inchieste. Dalle uccisioni di Cassarà e Montana non esiste una sola struttura di polizia in grado di consegnare ai giudici un rapporto sulla mafia degno di questo nome». L’azione investigativa di Cassarà fu fondamento del Maxiprocesso. Con Falcone condivise la premessa dell’organizzazione unitaria e segreta di Cosa Nostra e che gli avvenimenti che ne segnavano la vita fossero rispondenti a una strategia unica.


Il 30 luglio 1988 giunsero le dimissioni, poi respinte, di Giovanni Falcone dall’Ufficio Istruzione. Ruppe il riserbo per reagire a quelle che definì “infami calunnie e una campagna denigratoria di inaudita bassezza”. A distinguersi sulla stampa Il Giornale di Sicilia e Il Giornale di Indro Montanelli. «Quel delicatissimo congegno che è costituito dal gruppo cosiddetto antimafia è ormai in stato di stallo. Paolo Borsellino, della cui amicizia mi onoro, ha dimostrato ancora una volta il suo senso dello Stato e il suo coraggio denunciando pubblicamente omissioni e inerzie nella repressione del fenomeno mafioso sotto gli occhi di tutti», scrisse Falcone al Csm nella lettera di dimissioni.

L’Ambasciata preoccupata dal possibile venir meno di una collaborazione strategica sollecitò energicamente il Quirinale sulla questione, che aveva ormai invaso le sedi politiche e istituzionali. Il Presidente Cossiga chiese l’intervento del Csm ed esercitò una pressione irrituale sull’organo di autogoverno della magistratura, assumendo l’iniziativa di trasmissione alle Camere degli atti e della decisione del Comitato antimafia del Csm. Fra il 30 e il 31 luglio Meli, Borsellino e Falcone vennero ascoltati dal Csm e una trattativa serrata produsse il 2 agosto 1988 un documento del Comitato antimafia, in cui si raccolse l’input del Colle con un’inversione di marcia che ribadì i meriti e la centralità dell’esperienza del pool antimafia. Tuttavia il Csm lasciò irrisolti i nodi delle “disarmonie” riscontrate, “che debbono ritenersi certamente superabili nello spirito di fiduciosa collaborazione”, inviando a Palermo Vincenzo Rovello, capo degli ispettori del Ministero di Grazia e Giustizia. In realtà non era un bisticcio togato. La parcellizzazione delle inchieste, la conseguente frantumazione dei processi, il criterio della competenza territoriale, negava il principio dell’unicità di Cosa Nostra. E a Washington non convinse la presunta pacificazione del Csm.

Qual è la genesi dell’interesse americano? Ce la racconta Carmine Russo, un superpoliziotto, un agente del Fbi. Nel giugno 1982 viaggiò per la prima volta direzione Palermo, per portare e scambiare personalmente informazioni con il giudice. Qualche mese più tardi a ottobre, presso l’accademia Fbi di Quantico, il secondo incontro, che Russo non esita a definire storico. Falcone e Chinnici volarono negli States per un summit lungo una settimana: «Falcone incitò tutti noi a una cooperazione diretta. C’erano fiducia reciproca e un comune modo di sentire». Rimasero colpiti dal carisma naturale che Giovanni esercitava e dai successi delle operazioni Pizza connection e Iron Tower. Judge Falcone had been our best contact with the italian relationship on prosecutorial and anti-mafia activities, sintetizzò nel 1993 Secchia.

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